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Per una ricostruzione del pensiero postmoderno
Riassunto della conferenza tenuta dal prof. Francesco Lamendola a Treviso, presso l'aula magna della Scuola media "Arturo Martini", il 20 aprile 2007, per l'Associazione Eco-Filosofica e l'Associazione per la Decrescita Sostenibile.
La modernità, il cui avvento è segnato dai due eventi capitali della Rivoluzione scientifica del XVII secolo e da quella industriale del XVIII, è stata caratterizzata da una sistematica distruzione di quella forma di pensiero accogliente ed equanime (che il pedagogista Raffaello Lambruschini definiva "Intelletto d'amore") a favore di un Logos brutalmente strumentale, interessato solo ad ottimizzare il rapporto mezzi-fini e non alla ragionevolezza intrinseca di questi ultimi. Da ciò è conseguito un predominio schiacciante delle filosofie dell'azione su quelle della contemplazione, del fare sul comprendere, del manipolare sull'armonizzare, culminato nella costruzione di un apparato tecno-scientifico che è divenuto norma a se stesso e al quale sono subordinati fini e valori. Il risultato è quel caratteristico miscuglio di strapotenza materiale e di disperato nichilismo esistenziale che si traduce in un necrofilo "cupio dissolvi", ansia di auto-distruzione che sembra possedere la cultura moderna come un'infestazione demoniaca.
A tutto ciò occorre reagire denunciando ogni forma di degradazione del "télos", del fine per cui ogni ente è chiamato all'esistenza, in nome di una visione del mondo e della vita basata sulla irriducibilità degli esseri a cose, delle loro ragioni intrinseche a profitti economici, della loro dignità insopprimibile a valore d'uso. Contro i cattivi maestri di un pessimismo funzionale alle logiche del dominio, dello sfruttamento e dello spreco occorre ricostruire tutte quelle sensibilità, quelle forme di pensiero e quelle pratiche che valorizzano il sì alla vita in tutte le sue forme e che restituiscono agli esseri la loro dimensione spirituale e trascendente, nella prospettiva di un abbraccio cosmico che tutti li comprende e li realizza pienamente, dall'umile filo d'erba alla personalità più creativa, ricca e vigorosa.
[La conferenza è preceduta dalla visone di uno spezzone del film di Akyra Kurosawa Dersu Uzala, del 1975 , premiato al festival di Cannes del 1976, per introdurre la riflessione sui temi del rispetto verso tutti gli enti, della riscoperta di un'anima in ciascuna cosa, e sui valori della sobrietà, della generosità, della necessità di adottare uno stile di vita capace di tradursi in un'impronta ecologica "leggera", ossia nel saper camminare in punta di piedi nella dimora accogliente della Natura, onde serbarla intatta per le generazioni future di tutti i viventi - e non solo degli umani. Al termine della conferenza si è svolto poi un ampio dibattito che ha coinvolto il pubblico].
L'argomento della nostra conversazione di stasera è: "Per una ricostruzione del pensiero post-moderno". Perché post-moderno, e perché ricostruzione?
Partiamo dalla prima domanda. Post-moderno non per amore delle pretese avanguardie culturali, non perché dopo le meraviglie della modernità si voglia ora andare verso una super-modernità, verso una modernità all'ennesima potenza. Infatti, diciamolo subito, per noi la modernità è una categoria del pensiero che si è caratterizzata, purtroppo, prevalentemente per i suoi aspetti negativi. Quali? Nel mio saggio Francesco Petrarca e lo spirito della modernità ne ho evidenziati particolarmente cinque, che qui riassumo:
1) Una curiosità desacralizzata verso gli enti, originata dalla volontà di dominio (le cose non hanno un valore e una dignità intrinseca: sono soltanto mezzi o strumenti nelle mani di un Logos calcolante e strumentale);
2) Un profondo disprezzo nei confronti del "vulgus", che si è tradotto in una idolatria dell'esistente e, in particolare - specialmente con Hegel - della storia. A torto si pensa che l'atteggiamento politico caratterizzante della modernità sia il democraticismo; prevale, invece, un atteggiamento aristocratico: il sovrano "illuminato" che impone dall'alto le riforme; lo scienziato positivista che sancisce per legge vaccinazioni obbligatorie; il comitato centrale dei partiti marxisti che interpreta quale sia la volontà del popolo non mediante libere elezioni, ma mediante la dittatura (e questa è la cosa più ironica) in nome del proletariato.
3) Una ipertrofia dell'ego spinta fino al delirio solipsistico (nella realtà esterna lo spirito moderno non vede che altrettanti specchi auto-riflettenti; come vediamo, appunto, nel primo poeta moderno, Petrarca, che di qualunque cosa parli, ne approfitta per parlare sempre e solo di sé stesso).
4) Una perversione sado-masochista del normale istinto sessuale (logico approdo di quanto detto al punto precedente, ossia dello sfrenato narcisismo: l'altro viene ridotto a strumento del mio piacere e della mia volontà di dominio violento, poiché io non so vedere che me stesso; non è un caso che il marchese De Sade esca dalla Bastiglia alle trombe della Rivoluzione francese, altro evento-chiave della modernità).
5) Un cinismo e un opportunismo senza limiti, spesso camuffati da moralismo (si pensi alle crociate del Bene contro il Male evocate dal presidente statunitense Bush junior per mascherare sordide ragioni strategico-economiche).
"Post-moderno", allora, significa: ciò che dobbiamo creare dopo la stagione nefasta della modernità; ciò che ancora non esiste, ma che deve essere edificato su basi totalmente nuove, che rifiutino le premesse teoriche e pratiche della modernità, che rifiutino l'autoreferenzialità della modernità la quale vorrebbe ergersi a valore, a bene in sé stesso.
Ma perché "ricostruzione"? Forse che il pensiero moderno è stato distrutto? Naturalmente no: il pensiero non si pouò mai distruggere; si può pervertire, non distruggere. E allora? Occorre ricostruirlo perché il pensiero della modernità è stato un pensiero distruttivo, e per troppo tempo noi (come i cortigiani servili della novella di Andersen) abbiamo applaudito il re nudo. È stato necessario che un semplice bambino, nella sua innocenza, esclamasse: "Ma il re è in mutande", perché la verità si facesse palese; prima, tutti giuravano e spergiuravano che il vestito del re era bellissimo e fastosissimo.
