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Il tempo e la memoria tra antichità classica e letteratura post moderna
The time is out of joint: o cursed spite, that ever I was born to set it right!
1. Il tempo, concezioni e definizioni
Shakespeare, Hamlet I, V vv. 189-190Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati,
seu pluris hiemes seu tributi Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitata pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
Spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
Aetas: carpe diem, quam minimum credula postero [1].
Orazio, Carmina I, 11In tria tempora vita dividitur: (tempus) quod fuit, quod est, quod futurum est: ex his, (tempus) quod (nos) agimus breve est, quod acturi sumus dubium, quod egimus certum [2].
Seneca, De brevitate vitae, X, 2Orazio (65 a.C.-8 a.C.) nei Carmina (23 a.C.) come Seneca (4 a.C.-65 d.C.) nel De brevitate vitae (49-52) si interrogano sullo scorrere del tempo, sul suo fluire incessante, sull'impossibilità di fermarlo o di prevederlo. Per Orazio la sola possibile risposta è il "quam minime credula postero", non aspettare ciò che potrebbe accadere in un poi incerto, perché anche mentre si discute del tempo il tempo, inesorabile, già è fuggito (spatio brevi / spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida Aetas). E il tempo fugge ancora, secoli dopo, in Petrarca (1304-1374) che svela l'inganno non tanto del tempo, quanto della pretesa dell'uomo di computarlo, di dividerlo in ore e minuti, perché il tempo del desiderio non corrisponde al tempo reale (Canzoniere LVI):
Se col cieco desir sche ‘l cor distrugge
Contando l’ore no m’inganno io stesso,
ora mentre ch’io parlo il tempo fugge
ch’a me fu inseme et a mercè promessoNon vi può essere piena simultaneità tra le diverse temporalità esperite dall'uomo, quella del tempo standard, intersoggetivamente accessibile, intersezione tra il tempo cosmico ed il suo calendario socialmente stabilito, e il tempo interiore (Berger, Luckmann 1966).
Per Seneca (Epistulae morales ad Lucilium I, 3) è l'uomo che di fronte all'incessante fluire del tempo deve riappropriarsi del tempo stesso: "dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est (mentre si differisce la vita scorre. Nulla, Lucilio, ci appartiene, solo il tempo è nostro). Ci appartiene perché non è importante vivere ottanta o venti anni, perché spesso chi vive a lungo è già morto da tempo, chi muore giovane ha vissuto più intensamente, quindi di più: non si deve cercare di vivere a lungo, ma abbastanza, "non ut diu vivamus curandum est, sed ut satis" (Epistilae morales ad Lucilium XCIII, 2), perché il tempo della vita dipende dal fato, ma l'intensità di essa dipende dall'uomo ("nam ut diu vivas fato opus est, ut satis, animo"). (Epistilae morales ad Lucilium XCIII, 2). Il tempo non è semplice computo di ore o di minuti, è qualcosa di prezioso ("preziosissima omnium" di gran valore al di sopra di tutte le altre cose) da conservare con grande attenzione ("id debet servasi diligentius"), anche se è qualcosa di immateriale che non cade sotto gli occhi ("res incorporalis est, quia sub oculos non venit") (De brevitate vitae, VIII 1-3 passim). Si deve attribuire il giusto valore al tempo (Petrarca, Familiares XVI, 11), valore che ha imparato ad attribuirgli, nell'ottica di Seneca, il saggio stoico che, solo, sa sottrarsi alla frantumazione del tempo in una miriade di eventi susseguenti per riscoprirne una più vera unità, qualitativa e non quantitativa, attraverso il dominio del presente: "non esse positum bomun vitae in spatio eius, sed in usu (il bene della vita non è nel suo spazio, ma nel saperlo utilizzare) (Epistulae morales ad Lucilium IL 10). Il tempo viene sottratto al computo esterno di meridiane e clessidre; unica sua misura possibile è all'interno dell'animo umano che vive un tempo atemporale in cui un attimo può equivalere a un secolo: "inter brevius et longius tempus nihil interesse iudicat" (tra un tempo più breve ed uno più lungo non pensare che ci sia differenza) (De vita beata XXI 1); "stabilita mens scit nihil interesse inter diem et saeculum" (una menta tranquilla sa che non c'è differenza tra un giorno e un secolo)(Epistulae morales ad Lucilium CI 8).
