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Agire contro giudizio
Medea, Eugène Delacroix, 1862
I§.
Ci troviamo nel Musée des Beaux Arts, a Lille. Siamo di fronte a un quadro di Delacroix, pittore francese dell’ottocento, che ritrae la figura di Medea, ricordandoci la tradizione del mito. La principessa della Colchide, figlia di Eete e nipote del Sole, è qui impressionata nell’atto più conflittuale della sua vicenda, quella consegnataci dalla tragedia di Euripide nel 431 a.C. e che la vuole abbracciata ai suoi figli, con un pugnale in mano e un’intenzione oscena piantata nell’aorta. Medea è infatti la maga che, per vendicarsi dell’abbandono di Giasone, il capo della spedizione degli Argonauti, è disposta a uccidere i propri bambini. Ma non esattamente a sangue freddo. Sulla tela i tratti appaiono inequivocabili, pronti a suggellare con convinzione ciò che invece è la smorfia di una insicurezza, di un conflitto o di un fare contraddittorio. Un viso reclinato a destra che sembra rifuggire all’efferatezza del gesto, con uno sguardo stranito, rivolto altrove, oltre la riluttanza che lei stessa si infonde e si riconosce per quanto sta per compiere. Medea agisce in quel momento, per certi aspetti, contro il suo miglior giudizio, in opposizione a un parere che viene conteso tra l’amore materno e il desiderio di riscatto, di per sé incompatibili. Come in un gioco di alternanza tra figura e sfondo, il suo ragionamento sarà schierato a difesa dell’identità di madre in una circostanza, o affrancato da essa nella prospettiva della sposa ripudiata in un'altra situazione, densa di altri significati. Ai nemici di Corinto, alle loro risa, o alle grazie di Glauce – sua rivale in amore – è così affidato lo specchio per l’infanticida, lei stessa, vessillo di un copione che si adopera nel ricucire un’immagine violata, oltraggiata dagli scherni; per ristabilire ai propri occhi e con ogni mezzo consentito, un equilibrio di giustizia nel rapporto tra sé e il mondo che la ospita. Tuttavia Medea non agisce nemmeno perché mossa da una passione irrefrenabile, o perché il suo stato di coscienza risulta, al momento dei fatti, onnubilato. Non è il pharmacon di cui peraltro possiede l’arte a brandire la lama, né la follia a tesserne le ragioni. Ma una consapevolezza attenta, intenzionata, è l’azione voluta e detestata nello stesso frangente che la rende terribile, mostruosa a giudizio dei greci antichi. E a giudizio suo – di una parte di lei – certamente.
E’ questa contraddizione a caratterizzare il mito e a costruirlo come qualcosa di a-temporale; un emblema a cui le varie epoche modificano i connotati, interpretando, decodificando sopra i suoi assi una matrice esplicativa per l’agire umano e per i suoi tormenti. Si erge perciò un tempio e a esso si dedica il culto delle inquietudini e degli interrogativi più imperiosi: perché qualcuno può agire contro giudizio? Come può accadere una cosa simile? E per chi avesse ancora dubbi sull’occorrenza di questo fenomeno, si invita ora a un rapido passaggio a est tra i viottoli di San Pietroburgo, dove Dostoevskij, dal sottosuolo, pone la questione agli esperti: “Oh, dite, chi è stato il primo a dichiarare, chi ha proclamato per primo che l’uomo fa il male unicamente perché non conosce i suoi veri interessi (…)? E come sbrigarsela coi milioni di fatti comprovanti che gli uomini scientemente, ossia, pur intendendo benissimo il loro vero tornaconto, l’hanno lasciato talvolta in secondo piano e si sono buttati per un’altra via, al rischio, all’avventura, senza esservi costretti da niente e da nessuno (…)?”.II§.