Il filosofo francese Paul Ricoeur affermava che, nel 1945, gli Europei hanno affrontato il problema della ricostruzione materiale, ma non di quella spirituale: sottinteso, dopo la tragica esperienza dei totalitarismi e della guerra. Lui si riferiva alla seconda guerra mondiale. Ora, a parte il fatto che molti storici sottolineano che il 1914-1945 fu un unico evento bellico, una vera e propria guerra civile europea, a me pare si debba risalire molto più indietro per individuare il punto a partire dal quale si sono prodotte le rovine spirituali della nostra civiltà. Non la guerra, o le guerre, mondiali del XX secolo, ma per lo meno la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII segna la rottura irreparabile dell'equilibrio fra uomo, mondo e trascendenza che, bene o male, aveva contrassegnato i secoli e i millenni precedenti della storia occidentale. Forse potremmo risalire ancora più indietro; forse potremmo risalire alla nascita stessa della filosofia greca, alla scuola di Mileto - Talete, Anassimandro, Anassimene - come tipico esempio di una concezione secondo la quale si può comprendere la natura mediante la sola indagine razionale. Ciò ha prodotto una scienza senza coscienza che, di razionalità in razionalità, arriva dritto dritto al fungo atomico di Hiroshima; perché, come già ammoniva Platone, la vera saggezza consiste nel conoscere l'uso che si deve fare della conoscenza e dei mezzi di cui si dispone. Infatti, come scrive Nicola Abbagnano, "il fattore decisivo del destino dell'uomo (…) è la volontà umana, aiutata da tutte le forze - immanenti e trascendenti - che possono sorreggerla." Certo, nella storia del pensiero antico i due itinerari - quello di un giusto rapporto Dio-uomo-mondo e quello di un rapporto squilibrato e prevaricatore sfociante nella hybris, nella dismisura e nell'arroganza, si intrecciano continuamente, sicché nessuno dei due occupa interamente l'orizzonte speculativo. Comunque, nella civiltà greca è sempre presente e in agguato la tendenza "prometeica", la tentazione di rubare il fuoco agli dèi per trascendere dai limiti dell'umano e insuperbire oltre misura della propria intelligenza.
Quanto all'altra grande radice della civiltà occidentale, la cultura giudaico-cristiana, anche lì troviamo sempre in agguato una tendenza analoga, quella dell'uomo adamitico che si ritiene signore e padrone di tutte le cose, che pensa che l'universo sia stato creato da Dio perché egli vi eserciti una sovranità dispotica e illimitata. La radice di questa tendenza superomistica si trova già nel mito della caduta dei primi uomini, Adamo ed Eva, che rubano il frutto proibito della conoscenza perché non accettano i limiti della propria condizione creaturale e vogliono farsi "simili a Dio". Orbene da queste due tendenze, quella prometeica e quella adamitica (stiamo procedendo per grandissime falcate, a prezzo - inevitabilmente - di qualche semplificazione) tra origine quel rapporto squilibrato e disarmonico fra noi e gli altri enti, quella sfrenata volontà di dominio che culmineranno poi nell'avvento della modernità. La civiltà del Medioevo, nonostante sia stata denigrata abbondantemente a partire dal pregiudizio dei "lumi" del Logos strumentale, è riuscita a conservare un equilibrio complessivo, anche perché si può considerare la filosofia del cristianesimo come un platonismo cristianizzato o anche - secondo la prospettiva da cui guardiamo - come un cristianesimo platonizzante.
L'equilibrio si è rotto irreparabilmente, come si è detto, non col Medioevo cristiano e neanche col Rinascimento, bensì con la cosiddetta Rivoluzione scientifica, tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600. Grazie ad essa, l'universo si è ridotto alle dimensioni di un meccanismo descrivibile matematicamente e manipolabile a piacere. Descrivibile matematicamente: Galilei arriva a dire che se l'uomo ha, extensive (cioè quantitativamente) una conoscenza del mondo infinitamente minore di quella divina, tuttavia intensive (qualitativamente) ne ha una conoscenza pari a quella di Dio stesso. Manipolabile a piacere: Francesco Bacone arriva a dire che l'uomo deve torturare la Natura per costringerla a rivelare i suoi segreti (c'è in questo, come nota Remo Bodei, l'idea di una rivincita dell'uomo sulla natura, cui è stato finora soggetto: una volontà di "fargliela pagare"); e Cartesio, affermando che tutti gli enti non-umani sono mera res extensa, nega che essi abbiano valore e dignità intrinseca: un cane, ad es., non è che una sorta di macchina capace di emettere guaiti se viene bastonato, ma incapace di provare sentimenti veri, dolore compreso. Rotta la diga, è cominciata l'invasione, con un ritmo sempre più incalzante: la Rivoluzione industriale, che ha diffuso l'idea secondo la quale la produzione e il profitto sono legge al divenire storico; la Rivoluzione informatica, secondo la quale il progresso della tecnoscienza è fine legittimo e sufficiente a se stesso; la Rivoluzione bio-genetica, che ha prodotto la reificazione degli esseri come trionfo dei due princìpi precedenti: i dogmi della produzione e dell'idolo tecnoscientifico. Individualismo esasperato, spietata come "normale" stile di vita (homo homini lupus, diceva Hobbes), ricerca esclusiva del massimo profitto: queste le caratteristiche dell'uomo "faustiano", vero campione dello spirito moderno. Chi è Faust, infatti, se non l'uomo che vende - letteralmente - l'anima al diavolo, in cambio del dominio sulle cose? Tramonta definitivamente (con Kant, e più ancora coi suoi successori) il Noumeno e, con esso, la metafisica; tramonta quella Philosphia perennis che era stata il cuore del pensiero antico e anche di quello medioevale (Dante compreso); comincia l'oblìo dell'Essere e, parallelamente, l'oblìo del sapere come saggezza. Ne derivano una perdita di senso complessivo, una banalizzazione dell'orizzonte esistenziale, una dilagante relativizzazione di tutti i valori.
Ecco, se volessimo scegliere due immagini-simbolo di questo spirito devastante della modernità, l'uno poetico, l'altro pittorico, sceglieremmo La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge e L'urlo di Eduard Munch. Nel primo, si descrive come l'albatro bianchissimo, portatore di venti favorevoli e creatura di buon auspicio, che fiduciosamente accompagnava la nave nella sua rotta e che veniva perfino a mangiare dalle mani degli uomini, un giorno viene ucciso a freddo, senza un perché, dal vecchio marinaio: "With my cross-bow, I shot the Albatross": "con la mia balestra, io ho ucciso l'albatro". Da quel momento hanno inizio le terribili disgrazie che funestano il viaggio della nave.