Nelle descrizioni di un tempo non reificabile Seneca non può che ricorrere a immagini metaforiche per riuscire ad esprime compiutamente la fluidità e la non spazialità del tempo: il fiume, come tempo che scorre e travolge ogni cosa, "in cursu sempre est, fluit et praecipitatur" (è sempre in corsa, scorre e precipita); il punto, "punctum est quod vivimus et adhuc puncto minus" (un punto è ciò che viviamo ed ancora meno), come tempo che si contrae fino quasi a scomparire; l'abisso ("in profundum") del passato e del futuro, come tempo che l'uomo perde nel buio (De brevitate vitae, X passim).
Il tempo, allora, cos'è? Fluisce o è immobile? Ha un inizio o una fine? È discreto o continuo? C'è relazione tra il tempo oggettivo scandito dagli orologi e il tempo esperito nella nostra quotidianità, mai eguale a sé stesso? Possiede una dimensione assoluta o è un concetto relativo? Esiste come realtà a priori o "appartiene alle medesime pratiche conoscitive utilizzate per la sua comprensione" (Fasola, Inghilleri 2007).
Aristotele (384-322 a.c.) nella Fisica (xxxx) definisce il tempo come "numero del movimento secondo il prima e il poi" (Fisica IV, 11, 21 5b 1) non dipanando però l'aporia del rapporto tra anima percipiente il movimento ed il tempo stesso, anzi sottolineando il paradosso del tempo non divisibile in parti, pena l'ammissione che Achille mai potrebbe raggiungere la tartaruga [3].
"Si potrebbe però dubitare se il tempo esista o meno senza l'esistenza dell'anima. […] Se è vero che nella natura delle cose soltanto l'anima o l'intelletto che è nell'anima hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima" (Fisica IV, 14, 223a). Aristotele sostiene che chi numera è il nous, l'intelletto che è nell'anima, ma non volendo con questo soggettivizzare il tempo, quanto oggettivizzarlo, pur dovendosi ricordare che i concetti di soggettivo ed oggettivo non appartenevano alla cultura greca, ma ne sono una nostra sovra lettura.
Sarà Agostino a parlare per primo di tempo soggettivo, iniziando la propria riflessione sul tempo dalla constatazione che non appena si cerchi di fissarlo in qualche modo, di descriverlo o di misurarlo esso si dissolva in nulla. Non si può secondo il santo di Ippona definire il tempo utilizzando categorie proprie dello spazio, in quanto il tempo non è in sé, non è una cosa, ma una relazione, un rimandare ad un sistema di riferimento, un essere percepito da un soggetto senziente. Il tempo non è categorizzabile se con le categorie se ne riorganizzino i significati al di fuori degli spazi di senso del percipiente (Fasola, Inghilleri 2007).
Newton (1642-1727), uno dei padri della scienza moderna, afferma che il tempo è indipendente dagli avvenimenti e antecedente ad essi, ne sottolinea l'eterna validità e, pur distinguendo il tempo assoluto dal tempo relativo, ad entrambi riconosce comunque ordine e uniformità: "il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura è senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente ed è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è la misura sensibile ed esterna, desunta dal movimento, di una parte qualunque della durata, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l'ora, il giorno, il mese, l'anno, di cui ci si suol servire in luogo del tempo vero" (Naturalis philosophiae principia mathematica, I, def. VIII).
Secondo la fisica newtoniana il tempo, dunque, è una entità assoluta: esiste un 'tempo vero' che scorre uniformemente in tutti i sistemi di riferimento, un tempo che è successione rettilinea di istanti identici, un tempo oggettivo e costante, progressivo e lineare.