Come sbrigarsela? Come risalire a una spiegazione, una comprensione per quelle azioni problematiche che sembrano violare le nostre capacità deliberative? Se dovessimo stabilire una preferenza, decidere ad esempio di passare la domenica in casa a prepararci per l’esame di lunedì, e di lì a poche ore rispondere al telefono e organizzare per lo stesso giorno una gita al lago con gli amici, quale intento avremmo tradito? Probabilmente se qualcuno venisse a domandarcelo, se ci proponessero cioè di organizzare le nostre preferenze in ordine gerarchico e attribuire un peso a ogni oggetto riposto sul piatto della bilancia, non avremmo difficoltà ad ammetterlo; a rispondere al nostro interlocutore e a una parte di noi stessi che l’intenzione era quella di studiare, tutto sommato, che la riuscita all’esame era per noi lo scopo principale, diremmo dopo: il nostro miglior giudizio.
Davidson (1980) indicò schematicamente le condizioni base per definire un’azione x come problematica, nell’accezione in cui ne stiamo parlando:
- l’agente compie x intenzionalmente;
- l’agente crede che ci sia un’azione alternativa y a lui aperta;
- l’agente giudica che, tutto considerato, sarebbe meglio fare y anziché x.
I filosofi che si occuparono di temi simili li definirono come questioni paradossali, irrazionalità motivate, azioni – piuttosto comuni, come abbiamo visto – che sembrano tuttavia valicare i presupposti di razionalità e determinazione, ma anche quelli appunto della doxa, del libero arbitrio e del buon senso. Akrasia. Questo era il termine con il quale Aristotele si rivolse alle azioni devianti, sorte in contrasto apparente alla volontà, quasi a sottolineare una mancanza della stessa, uno squilibrio della forza d’animo che andava ad annidarsi tra il buon intendere e il comportamento che ne consegue, un gesto, a impressione di tutti, valutato come intemperante e amputato della virtù della continenza. Non a caso l’akrasia è argomento ricorrente della filosofia morale, come vedremo, essa nasce innanzitutto come categoria normativa già preposta a connotare in forma giustificativa un certo corso d’azione, assumendo non tanto la prospettiva dell’agente, quanto piuttosto quella di un osservatore impegnato nella formulazione di un giudizio di valore e nella salvaguardia di una fede condivisa. Allo stesso modo il vaticinio dantesco, ergendosi come ponte allo spirito cristiano, registrava questi casi come “peccati” d’incontinenza o della lonza – lussuria, gola, avarizia e iracondia – facendo punire nei gironi secondo, terzo, quarto e quinto dell’Inferno coloro i quali “la ragion sommettono al talento”. Ma se dovessimo definire la Ragione come un impianto normativo, un sistema più o meno esplicito di regole, e assimilare l’irrazionale a un’agito che deroga da tali regole, a quali specifiche prescrizioni stiamo contravvenendo nel caso dell’akrasia? Quali sono cioè gli elementi che fanno dell’agire akratico un’esperienza tanto comune e contemporaneamente tanto gravosa per le attuali teorie della mente?
Supponete un uomo che abbia deciso di non fare l’elemosina per strada al fine di non incentivare lo sfruttamento minorile; immaginate poi che lo stesso uomo si sia trovato a parlare con uno di quei ragazzi, nel pomeriggio, e avesse allungato, senza troppo riserbo, qualche banconota nelle mani del giovane. In che misura il suo gesto rientra nelle condizioni di akrasia? E quanto possiamo differenziarlo, escludendo gli impliciti morali, dalle infedeltà amorose di un casanova, piuttosto che dalle caricature di un fumatore incallito che a suo dire “smetteva di fumare ben dieci volte al giorno”? Il ragionamento sillogistico propugnato dalla tradizione razionalista sarebbe stato il seguente:
- Io vorrei che nel mondo non esistesse la prevaricazione e che tutti avessero pari diritti.
- Evitare che qualcuno venga prevaricato e sfruttato mi richiede di boicottare i circuiti che perpetuano tali organizzazioni e quindi di ignorare la richiesta di denaro di questo ragazzo.
- Non darò soldi e agirò secondo i miei ideali.