La ballata del vecchio marinaio, Gustavo Dorè
L'altra immagine-simbolo del clima instaurato dalla modernità è il quadro del pittore norvegese Edvard Munch (famoso anche per aver dipinto un celebre ritratto del filosofo Nietzsche), L'urlo, in cui si vede un uomo che, su un ponte cittadino, improvvisamente, in mezzo a una folla anonima di uomini e donne a passeggio, si porta le mani alla testa e spalanca la bocca in un grido disperato, altissimo (anche se forse non gli esce materialmente dalle labbra), terrificante, come se lo avesse assalito una disperazione furiosa e insopportabile, tale da sopraffarlo insieme alla sua stessa ragione. L'opera ben descrive le tre più caratteristiche conseguenze dello spirito della modernità: nausea, necrofilia, disperazione.
Der Schrei Der Natur, Edvard Munch, 1893
Nausea: quell'orribile taedium vitae, quel senso di vuoto e di insensatezza di ogni cosa che in maniera superbamente efficace ha descritto Jean-Paul Sartre nel romanzo omonimo (ma che già Leopardi aveva ampiamente descritto e non solo in poesie come il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, ma anche nella riflessione affidata alle pagine dello Zialdone dei pensieri). Necrofilia: perché se è corretta la distinzione operata da Erich Fromm tra società biofile o amanti della vita e società necrofile o amanti della morte, noi dobbiamo riconoscere che - sotto le apparenze vitalistiche, ottimistiche e perfino gioviali - la modernità è profondamente intrisa di desiderio d'autodistruzione, cupio dissolvi. Non abbiamo visti uno studente di una università statunitense, pochi giorni or sono, uccidere a sangue freddo trentadue persone con le sue stesse mani, e poi togliersi la vita sparandosi in faccia? Disperazione: perché è questa, come ammoniva il grande filosofo Sören Kierkegaard (uno dei più grandi degli ultimi due secoli) la vera malattia mortale dell'uomo: di disperazione si muore. Lo sapete qual è la causa principale di morte fra i giovani, oggi, nella nostra società? Non le "stragi del sabato sera" al ritorno dalle discoteche; non la droga; ma il suicidio. Questo, i mass-media in genere di dimenticano di ricordarcelo. Non è l'angoscia la malattia mortale, al contrario - come diceva Kierkegaard - l'angoscia, per quanto dolorosa, è la nostra grande occasione di libertà, lo stimolo a compiere un salto di qualità da un piano di esistenza inferiore ad uno superiore; è, insomma, una porta spalancata sulla possibilità di conquistare una vera pienezza esistenziale. No, non è l'angoscia la malattia mortale della modernità, bensì la disperazione: e troppe volte l'abbiamo udita sbandierare, con una sorta di degradante auto-compiacimento; e troppo siamo stati acquiescenti - se non addirittura consenzienti - davanti ai cattivi maestri della disperazione sistematica eretta a principio assoluto della vita umana.
Recentemente - consentitemi una nota personale - ho udito il filosofo Umberto Galimberti, a Conegliano, sentenziare davanti a un pubblico strabocchevole, attento ed entusiasta, che noi siamo soltanto il nostro corpo; che nulla esiste oltre al corpo; che l'anima è una sorta di invenzione operata da S. Agostino quattro secoli dopo la nascita del cristianesimo; che, per recuperare un "giusto" rapporto con noi stessi e il mondo, dobbiamo riscoprire la nostra corporeità assoluta. Che - aggiungo io, ma è la logica conseguenza di quanto sopra - il pensiero, la memoria, la creatività, la poesia, la religione, l'arte sono solamente secrezioni del cervello, come il sudore è una secrezione dell'epidermide e gli escrementi - scusate - sono secrezioni dell'apparato digerente. L'anima non esiste; nemmeno la mente esiste. Strano, perché centinaia di esperienze di persone in stato di anestesia totale, a volta perfino persone cieche dalla nascita (vedi Larry Dossey, Alla ricerca dell'anima, Sperling & Kupfer, 1991) hanno saputo descrivere, al risveglio, tutto quel che accadeva intorno a loro, in ogni particolare; addirittura, quel che accadeva in un'altra stanza; il che indurrebbe a credere che non solo una mente esiste, dopotutto (e forse anche un'anima!), ma che essa è non localizzata. In altre parole, che il cervello non è l'organo della nostra conoscenza del mondo, ma, casomai, solo uno strumento; ma che la nostra conoscenza può - in circostanze particolari - attingere direttamente alla sorgente di ogni conoscenza della realtà. Anima mundi, chiamavano i ciò i maghi-scienziati del Rinascimento (prima del malaugurato divorzio fra scienza e spiritualità operato dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo): la nostra mente individuale non è che una parte della grande mente universale; la nostra anima individuale non è che apparenza illusoria di separatezza dall'unica Anima universale. Carl Gustav Jung, fra i moderni, è stato uno di quelli che più si sono riavvicinati a tale concezione del rapporto fra l'uomo e il mondo (e fra l'uomo e Dio); e che altro è la concezione dell'Inconscio Collettivo, se non una grande Anima del Mondo donde, mediante simboli, a noi vengono le conoscenze profonde delle cose, quelle che non possiamo né potremmo attingere con il Logos strumentale che si avvicina ad esse senza amore, senza partecipazione, senza umiltà e senza saggezza? Ecco dunque perché tutto il nostro preteso "sapere" di figli della modernità è, in effetti, un non-sapere (come ben aveva visto Karl Jaspers): 1) perché crediamo di poter conoscere senza partecipare alle cose; 2) perché tendiamo al possesso e non all'amore del sapere, 3) perché il pensiero razionale, ignorando le istanze del profondo, tradisce quell'intima ansia di redenzione che è all'origine del desiderio di conoscere e ne costituisce l'autentico significato.