Tutto l'Ottocento è permeato dalla concezione oggettiva del tempo che non può, però, che risolversi in fattore distruttivo: il tempo passa, è un susseguirsi di attimi, in cui il seguente distrugge il susseguente, in cui ciò che è stato mai più sarà. È il tempo di Flaubert (1821-1880), "principio di dissoluzione, elemento in cui le idee e gli ideali perdono il loro valore, la vita e lo spirito la loro sostanza" (Hauser 1977, vol. II, pag. 217).
È il tempo pubblico, scandito dalle letture astronomiche dell'osservatorio di Parigi alle dieci di mattina del primo luglio del 1913 quando la torre Eiffel inviò il primo segnale orario: "qualsivoglia fascino l'ora locale potesse avere avuto un tempo, il mondo era destinato a risvegliarsi con i ronzii e rintocchi di campane provocati da impulsi che si propagavano nel mondo alla velocità della luce" (Kern 1983, pag. 21). È il tempo cronometrico della Stazione di Montparnasse (1914) di De Chirico che fissa l'azione in un momento singolo, statico ed immobile, che blocca anche il movimento del treno sbuffante.Stazione di Montparnasse, Giorgio De Chirico, 1914
È il tempo della frenesia di Tempi moderni di Chaplin (1936), tempo parcellizzato, cronometrato, standardizzato in obiettivi. È il tempo di Gregor Samsa della Metamorfosi di Kafka (1912) che, risvegliatosi insetto, ha come unica preoccupazione l'orario del treno che forse perderà.
Modern Times, Charlie Chaplin, 1936
Con la teoria della relatività (1905) di Einstein (1879-1955) il tempo diviene, invece, una grandezza che risente della velocità relativa dei sistemi di riferimento: "ogni sistema di riferimento ha il suo proprio tempo" (Einstein 1960, pag. 44). Spazio e tempo da quantità assolute, immobili e distinte diventano intrinsecamente relative, per cui lo spazio non è distinguibile dal tempo: le dimensioni variabili di spazio - tempo sono determinate dagli eventi di interazione tra energia e materia. Secondo l'esperienza comune esiste un passato, un presente e un futuro, un evento precede o segue un altro evento o due eventi accadono simultaneamente; nella dimensione relativistica la distinzione tra passato e futuro non c'è: spazio e tempo appartengono a un sistema spazio-temporale a quattro dimensioni, gli eventi vengono riferiti ad uno spazio cartesiano quadridimensionale in cui la quarta coordinata è il tempo.
È il tempo della simultaneità, dell'uso del telefono e della radio con le loro comunicazioni in tempo reale, è il tempo della velocità, delle macchine e degli aerei che sconvolgono la concezione di lontananza come misura di spazio percorribile in un determinato tempo. È il tempo cinematografico, rapsodico, discontinuo, frutto di dissolvenze e frammenti [4]. È il tempo rappresentato dagli orologi di Salvador Dalì in La persistenza della memoria che, quasi in ossimoro, paiono al di fuori del tempo: deformare l'orologio, lo strumento che vuole misurare in modo assoluto il tempo, scandirlo per piegarlo alle esigenze pratiche della vita quotidiana, significa deformare il tempo, trasformarlo in qualcosa di liquido che si adatta alla superficie dove viene posto, sottrarlo quindi alle regole apparentemente logiche del susseguirsi regolare del prima e del dopo. È il tempo delle forme cubiste di Picasso, Braque, Gleizes, Metzinger, Gris dove l'immagine totale si irradia nel tempo, dove in modo sincronico si esperiscono sensazioni e riflessioni diacroniche, dove le prospettive molteplici si appropriano non solo dello spazio, ma anche del tempo (Metzinger 1912).
Al tempo pubblico [5] dell'ora mondiale si è sostituito il tempo privato, i tempi differenti quanti sono differenti le persone che li creano rispetto ai loro differenti stili di vita, sistemi concettuali, forme sociali (Kern 1983): osservare il mondo è osservare un mondo costruito dalle proprie esperienze che lo organizzano e lo ordinano (von Foester 1982).2. Agostino
Quid est ergo tempus? si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio.