Seguendo il binario della logica aristotelica, la conclusione appare ovvia, scontata. Del resto, il fatto che l’uomo si sia invece comportato diversamente apre a una questione non tanto di malafede, quanto di irragionevolezza sul piano logico, di incoerenza potremmo dire, o meglio di uno spostamento rispetto a quell’insieme di regole che la condivisione di una certa premessa implicitamente prescrive. Il principio di non-contraddizione affermato dal precetto razionalista su cui è forgiata buona parte della psicologia del senso comune viene, in questi casi, infranto: affiliarsi per esempio al tema dell’onestà, riconoscersi cioè come persone oneste e affidabili, ricavare da queste immagini criteri valutativi e giudizi in merito a questioni di priorità, non equivale tuttavia a garantirci che un tale ordine ideologico ci consenta poi di agire onestamente in ogni situazione. In questo senso, Gauld e Shotter affermarono che “non c’è alcun limite alle astuzie di Satana né alle forme in cui la tentazione può fare presa. Di conseguenza non si possono progettare in anticipo quelle azioni che un uomo onesto potrebbe decidere di compiere allo scopo di mantenersi onesto, né si possono progettare le circostanze relative”.
A quanto sembra l’analisi dell’azione, da sempre dominio dell’ente individuo, suggerisce ora la necessità di estendere la natura del suo oggetto al sistema che lo incorpora, e di modificare le leggi esplicative con cui si era soliti definire il rapporto tra le parti: nella comprensione di un agito umano infatti, è necessario non solo abbandonare le attribuzioni lineari tipo causa – effetto, ma pure, almeno in una certa misura, ridimensionare le inferenze logiche che porterebbero a legiferare in termini razionali la corrispondenza tra miglior giudizio e azione. Il contesto, le scene dove vengono impressionati gli atti della vita quotidiana, generano infatti un campo interattivo peculiare in cui le risposte degli altri (reali o interiorizzati che siano), l’immersione in schemi normativi plurimi e contradditori, o i passaggi e le identificazioni di ruolo assunte, credute e rese credibili, producono una semantica loro propria, ovvero, fanno acquistare ad ogni singolo evento un significato locale e situato.
Prendete, ad esempio, un racconto di sbronze di Bukowski, scorrete il dito fino alla pagina nella quale, immancabilmente, si rifiuta l’alcol, forse in preda ad una lucidità ispirata dai ricordi barcollanti del giorno prima o dai capogiri del risveglio; soffermatevi poi sulla lista delle buone intenzioni, i propositi da seguire, come fosse un diario o un blocchetto di promemoria per gli impegni di condotta. No. Oggi non si beve vino. Senza troppe controindicazioni gli pare sensato, delibera in favore di questo suo giudizio, di questa parte di Sé che lo vuole presente, pulito, con la camicia croccante e stirata dell’impiegato che dovrebbe essere e vorrebbe apparire. Ma poco avanti la penna scorre e gli scenari mutano, un tavolino da bar, un uomo che lo riconosce a metà, un bicchiere che gli viene servito quasi per abitudine, o per famigliarità al gesto. Forse un contrassegno di questa altra identità, differente, con il portamento dimesso e gli abiti trasandati.
Parliamo di akrasia, anche in questo caso. Di qualcuno che ha tradito una sua intenzione o ne ha privilegiato un’altra, secondaria da un certo punto di vista. Parliamo, come diceva Wittgenstein, di regole del gioco che cambiano, di coordinate che modificano la rappresentazione di sé e alterano la struttura discorsiva che sorregge l’aspetto simbolico legato alla fattualità dell’azione e agli elementi che concorrono al suo esito. Un atto, diremmo questa volta, veicolo di significati contestuali e di ragioni per fare o non fare la cosa giusta, o per riconoscerne una come quella migliore e l’altra come quella da agire. Come scrive Searle “le ragioni che giustificano la mia azione, e che così spiegano perché essa era l’azione giusta da compiere, possono non essere uguali alle ragioni che spiegano perché io, di fatto, ho compiuto quell’azione”.