Sia detto fra parentesi, il punto 1 è stato confermato dalle recenti acquisizioni della fisica delle particella sub-atomiche: noi oggi sappiamo che, a livello dei quanti, è impossibile osservare un fenomeno fisico (ad es., calcolare la posizione di un elettrone che si muove intorno al nucleo atomico) senza con ciò modificarlo. Questo non fa che confermare l'intima persuasione degli antichi filosofi orientali, spec. taoisti: che non è possibile intervenire in modo locale sulla realtà, senza provocare ripercussioni fino al lato opposto del mondo. Visione olistica della realtà: la realtà è un tutto armoniosamente correlato; di contro alla visione riduzionista, propria dei moderni, secondo la quale si può agire localmente senza alcun riguardo al tutto. Un tipico esempio ne è la medicina occidentale moderna, per la quale il corpo del paziente non è che una somma di organi manipolabili indipendentemente l'uno dall'altro. Ciò è stato favorito anche dallo strapotere che alla scienza medica è stato accordato dalla società moderna, complice una sorta di pigrizia e di disinteresse nei confronti del nostro corpo e della nostra salute; e ne è conseguita quella "medicalizzazione della società" contro cui insorgeva Ivan Illich. Qualcuno sobbalzerà a una tale affermazione: come, pigrizia e disinteresse nei confronti del corpo; se mai come oggi il corpo è stato curato e vezzeggiato, adornato e reso artificiale dalle pratiche ginniche, dalle lampade abbronzanti, dai cosmetici, dalla chirurgia estetica! Ma a ben guardare, questa è solo apparenza. Ci si è presi cura dell'esteriorità del corpo, per farne un oggetto del desiderio sessuale; ma non della sua salute e dei suoi bisogni veri. Per fare quest'ultima cosa, bisognerebbe anzitutto saperlo ascoltare: e chi ha tempo per ascoltare? Poi, sarebbe necessario ripensare l'alimentazione, e smetterla di avvelenarlo con i prodotti di un'industria alimentare che sono quanto di più dannoso ed esiziale si possa immaginare. Invece la contraddizione è proprio questa: si trova il tempo (e il denaro) per costruirsi dei bei muscoli grazie agli attrezzi della palestra; non si trova né il tempo (né il denaro) per alimentarsi in modo sano, per fare del sano moto quotidiano, per praticare una corretta respirazione, ecc.
Dicevamo che il pensiero moderno è stato, nella modernità, prevalentemente distruttivo. Vogliamo fare qualche esempio, limitandoci alle correnti filosofiche principali del XX secolo.
- Il neopositivismo ha sostenuto che tutto è materia, spiegabile razionalmente, e che il mistero non è una categoria ontologica irriducibile, ma solo quella parte di realtà che al momento - ma non per sempre - ha eluso l'indagine razionale.
- Il pragmatismo ha sostenuto che vero ed utile, in ultima analisi, coincidono; ciò che è efficace, e quindi utile, finisce anche per essere criterio di verità; il pensiero, in tal modo, si riduce a mera tecnica del risultato, cioè del successo.
- L'esistenzialismo ha insegnato che l'uomo è, letteralmente (per usare l'espressione di Martin Heidegger) "gettato-nel-mondo" e destinato ad "essere-per-la-morte"; e, per giunta (come sottolinea Sartre) schiacciato da una libertà di cui non sa che farsene, che anzi è la sua maledizione; che davanti ad esso non vi sono scopi né speranze. (Si badi, parliamo dell'esistenzialismo novecentesco e non del pensiero di Kierkegaard, del quale i suoi epigoni han preso solo la pars destruens e hanno ignorato, tranne Gabriel Marcel e, in misura minore, Karl Jaspers, la fondamentale pars costruens.
- Le varie filosofie del linguaggio sono giunte a proclamare, per bocca di Ludwig Wittgenstein, che "bisogna tacere quello che non si può dire", ciò che equivale a rinunciare alla sostanza spirituale dell'uomo, alle esigenze più profonde della sua anima; e, inoltre, significa - come notava Hans Jonas - praticare una vera e propria autocastrazione del pensiero, peraltro iniziata già con Kant e soprattutto con David Hume. Ma vi rendete conto? Dire che non bisogna neanche porre le domande per le quali non esiste risposta dimostrabile oggettivamente significa dire che la filosofia può tranquillamente chiudere bottega e appendere sulla porta il cartello "in liquidazione".
- La psicanalisi, infine (non quella junghiana o adleriana e nemmeno le varie correnti umanistiche, sul tipo di quella di Roberto Assagioli, ma il filone principale di essa, quello di Sigmund Freud) ha eretto al rango di verità rivelata la tesi che tutti gli individui di sesso maschile vorrebbero avere rapporti sessuali con la propria madre e uccidere il proprio padre (e viceversa quelli di sesso femminile); che l'amicizia virile fra uomini che si stimano è una forma di omosessualità mascherata; che un torbido, fangoso Inconscio, pullulante di pulsioni vergognose e inconfessabili, ribolle in fondo al nostro essere e domina letteralmente le nostre vite. Certo, la civiltà - mediante il Super-Io - ci mette al riparo dalla violenza dell'Inconscio; ma a prezzo di un'altra forma di violenza: quella di inibirci lo sfogo dei nostri impulsi, rendendoci infelici, nevrotici, isterici. Dunque la nostra vita oscilla fra questi due estremi: la ferrea censura della civiltà, che ci rende infelici; il traboccare della "nera marea di fango" (Freud la chiamava proprio così, chiedendo al giovane Jung di condividere la sua crociata contro di essa) che avanza dall'interno del nostro Io con i suoi terribili fantasmi d'incesto e di omicidio. L'immagine dell'uomo che ne risulta è degradante e repellente: perché non ammettere che, oltre al Sub-conscio tenebroso e inconfessabile, in noi vi è anche spazio per un Super-conscio da cui ci vengono le nobili ispirazioni, i buoni sentimenti, tutto ciò che illumina e riscalda la nostra vita? Oltretutto, non si tiene mai abbastanza conto del fatto che Freud ha costruito tutta la sua speculazione filosofica (perché di questo si tratta: la psicanalisi da terapia psicologica si è auto-proclamata filosofia) a partire alla psiche malata, dallo studio dei casi patologici: è chiaro che ne è risultata una prospettiva distorta. La psiche "normale" non può essere descritta a partire da quella nevrotica o psicotica; non più di quanto la fisiologia non si possa delineare a partire dalla patologia. E questo, fra parentesi, è stato l'errore capitale della medicina occidentale moderna: aver concepito la questione della salute a partire dalla malattia: aver sostituito, al problema concreto degli organismi sofferenti, quello di una non meglio precisata categoria della "malattia", eretta a norma di ciò che serve per comprendere la salute: una vera e propria inversione della giusta prospettiva!
Queste sono state le correnti di pensiero più apprezzate e più seguite nel XX secolo: correnti di pensiero che hanno diffuso ed aggravato disorientamento, ansia, sfiducia, nichilismo e pessimismo. E la cosa più bella è che questi cattivi maestri sono stati percepiti (e sono stati tanto abili da presentarsi) come campioni della libertà di pensiero, del non-conformismo, mentre non han fatto altro che ripetere fino alla noia ciò che le masse, confuse e ipnotizzate, volevano sentirsi dire, cavalcando le mode più effimere, più superficiali, più gregarie (si pensi allo stile degli ambienti "esistenzialisti" parigini degli anni '50 del Novecento). Il culmine - non cronologico, ma ideale - del nichilismo e del cupio dissolvi del pensiero moderno è stato storicamente rappresentato dalla filosofia di Eduard von Hartmann, il quale - riprendendo elementi della concezione di Schopenhauer - prospettava la necessità di liberarsi dal male dell'esistenza inerente alla volontà di vivere, mediante una soppressione cosciente di tale volontà e quindi una sorta di suicidio cosmico che avrebbe reso possibile il passaggio dell'intera realtà esistente nel piano del Nirvana.