Agostino, Confessiones, XI, 14"Ma allora, Signore, misuro e non so quello che misuro. Misuro il moto di un corpo nel tempo. Non misuro dunque anche il tempo? Ma potrei misurare il moto di un corpo, la durata, la durata relativa da un punto all'altro, se non misurassi anche il tempo in cui avviene il moto? Ma il tempo in sé come lo misuro? " (Agostino 396-398, XI 26).
Nel IV secolo Agostino (354-430) si interroga già, pur in termini non formali, sulla possibilità di misurare il tempo attraverso unità di misure prefissate, come si misura "la lunghezza di un carme dai versi, e i versi dai piedi, e i piedi dalla lunghezza delle sillabe. […] Ma può accadere che un verso breve, pronunziato più lentamente, si senta per una durata maggiore di tempo che un verso più lungo recitato più rapidamente" (Agostino 396-398 XI 26).
"Che cos'è, allora, il tempo? […] Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste? […] Né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre, passato, presente e futuro, ma più corretto forse sarebbe dire che i tempi sono tre in questo senso: presente di ciò che è passato, presente di ciò che è presente e presente di ciò che è futuro. Sì, questi tre sono in un certo senso nell'anima e non vedo dove possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente è la percezione, di ciò che è futuro l'aspettativa. […] di qui mi pare che il tempo non sia altro che estensione" (Agostino 396-398, XI, 14-26).
Il tempo allora non è misurabile o quantificabile se non nell'anima di chi il tempo lo percepisce, di chi "nell'animo vive l'attesa del futuro e nell'animo vive il ricordo del passato" (Agostino 396-398, XI 28). Se per misurare il tempo si assumevano i moti degli astri, Agostino capovolge la prospettiva: non il movimento degli astri può essere assunto quale unità di misura del tempo, ma il tempo stesso diviene fondamento della determinazione della durata dei moti. È il tempo inteso come 'distensio animi' a poterci dare una misura del tempo stesso, in quanto ciò che viene misurato non sono le cose nel loro trascorrere, ma le affezioni che esse lasciano nel nostro animo. È il soggetto percipiente che attualizza il passato e presentifica il futuro (si veda il concetto di deliberazione di Dewey, 1922), è lui che soggettivamente misura il suo tempo; e non è un caso che non ci siano orologi, esterni e oggettivi, che possano misurare il futuro. Il tempo diventa costitutivo del nostro essere: non è un'entità ideale, astratta, che scorre al di fuori e al di sopra di noi, bensì una realtà concreta che è fatta da noi e che pertanto dipende da noi. "Quel che accade nel mondo esterno appartiene alla dimensione temporale in cui hanno luogo gli eventi della natura inanimata. Può essere registrato con dispositivi appropriati e misurato dai nostri cronometri. È il tempo spazializzato, omogeneo, la forma universale del tempo oggettivo o cosmico. D'altra parte è nel tempo interiore o durée che le nostre esperienze attuali si connettono con il passato, attraverso ricordi e rievocazioni, e con il futuro, attraverso aperture ed anticipazioni" (Schutz 1945). Il comune modo di pensare viene a rovesciarsi: non è più la nostra vita che si svolge nel tempo, ma piuttosto è il tempo che scorre entro la nostra vita e riceve da essa le sue scansioni, la sua misura e, in ultima analisi, il suo valore. Il senso stesso di un atto, di una azione è il risultato di una interpretazione data all'esperienza passata: "finchè vivo nei miei atti, finchè sono diretto verso gli oggetti di quasti atti, gli atti stessi non sono dotati di senso. Lo diventano se li afferro come esperienze ben circoscritte del passato, e, pertanto, retrospettivamente" (Schutz 1945).
L'uomo, secondo Agostino e Schutz, può dare ordine all'esperienza tramite il tempo, ma non dare ordini al tempo mediante l'esperienza.