L’acquisizione di nuove informazioni o la raccolta di dati volti a corroborare la fondatezza del miglior giudizio rappresentano, in questi casi, degli indizi pedagogici poco risolutivi; dire che l’abuso di alcol è dannoso o imparare che la sua tossicità provoca una inibizione della trasmissione sinaptica della zona reticolare encefalica non sarà sufficiente a modificare un particolare atteggiamento nei confronti del bere vino o di quegli ambiti che ne prescrivono, a incastri rituali, l’assunzione. Il giudizio violato in condizioni di akrasia può essere addirittura scontato, in qualche modo già posseduto dal soggetto a certi livelli di consapevolezza, ma non agito nella sfera quotidiana o non padroneggiato nelle sue implicazioni, come se fosse avulso della possibilità di supportare e guidare in maniera significativa il comportamento dell’agente.
Questo perché l’identità psicologica sperimentata come riferimento per l’azione è innanzitutto un processo mutevole e transitorio, polisemico e relazionale: un effetto mediato da codici di senso e significato che viene generato dal rapporto che un individuo intrattiene con altri enti, siano questi i genitori o i vicini di casa, i girasoli di Van Gogh o il colore amaranto di una bottiglia. Intenzionalità legate al contesto, rappresentazioni di sé rinegoziate nell’interazione con altri, consentono perciò una ristrutturazione delle alternative a noi accessibili e un’articolazione delle nostre azioni che è innanzitutto diretta a cogliere l’urgenza del qui ed ora, sostenendo la metrica del canovaccio evocato a compiacimento della platea presunta o immaginaria.
Ma se è vero che il nostro Sé è rappreso nelle architetture simboliche che ci circondano, se è vero cioè che la nostra auto-percezione è consegnata più alle raffigurazioni frammentate di un autore cubista piuttosto che ai tratti solidi e lineari di un ritrattista classico, quale margine avrebbe l’akrasia di presentarsi all’esperienza? Ovvero, in che misura noi saremmo ancora nella condizione di sostenere un miglior giudizio, di affidarci a esso o di sentirci oppressi nel tradirlo nel momento in cui allo spauracchio del rammarico sostituissimo l’alibi della complessità?I Girasoli, Vincent Van Gogh, 1888
III§.
J.J. Rousseau affermava che “una cattiva azione non ci tormenta appena compiuta ma a distanza di tempo”. Tempo che può essere più o meno dilatato: un giorno, un’ora, un istante. O l’istante precedente, tanto per non attribuire importanza alla direzione, ma al senso del movimento: il passaggio da uno stato mentale all’altro. In Delitto e Castigo, ad esempio, Raskòl’nikov si mostra spesso incline a portare avanti l’opportunità per il suo crimine pur detestandolo, come se la sua coscienza fosse di fatto divisa, imbrigliata in una metodica oscillazione; ora cinica e calcolatrice, ora proiettata verso un tempo successivo, tesa ad anticipare l’oppressione per un senso di colpa allucinato e incarnato nella gravità dei suoi intenti.
Tuttavia non servirà barattare la nostra introspezione con risme di letteratura russa per cogliere quanto il nostro senso di identità sia effettivamente sospeso e fluttuante tra due poli, da un lato l’esperienza plurima e frammentata delle rappresentazioni di sé, e dall’altro l’esigenza integrativa di restituire continuità e coerenza al nostro vissuto. William James chiariva la natura di questo processo mettendo in luce una duplice funzione del sé, ovvero la possibilità che esso ha di porsi quale “soggetto conoscente” (io) e come “oggetto conosciuto” (me); un altalenarsi questo, che ci rende attori e osservatori di noi stessi – ma in dimensioni insormontabili: come se la prospettiva di un uomo che agisce fosse di per sé incommensurabile all’ottica di quel sé stesso che placidamente la osserva, distaccato. Un atto – quello che appare al sé riflessivo – svuotato e inautentico, camuffato o sorprendente nei suoi esiti, come nei casi di akrasia, quasi fosse compiuto da altri, agito da chi non si appartiene completamente o da una mano che non si riconosce se non nei contorni della sua immobilità.