Per contro, sono rimaste poco o niente ascoltate le voci veramente anti-conformiste rispetto a questo clima nichilistico prevalente, voci tra loro anche assai diverse, ma tutte caratterizzate da un virile e coerente sforzo di ripristinare le coordinate di una giusto rapporto fra l'uomo, Dio e il mondo: dai personalisti (Emmanuel Mounier, Luigi Stefanini), alla filosofia dei valori (Max Scheler), al realismo ontologico (Nicolai Hartmann, da non confondere con Eduard von Hartmann citato poc'anzi), alla concezione cosmoteandrica di Raimon Panikkar, filosofo vivente. Questi ha sviluppato una filosofia "relazionale" (o, appunto, cosmoteandrica) della realtà, mutuata dalla filosofia del Vedanta - una delle sei scuole "ortodosse" del pensiero indiano - e, precisamente, dall'Advaita Vedanta, cioè del Vedanta non duale. È, quindi, una concezione che rifiuta sia il monismo sia il dualismo, in nome di una interdipendenza fra Dio, l'uomo e il mondo. Preso a sé, ciascuno di questi termini è una semplice astrazione della nostra mente: Dio, uomo e mondo ricevono consistenza precisamente dal fatto di essere strettamente correlati e interdipendenti. Si noti che una tale concezione rimuove alla radice la dicotomia fra il materiale e lo spirituale; fra l'interno e l'esterno; fra il secolare e il sacro; fra il temporale e l'eterno.
Viceversa, dove ci hanno portato i cattivi maestri della nausea, della necrofilia e della disperazione? Prendiamo il suicidio: un rapido confronto con l'antichità ci mostra chiaramente quanto esso sia proliferato e come sia stato accettato come una pratica quasi "normale" nella società moderna, basata sull'idea che la vita è nostra e che possiamo farne quel che vogliamo. Nell'antichità greco-romana il suicidio si riteneva ammissibile nei seguenti casi:
a) Quando era finalizzato all'affermazione di valori. Esempio: Catone Uticense che si suicida per non dover vivere sotto la servitù di Cesare (e Dante, il cristianissimo Dante, non che gettarlo all'Inferno ne fa il custo del Purgatorio: segno che il suicidio è ammissibile quando serve ad affermare valori prioritari rispetto alla vita in se stessa).
b) Quando ci si trova nella impossibilità di evitare l'onta del disonore, spec. della sconfitta (si pensi a Bruto dopo la battaglia di Filippi; ma si pensi anche alla pratica giapponese del harakiri, testimonianza di un altissimo senso del dovere e dell'onore, non solo militare).
c) Quando è l'unica forma possibile di protesta sociale e e di difesa della propria dignità (si pensi a quei gladiatori germanici, prigionieri di guerra, che delusero il pubblico del tardo Impero Romano sgozzandosi a vicenda pur di non morire combattendo gli uni contro gli altri per il divertimento altrui; del resto, già Seneca e, in genere, gli Stoici avevano ammesso la liceità del suicidio in simili estremi frangenti).
d) Come forma di volontario distacco dalla vita terrena, in ossequio alla filosofie spiritualiste di stampo neoplatonico (es., il suicidio del filosofo Peregrino riferito da Luciano di Samosata).
Il suicidio come esito della disperazione individuale era invece piuttosto raro (l'esempio classico è quello di Giuda dopo il tradimento di Cristo; ma qui siamo fuori dell'ambito culturale greco-romano); e il suicidio come esito di una pena d'amore era piuttosto compatito che accettato (vedi il caso di Didone nel IV libro dell'Eneide di Virgilio). Nel complesso, comunque, si può dire che il suicidio era una pratica rara e rigidamente codificata; costituiva una risposta assolutamente eccezionale a circostanze straordinarie. È appena il caso di ricordare che nella civiltà medioevale vigeva una grave condanna a carico dei suicidi (nella Divina Commedia sono trasformati in alberi contorti di una orribile foresta); l'atto del togliersi la vita era interdetto dal timore di quella che S. Francesco, nel Cantico delle creature, chiama la "morte secunda", cioè la morte dell'anima, infinitamente più terribile di quella del corpo.
Ben diversa è la situazione nella società moderna. Partiamo dalle opere letterarie, che sono un buon indicatore di come una data società percepisce i fenomeni di costume e di come si rapporta di fronte ai problemi morali che essi eventualmente sollevano. Nel romanzo ottocentesco (i cui limiti cronologici vanno dalla fine del Settecento ai primi del Novecento: diciamo dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale), i suicidi fioccano come la grandine: dal Werther di Goethe al Martin Eden di Jack London, passando attraverso l'Ortis di Ugo Foscolo, L'ultimo canto di Saffo di Giacomo Leopardi, Anna Karenina di Lev Tolstoj, I Dèmoni di Fëdor Dostojevskij, Thérése Raquin di Émile Zola e Una vita di Italo Svevo. Si dirà che questa è soltanto letteratura (eppure la pubblicazione dell'Ortis fu accompagnata, com'è noto, da un'epidemia di suicidi fra i giovani lettori del romanzo foscoliano).