"Non si può avere dunque un futuro lungo, non esiste ancora, ma un lungo futuro è la lunga attesa del futuro; non si può avere un passato lungo, non esiste più, ma il lungo passato è il lungo ricordo del passato" (Agostino 396-398, XI 28). Il tempo per Agostino ha perso il suo significato assoluto e assolutizzante, divenendo tempo interiore, tempo il cui valore è relativo al valore delle esperienze passate, della molteplicità dispersa di eventi che la memoria rende omogenei al di là di ogni successione temporale. Il tempo della memoria offre all'uomo nuove prospettive attraverso cui guardare il passato, il presente ed il futuro.3. Bergson
Il tempo come durata di Agostino è il concetto di estensione che si trova in Bergson (1859-1941), che rifiuta l'idea del tempo astratto utilizzato nelle equazioni di meccanica che contraddice la coscienza del tempo vissuto quotidianamente da ogni uomo come durata, movimento e fluire incessante, simultaneità in cui si annulla la differenza tra passato, presente e futuro. "La nostra durata non è il susseguirsi di un istante a un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l'incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. E poiché si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente" (Bergson 1907). Bergson sostiene l'impossibilità di cogliere la realtà dello spirito attraverso schematizzazioni rigide come quelle offerte dalle scienze: la vita è evoluzione continua, proiezione della realtà e dello spirito verso forme sempre cangianti, in una perenne attività creatrice, che può essere solo appresa intuitivamente nel suo flusso ininterrotto. La durata del tempo è come una melodia, sostiene Bergson, in cui le note si fondono in una ininterrotta successione, in una mutua penetrazione che rappresenta un tutto la cui divisione in parti distinte e isolate è pura astrazione del pensiero. "Non c'è dubbio che sia spesso conveniente formulare i fatti mentali in una specie di impostazione atomista, e trattare gli stati di coscienza più elevati come fossero costruiti da idee semplici immutabili che passano e tornano", come quando pensiamo alle curve come ad un susseguirsi di rette, ma "non dobbiamo mai dimenticare che stiamo esprimendoci simbolicamente. […] Una idea esistente permanentemente, che compaia sulla scena della coscienza ad intervalli periodici, è un'entità mitologica come il fante di spade" (James 1890)
La durata coincide con il divenire, fluidità indefinibile in cui si ha la fusione di successioni di cambiamenti qualitativi senza contorni definiti, eterogeneità pura che nulla ha a che vedere con il numero o con la omogeneità intrinseca alla strutturazione dello spazio (Bergson 1889). È la distinzione tra molteplicità numerica di tempo e spazio delle scienze, in cui si ha una successione di elementi quantitativi, e molteplicità qualitativa del tempo vissuto dalla coscienza e frutto non di un procedimento analitico, ma di un processo di sintesi operato dalla coscienza stessa. È il flusso continuo dove il passato si proietta sul presente e ad esso si compenetra e comporta l'insorgere di qualcosa sempre nuovo e mai prevedibile. È lo srotolarsi del gomitolo che è, al tempo stesso, l'arrotolarsi del filo in un nuovo gomitolo (Bergson 1889). La coscienza è "il progredire del passato che rode l'avvenire e ingrossa a mano a mano che avanza" (Bergson 1889). "La tensione presente fa passare il futuro nel passato: diminuisce il futuro, cresce il passato, finchè, esaurito il futuro, tutto diventa passato" (Agostino 396-398 XI 27). La coscienza, allora, in Agostino come in Bergson, è la memoria, conservazione del passato e anticipazione del futuro e una coscienza non può vivere due istanti identici, poiché dovrebbe costantemente finire e rinascere, che sarebbe negazione della memoria e quindi incoscienza. Una memoria non materialistica in Bergson, in quanto non rappresenta il nostro passato, ma lo gioca, lo attiva prolungando le immagini fino al presente, facendo riemergere da un fondo dimenticato i ricordi che in proiezione futura possano essere utili all'azione (Bergson 1896). Il rapporto tra presente e passato, tra memoria e azione futura viene schemtatizzata attraverso l'immagine di un cono rovesciato, la cui base sono i nostri ricordi, il piano su cui il cono giace è la percezione attuale del mondo: il vertice del cono è il punto in cui il nostro passato si inserisce nella percezione presente del mondo, selezionando in essa alcuni elementi in base al loro significato pratico, allo loro utilità pragmatica e in base al valore e alla significanza dei ricordi stessi, che sono però a loro volta depositati attraverso la selezione compiuta durante le proprie esperienze (Bergson 1896). Viene a definirsi così un rapporto biunivoco tra memoria e percezione: se la memoria orienta la percezione, la percezione permette alla memoria di attivare contenuti che altrimenti rimarrebbero sconosciuti.