Possiamo allora determinare per certi aspetti ciò che stiamo per fare, naturalmente. Eppure il sé effettivo che si mostra in quell’azione aspetterà, per mostrarsi, il compimento dell’azione stessa; e sarà fuggente, sospeso in una riflessione in divenire che rinvia all’afonia di un sé che siamo stati e che non possiamo più tornare a essere.
L’azione appare ora come un evento, di cui ne siamo consapevoli, colto nella nostra memoria in un reticolo di antecedenti presunti e conseguenze più o meno evidenti. E l’akrasia ha di nuovo la possibilità di ricomporsi come forma qualitativa al nostro sguardo, al nostro essere osservatori di noi stessi. Come in una allucinazione autoscopica, le diverse lacerazioni biografiche, le impersonificazioni di ruolo, le rappresentazioni multiple di sé giocate nelle situazioni, vengono di fatto appiattite e riconsegnate a quel senso di unicità che ci pervade; le posizioni occupate affrancandoci da una parte di noi stessi, i mondi possibili abitati, vengono poi ridimensionati entro i confini della sola realtà stabilita dalla nostra auto-consapevolezza. Forse quella abituale, o forse quella temporaneamente evocata dall’altro che in quell’istante ci riconosce.
Ogni azione giudicata incontinente è peraltro frutto di un processo discorsivo entro cui l’azione stessa viene colta sopra lo sfondo di un intreccio narrativo e delle sue regole implicite. In tale scenario, la trama di ragioni che si può originare diviene l’arbitro giustificatore di un certo corso d’opera, una re-interpretazione della realtà che ricostruisce moventi e responsabilità di un determinato fatto. Come scrive Smorti, per questi eventi devianti le narrazioni costruiscono una cornice nella quale essi vengono ordinati, resi comprensibili, ricordabili e comunicabili. I copioni danno per scontato che il comportamento sia adeguato alla situazione e, nella misura in cui esso rispetta certe norme di previsione, si presenta come autoesplicativo. Quando il comportamento viola queste aspettative di adeguatezza, si entra nell’imprevisto e nell’incertezza. La narrazione prende allora in esame le ragioni di questa eccezione, costruendo un mondo possibile nel quale questa eccezione acquista un significato. Ciò può essere fatto, ad esempio, trovando uno stato intenzionale che mitiga o rende comprensibile la deviazione da uno schema concettuale canonico.
L’akrasia è in questo senso un fenomeno fittizio, non ontologico, ma definito interattivamente e mutevolmente in particolari contesti. Sempre a rischio, o a beneficio, di scomparire oltre la compagine di autoinganni a cui la nostra mente affida la sua sorte, invocando clemenza.
Riferimenti Bibliografici
350 a.C.. Aristotele, Etica Nicomachea, Rusconi, Milano, 1993.
1972. Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia, Feltrinelli, Milano, 1975.
1980. Donald Davidson, Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna
1866. Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo, Einaudi, Torino, 1981.
1864. Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Einaudi, Torino, 1988.
1986. John Elster (a cura di), L'Io multiplo, Feltrinelli, Milano, 1991.
1977. Alan Gauld, John Shotter, L'azione umana, Città Nuova, Roma
1890. William James, Principi di Psicologia , Principato, Messina.
1776. Jean Jacques Rousseau, Le passeggiate del pensatore solitario, Utet, Torino, 1939.
2001. John R. Searle, La razionalità dell'azione, Raffaello Cortina Editore, Milano. 2003.
1994. Andrea Smorti, Il pensiero narrativo, Giunti, Firenze.
1953. Ludwig Wittgenstein, Ricerche (Investigazioni) filosofiche, Einaudi, Torino, 1967, 1999.