Allora passiamo alla vita "vera", limitando lo sguardo agli intellettuali, scrittori, artisti, poeti , filosofi o ad altri personaggi, a vario titolo, famosi: dobbiamo fare i nomi di Gérard de Nerval, Vincent Van Gogh, Heinrich von Kleist (doppio suicidio, con la fidanzata); Jack London (al colmo del successo, come il suo personaggio Martin Eden), Carlo Michelstaedter (giovanissimo), Emilio Salgari (proprio lui, il creatore di Sandokan), Sergej Esenin (forse il più grande poeta russo del Novecento), Vladimìr Majakovskij, Stefan Zweig, Walter Benjamin, Cesare Pavese, Ernest Hemingway, Primo Levi. E ancora: il capitano di vascello Fitz Roy (quello del Beagle, la nave di Darwin); l'esploratore Giacomo Bove; il generale Boulanger, aspirante dominatore della politica francese; Ludwig di Baviera e Rodolfo d'Asburgo (altro doppio suicidio, con l'amante Maria Vetsera); il cantautore Luigi Tenco; l'attrice Marilyn Monroe; lo scrittore Yukio Mishima; il fisico Ettore Majorana (se non suicidio fisico, suicidio simbolico); il cantante Kurt Kobain; l'attore Luigi Vannucchi; il figlio dell'avv. Agnelli; la cantante Dalida. È un elenco largamente incompleto, che arriva fino ai terroristi suicidi dei nostri giorni, seguaci della filosofia nichilistica del "perisca Sansone con tutti i Filistei". Del resto, occorre ricordare che la modernità è preannunciata dai suicidi in massa dei pacifici Arawak e Taìnos delle isole di Cuba ed Hispaniola (odierna Haiti), determinati a morire piuttosto che vivere sotto l'intollerabile giogo dei conquistadores; e culmina col suicidio di Hitler (ancora un doppio suicidio, con la moglie Eva Braun) e di Goebbels (che, con la moglie, avvelena i suoi numerosi figlioletti) nell'atmosfera funebre e allucinata del bunker di Berlino, simile a quelle del wagneriano Crepuscolo degli dèi, sulle rovine - materiali e spirituali - di un'Europa letteralmente distrutta da una guerra come non se n'erano mai vedute prima? Chi semina vento, raccoglie tempesta - dice il proverbio; e per troppo tempo la cultura moderna ha seminato disperazione a piene mani. Ora, se gli scrittori e, in genere, gli artisti, possono essere considerati dei testimoni sensibili della crisi del proprio tempo, e quindi vittime anch'essi di una debolezza del pensiero, diverso è il discorso per i filosofi. Questi ultimi, infatti, hanno una precisa responsabilità negli orientamenti culturali ed etici della società: loro funzione è l'esercizio del pensiero; e non può certo dirsi indifferente l'uso che essi fanno del potere o, se si preferisce, della risonanza culturale di cui dispongono (ma a volte è potere vero e proprio: vedi la "tirannia" culturale esercitata per mezzo secolo da Benedetto Croce in Italia: le sue stroncature e le sue approvazioni erano sentenze di vita o di morte per i libri degli altri pensatori). I filosofi dovrebbero sempre porsi il problema degli effetti che le loro teorie possono produrre nei lettori; non certo nel senso di auto-censurarsi, ma in quello di essere prudenti e di evitare pericolosi compiacimenti nichilistici e ultra-pessimistici.
Ci avviamo a concludere. Ma prima, vogliamo ricapitolare dieci punti nodali caratterizzanti la distorsione del rapporto armonioso uomo-mondo attuata dalla modernità, e le possibili "risposte" costruttive che dovremmo sforzarci di dare a ciascuno di essi, al fine di recuperare tale rapporto.
1) La modernità ha gravemente svalutato il ruolo della donna come madre, moglie e "casalinga"; di quella che era, spesso, una dura necessità economica, ossia il vedersi costretta a sobbarcarsi un ulteriore lavoro "esterno", ha fatto una virtù e un segno di emancipazione, svilendo il suo ruolo tradizionale di "angelo del focolare domestico" e innescando una grave confusione dei ruoli sessuali. Ora, noi crediamo che a tale confusione occorra reagire: maschile e femminile restano due polarità opposte e complementari, ciascuna con una sua specificità e una propria, profonda ragion d'essere. Come insegna il simbolo Yin-Yang della filosofia taoista: si tratta di realizzare, mediante il loro incontro, l'armonia degli opposti. Armonia degli opposti: il bianco che abbraccia il nero e ne è abbracciato (ma all'interno del bianco vi è un punto nero, e all'interno del nero un punto bianco) simboleggiano l'incontro di ciò che è opposto e complementare.
2) La modernità ha indugiato in un compiacimento pessimistico e nichilistico e in una autentica voluttà necrofila di autodistruzione, il cui esito è stato il crollo demografico dei nostri giorni. Crescita zero: che cosa significa questo se non (come ben aveva intuito Albert Camus più di mezzo secolo fa) che l'Europa non ama più la vita? Le culle vuote sono il malinconico segno della nostra crisi morale, del collasso della speranza, nella rinuncia ad investire nel futuro. Occorre, invece, riscoprire la gioia del concepimento, la gioia delle case piene di bambini che non sono un intralcio ai progetti degli adulti, ma il naturale completamento della vita di coppia; occorre riscoprire il valore fondante della famiglia, di cui tutti parlano e straparlano (specialmente i politici interessati e a caccia di voti), ma per la quale nessuno fa assolutamente nulla.
3) La modernità ha rimosso l'idea della morte e del morire. Dov'è finito lo spettacolo della morte, dove sono le persone che muoiono? Sono diventate invisibili, perché la loro vista turberebbe i nostri deliri di onnipotenza ; al punto che alcuni pretesi scienziati si sono spinti ad affermare che la nostra è l'ultima generazione che dovrà affrontare la morte; poi, la medicina la curerà come qualsiasi altra malattia (cfr. Alvin Silverstein, La conquista della morte, Sperling & Kupfer, 1982). E invece no, per amare realmente la vita bisogna guardare in faccia la morte. Come nelle società tradizionali (compresa la nostra società contadina), ove i nonni morivano nel loro letto e non in una squallida e asettica stanza d'ospedale, circondati dalle persone e dalle cose care. È la consapevolezza dell'essere mortali che ci sprona a vivere degnamente: perciò non dobbiamo fuggire l'idea della morte.
4) La modernità ha inventato, se non proprio l'amore-passione, quanto meno la sua esaltazione febbrile, al punto che oggi noi non riusciamo quasi a concepire un film, un romanzo o un testo musicale che non parlino di amori folli, travolgenti, capaci di donare emozioni poderose e irripetibili, simili a scariche di adrenalina nel sangue (cfr. il mio articolo L'amore passionale: una invenzione della modernità?). Al contrario, bisogna recuperare un po' di quell'atteggiamento che epoche precedenti hanno avuto nei confronti dell'amore passionale: un misto di commiserazione per chi ne è colpito, come da una malattia, e di disapprovazione per una forma di obnubilamento che produce dimenticanza dei doveri sociali, indifferenza all'altrui sofferenza, lacerazioni e tensioni anche gravi nel tessuto familiare e, in ultima analisi, nella società tutta. Certo, l'amore passionale può sempre sorprenderci, come un ladro nella notte: ma non è il caso di farne l'apologia. Le cronache dei giornali sono piene delle conseguenze disastrose che produce. In fondo, esso nasce da una forma morbosa di attaccamento (da una fame dell'altro, per dirla con Julien Greene): ed è proprio questa la debolezza della nostra società. Siamo afflitti da un bisogno patologico di aggrapparci a qualcosa o a qualcuno, forse proprio perché abbiamo smarrito ogni fiducia in noi stessi. Ma, così facendo, degradiamo l'altro al ruolo di mezzo per compensare una nostra debolezza; e forse, l'altro farà altrettanto con noi. Ora, la somma di due debolezze non fa mai una forza; per questo la fine degli amori passionali lascia un tale strascico di rancori e sofferenza.