Ancora più chiara, allora, l'impossibilità di spazializzazione del tempo in una successione di eventi come invece voleva la fisica classica: secondo Leibniz (1646-1716), ad esempio, il tempo è formato dagli avvenimenti e dal loro rapporto e costituisce l'ordine universale della successione. Gli istanti, fuori dalle cose, non sono niente, e non consistono in altro che nel loro ordine successivo. Il tempo ha un'esistenza reale, in quanto "ordine delle successioni" (Troisième lettre à Clarke, § 4). Per Bergson, invece, "è la coscienza, attraverso la sua capacità di conservare nella memoria gli oggetti e poi di giustapporli in una successione ordinata che crea il tempo omogeneo. [...] Ogni termine assume per la nostra coscienza un duplice aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all'identità dell'oggetto esterno, l'altro specifico, perché l'addizione di questo termine dà luogo a una nuova organizzazione dell'insieme. [...] Distinguiamo due forme di molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente: [...] l'uno netto, preciso, ma impersonale; l'altro confuso, infinitamente mobile e inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe coglierlo senza fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo cadere nel dominio comune" (Bergson 1907).
Il concetto bergsoniano di memoria richiama Agostino: "quando si raccontano cose vere e passate, in effetti, non sono le cose stesse che sono passate a essere cavate dalla memoria, ma sono le parole concepite dalle loro immagini, che si sono fissate nella mente come delle tracce dopo essere passate per i sensi" (Agostino 396-398 XI 14). Nella concezione agostiniana permane, però, l'idea di una traccia fissata da recuperare, magari attraverso una qualche "memoria involontaria", capace di restituire in modo irrazionale episodi del passato che si credevano perduti per sempre: basta lo stimolo di una sensazione visiva, o olfattiva, come un profumo o un sapore, perché riaffiori un ricordo legato a quella percezione e si possa rivivere "altrettanto fedelmente ciò che noi eravamo allora; questo frammento di tempo non può essere rivissuto se non dalla nostra sensibilità, dalla nostra persona di allora" (Proust 1913). In Bergson, invece, "la memoria non è la facoltà di classificare ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro. Non c'è registro, non c'è cassetto; anzi, a rigor di termini, non si può parlar di essa come di una 'facoltà': giacché una facoltà funziona in modo intermittente, quando vuole o quando può, mentre l'accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua. In realtà, il passato si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutto intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori" (Bergson 1907). Come il tempo non è più successione di prima e dopo non lo può essere neppure la memoria, che diviene così continua reinvenzione di ciò che è stato alla luce di ciò che è, di ciò che sono stato alla luce di ciò che credo di essere e di ciò che vorrò essere: passato e futuro che vengono a fondersi nel presente di Agostino.4. La memoria (Svevo, Proust, Big fish, C'era una volta in America)
"Non era mai stata, quella vita se non in me. Ed ecco al cospetto delle cose – non mutate ma diverse perché io ero diverso – quella vita mi appariva irreale, come di sogno: una mia illusione, una mia finzione d'allora. […] Il sentimento cangiato non riesce a dare a quei luoghi la realtà ch'essi avevano prima, non per se stessi, ma per lui. […] quel povero dottor Palumba credeva di ricordare… S'era invece composta una bella favola di me" (Pirandello, I nostri ricordi da Novelle per un anno, pag. 708).