5) Nella società odierna è diffusa una generale derisione della morale e un suo scadimento a "moralismo"; ossia, in altre parole, una diabolica e sistematica denigrazione del bene. Questa è una delle perversioni più evidenti del senso etico operata dalla modernità, e costituisce uno di quei casi in cui si affaccia alla mente il sospetto che il generale nichilismo distruttivo da cui siamo investiti non sia solo il frutto di una crisi del pensiero e della sensibilità, ma risponda a un piano ben preciso e preordinato. Un piano nel quale, forse, hanno parte forze che non sono solamente umane. Senza voler scomodare le teorie complottiste estreme di David Icke, e neppure quelle più moderate di Maurizio Blondet o di Alfredo Lissoni, non può non lasciare pensosi la pervicacia e la sfrontatezza con cui, oggi, si esalta il male e si denigra il bene, in tutte le sue forme. Oltre alle migliaia di sette sataniche che praticano apertamente la magia nera allo scopo di sovvertire l'ordine morale e instaurare il regno del Male, sono operanti delle forze che Julius Evola definiva di "contro-iniziazione"; dei gruppi cioè che perseguono scientemente obiettivi di dissoluzione morale e di destabilizzazione ad ampio raggio, i quali posseggono potenti aderenze nelle alte sfere della finanza, delle comunicazioni, della politica e della cultura. Costoro sono manovrati, a loro volta, da gruppi sempre più ristetti di una piramide di potere occulto, al vertice della quale vi sono i cosiddetti Superiori Sconosciuti: che potrebbero essere anche entità non umane. Viene in mente la celebre frase di Charles Baudelaire: che il diavolo non è mai stato tanto soddisfatto degli uomini, come quando si è accorto che essi non credono più alla sua esistenza reale.
6) La modernità ha letteralmente inventato una idea esiziale per l'economia e per la società tutta: quella dello "sviluppo". Che bisogni produrre sempre di più e consumare sempre di più; che la tecnica e la scienza debbano mettere a punto strumenti sempre più sofisticati di dominio sulla natura; che le città debbano essere sempre più grandi, i grattacieli più alti, la rete autostradale più fitta, il volume degli scambi commerciali e delle comunicazioni debba crescere sempre; che i complessi industriali, i gruppi bancari e assicurativi, le borse internazionali debbano concentrarsi all'infinito, (contraddizione in termini!), che il consumo delle fonti di energia debba crescere in misura esponenziale (altra contraddizione in termini), producendo effetti collaterali indesiderati e incontrollabili - inquinamento, buco nello strato di ozono atmosferico, desertificazione, effetto-serra e mutamenti climatici - da cui ci salverà, ancora, la tecnoscienza (magari per esportare su altri corpi celesti questo stesso modello sviluppista): tutto ciò a noi moderni sembra "normale", mente è chiaro che non dovrebbe esserlo. In un pianeta dalle risorse limitate, non si può pensare seriamentea una crescita illimitata; senza contare che il nostro "sviluppo" significa sottosviluppo per l'80% dell'umanità, costretta a sopravvivere con il 20% delle risorse mondiali, cioè con le briciole del nostro cosiddetto "benessere". Anche l'idea di uno sviluppo sostenibile è puramente illusoria: infatti, è il dogma in se stesso dello sviluppo che dev'essere rimesso in discussione. E se non vogliamo che ciò accada in maniera estremamente traumatica, per l'esaurimento fisico delle risorse e per gli sconvolgimento sociali e politici che questo inevitabilmente provocherà, dobbiamo invertire la rotta fin da ora, ciascuno di noi nel proprio quotidiano, modificando radicalmente il nostro stile di vita. Alle logiche dello spreco insensato e immorale dobbiamo contrapporre la riscoperta di valori quali la sobrietà, la frugalità, la condivisione, la solidarietà, la prudenza, la lungimiranza, la creatività della persona che non si riduce solo a homo oeconomicus.
7) Nella società moderna vi è stata una graduale abdicazione del rapporto fisico dell'individuo con se stesso, in nome di una malintesa "medicalizzazione" della società. Abbiamo firmato una cambiale in bianco e l'abbiamo consegnata nelle mani della medicina ufficiale, la quale è assurta al rango di religione ufficiale di Stato (con tanto di magistrati che possono revocare la patria potestà a un genitore che rifiuti di sottoporre il proprio figlio a una vaccinazione obbligatoria, e di forze dell'ordine che possono sequestrargli il bambino in qualunque momento a nome e per conto delle strutture sanitarie). Senza voler negare alcuni meriti della medicina moderna (che non sono tutti quelli che essa si attribuisce) e per tacere, pudicamente, del proliferare delle malattie iatrogene (ossia di quelle provocate dalle stesse cure mediche: cfr. Jeremy Rifkin, Entropia), occorre recuperare la capacità di mantenere il proprio corpo in buona salute mediante una miglior conoscenza delle sue funzioni, dei suoi bisogni effettivi, nonché una riscoperta delle medicine naturali e dei saperi tradizionali con cui i nostri nonni si curavano, spesso in modo efficace, pur senza lauree in medicina e senza camici bianchi e mascherine antibatteriche.
8) Più in generale, si assiste ai nostri giorni allo spettacolo sconcertante di un servile e acritico "abbandono" dell'individuo nelle braccia dell'apparato tecno-scientifico eretto al rango - lo abbiamo accennato - di una nuova religione di salvezza. Invece occorre ricordarsi che il paradigma scientista oggi dominante esprime soltanto una delle possibili visioni del mondo, uno dei possibili approcci alla verità, una delle strade che portano alla conoscenza (ma ve ne sono altre, fra cui religione, arte, filosofia); e che inoltre, per sua natura, esso non è in grado di dirci nulla circa i fini del nostro agire e circa il senso complessivo del mondo: domande, queste, che dobbiamo continuare a porci se vogliamo conservare quella tensione verso il trascendente che ci distingue dalle macchine di cui ci serviamo sempe più largamente e che ormai sanno fare quasi tutte le operazioni possibili, anche di tipo logico-operativo, meglio di noi, tranne una: quella di porre la questione dei fini e la questione del senso.
9) La modernità - lo abbiamo visto - si caratterizza come una rivolta della cultura contro la natura, quasi una rivincita dell'uomo sul mondo esterno. Questa è stata un'autentica follia, a sua volta causa d'infiniti mali: perché l'uomo è parte della natura e non può certo vivere facendo una guerra perenne contro di essa, perchè in definitiva la farebbe contro se stesso. Inoltre questo tipo di approccio verso la natura presuppone una carica di violenza che, inizialmente estrovertita, si ritorce poi in mille forme contro noi stessi. Un grande trattore meccanico assomiglia terribilmente a un carro armato, e la somiglianza non è casuale: il carro armato serve per fare la guerra ai nemici, il trattore per squarciare e dilaniare la terra con le sue tonnellate d'acciaio. Ma la terra, così maltrattata, si vendica negandoci quell'abbondanza di cui era generosa dispensatrice quando l'uomo le chiedeva umilmente il necessario per vivere. Le grandi praterie del Nord America, ove un'agricoltura meccanizzata ha creato un ecocidio (sterminando ogni altra forma di vita, dal bisonte al parassita microscopico) finalizzato alla massima produzione di cereali per alimentare enormi mandrie di bovini che, alla lor volta, dovranno rifornire immensi impianti di macellazione per sfornare bistecche destinate a milioni di paninoteche targate Mc Donald, sono la testimonianza eloquente di questa guerra contro la natura che deve cessare al più presto, pena un danno irreparabile agli equilibri naturali e alla nostra stessa salute (fisica e psichica). Il paesaggio artificiale con il quale abbiamo sostituito quello naturale è degno di nota per la sua estrema bruttezza: città-dormitorio, squallidi palazzoni di cemento simili a caserme, impianti chimici altamente tossici dislocati in vicinanza dei centri urbani (due giorni fa, proprio qui a Treviso, vi è stato l'incendio alla fabbrica De Longhi, con rilascio di benzene, amianto e diossina in una zona ad alta densità di popolazione). Ora, vivere in luoghi brutti (oltre che pericolosi o nocivi per la salute, o rumorosi, o deturpati da un traffico caotico) ha nette ripercussioni sui pensieri di coloro che vi abitano. I luoghi non sono mai neutrali: hanno un'anima, anch'essi. Se vogliamo favorire pensieri belli, dobbiamo cominciare con il realizzare luoghi accoglienti e ospitali intorno a noi.
10) La modernità ha accentuato quella che Michelstaedter chiamava la dicotomia fra la persuasione e la retorica. La retorica è l'enorme ingranaggio della cultura, il meccanismo febbrile dell'attività in cui ci s'immerge, senza accorgersi del vuoto esistenziale; la persuasione corrisponde al possesso vero e presente della propria persona, assaporando ogni singolo istante della vita. Ora, la modernità ha privilegiato, per le sue premesse ideologiche, le filosofie dell'azione - un'azione, oltretutto, affannosa e scomposta - rispetto a quelle della contemplazione, amiche della natura e dei suoi ritmi (Wu-wei, "non agire", insegnavano i saggi taoisti). Ora dobbiamo rallentare e fermare questa smania di iperattivismo, anche quand'esso è camuffato da pretesti moralistici (ad es., della "guerra umanitaria" per fermare qualche dittatore o qualche supposta emergenza umanitaria). Noi siamo afflitti da un complesso: quello di credere che, senza la nostra azione immediata e radicale, il mondo andrebbe certamente a catafascio; che il nostro intervento è ovunque necessario per sanare i mali dell'universo. Ora, a parte il fatto che la modernità ha visto innumerevoli interventi "a fin di bene" tradursi in altrettante catastrofi ecologiche, politiche, sociali, il vizio di fondo di questo atteggiamento mentale è quello di sopravvalutare oltre ogni limite di ragionevolezza sia la nostra capacità di essere giudici e arbitri imparziali di ciò che è necessario fare (anche quando nessuno ci ha chiamati e nessuno desidera il nostro intervento), sia di poter eliminare effettivamente dei supposti mali con interventi adeguati e proporzionati all'entità del pericolo.
Non si pensi solo alla politica o alla modificazione del paesaggio: ad es., alle dighe gigantesche e ai bacini lacustri artificiali ottenuti deviando il corso di alcuni fiumi, che hanno desertificato immense regioni; all'uso massiccio di insetticidi e antiparassitari che hanno eliminato non solo le specie dannose, ma anche un gran numero di quelle "utili" (s'intende, per l'uomo : in natura, sono tutte "utili"), ripercuotendosi su tutta la catena ecologica. Ma sii pensi anche alla chirurgia e, in generale, alla disinvoltura con cui si fa ricorso a pratiche mediche gravemente invasive, che producono effetti collaterali nell'organismo umano (per non parlare di quelli psicologici). Tutto nasce, anche in questi casi, da quel bisogno di azione per l'azione, da quell'adorazione della forza, da quella irrealistica sopravvalutazione del proprio ruolo di "custodi dell'ordine" di cui ci riteniamo depositari; da quella sorta di crociata che abbiamo lanciato, da quella guerra che abbiamo dichiarato al dolore e alla sofferenza. Senza fermarci a riflettere che dolore e sofferenza fanno parte dell'equilibrio naturale (Yin-Yang, appunto: non c'è gioia senza dolore; non luce senza oscurità) e che, pertanto, se è giusto e legittimo cercar di limitare i dolori e le sofferenze inutili, non è il dolore in se stesso che dobbiamo combattere. Al contrario, dobbiamo recuperare l'umiltà di accettare quel che la vita ci manda, tanto il bene come il male, e farci una ragione della nostra mortalità. Osserva Mirko Grzimek che la morte di un ventenne o di un trentenne, oggi, fa scandalo (mentre non lo faceva sino a qualche decennio fa, ad es. nella società contadina), perché consideriamo un nostro diritto vivere almeno 75-80 anni; e, se la morte arriva prima, la consideriamo alla stregua di una ladra e un'assassina. Forse, se cercassimo di vivere un po' meglio la nostra vita - e cioè più in armonia con noi stessi, con gli altri enti, con Dio (almeno quelli di noi che ci credono), potremmo anche accettare più serenamente l'idea del dolore e della morte. Impareremmo così - o, per meglio dire, reimpareremmo, perché i nostri nonni ben lo sapevano - che attraverso il dolore si riscoprono i valori più autentici della civile convivenza e la misura della nostra profonda umanità. Infine, nella serena accettazione della morte sapremmo cogliere l'occasione di una vita bene spesa, con spirito operoso ma non frenetico, e con lo sguardo ben fisso verso ciò che è davvero importante, tralasciando le inezie e le futilità che a volte, invece, scambiamo per cose essenziali.