"Impossibile dunque raccontare la propria storia, scriverla, perché si verrebbe a fissare, le si darebbe un significato univoco e immutabile che non le appartiene, in quanto ogni istante aggiunge un nuovo significato al passato e al futuro, significato comunque sempre provvisorio: "il dottore, quando avrà ricevuto quest'ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest'ultimo periodo?" (Svevo 1923, p.115)
"Il sé che lavora vive tutto ciò modo presenti e, nel fare esperienza di sé come autore del processo lavorativo, realizza sé stesso come unità. Ma tale unità va in pezzi se il sé, nell'atteggiamento riflessivo, si volge verso gli atti lavorativi eseguiti e guarda ad essi modo praeterito. Il sé che ha eseguito gli atti passati non è più il sé totale e indiviso, ma piuttosto un sé parziale, l'esecutore di questo atto particolare, riferito al sistema di atti correlati cui appartiene" (Schutz 1945).
" In quanto ricordo ciò che ho detto io divengo un 'Me'. […] L''Io' così è presente nella memoria come portavoce del Sé di un secondo, un minuto o un giorno prima. In quanto elemento dato esso è un 'Me', un 'Me' che era l''Io' del momento precedente" (Mead, 1934)
"Zunica per Didì era un paese di sogno, lontano lontano, ma più nel tempo che nello spazio. Da Zunica infatti il padre recava un tempo, a lei bambina, certi deliziosi frutti fragranti, che poi non aveva saputo più riconoscere, né per il colore, né per il sapore, né per la fragranza, in tanti altri che il padre le aveva pur recati di là" (Pirandello, La veste lunga da Novelle per un anno, pag. 693).
Nella tragedia si attua il paradosso della simultaneità di due sistemi temporali: il passato in cui è collocata la vicenda dell’eroe e il presente in cui l’eroe realizza la sua storia.
Proust
"…eresia. Non una trama visibile, ma una mappa piuttosto intricata di soggetti che si accavallano e si sovrappongono, mai una situazione capitale da cui far derivare le ragioni particolari" (Bo 1983, pag. XI, XII).
personaggi come "mondi suscettibili di infinite aggiunte, correzioni e riduzioni" (Bo 1983, pag. XIV)"A furia di raccontare le sue storie un uomo diventa quelle storie, esse continuano a vivere dopo di noi e in questo modo egli diventa immortale" (Tim Burton, Big fish, 2003)
Big Fish, Tim Burton, 2003
Il mondo non è un oggetto esterno a noi, dato e immutabile, non importa tanto viverle le cose, l'importante è ricordarle, e se la memoria può cambiare gli avvenimenti rendendoli più avventurosi ben venga, se questo può aiutarci a vivere o a morire.
“C’era una volta in America" è un percorso a ritroso nella memoria, un epico sforzo basato sul romanzo autobiografico di un piccolo gangster di origine ebrea, David Aaronson. Proprio il continuo altalenare fra presente e passato, fra la vita attuale e quella rivissuta, costituisce il percorso in avanti e indietro nella memoria del protagonista, Noodles, teso a formare un continuum emotivo che si stende in un arco di tempo di cinquant’anni. Il tempo non scorre, oscilla a salti dal 1933 al 1968, poi ancora addietro negli anni Venti, e così via.
Ma Leone non è uno storico, l’interesse non è quello semplicemente di raccontare, a questo possono bastare i libri di storia. Leone rimonta lo scorrere del tempo cronologico attraverso il tempo della memoria. Attraverso il montaggio cinematografico a balzi nel tempo, nella continua simbiosi fra ideale e reale, e nel loro incessante scontrarsi fa scaturire dalla storia il mito.C'era una volta in America, Sergio Leone, 1984
È la 'magica sensazione' di cui parla Proust (1871-1922) in Recherche du temps perdu (1913), sensazione "comune tanto al passato quanto al presente, e molto più essenziale di entrambi: […] aveva permesso al suo essere di carpire, isolare, fermare - per la durata di un lampo- ciò che di solito egli non cattura mai: un frammento di tempo allo stato puro". È la sensazione che permette "di sfuggire al presente" e "di gioire nell'essenza delle cose, cioè fuori del tempo".
Il cinema è un inventare storie, un insieme di spazi collegati tra loro, un andare e venire nelle coordinate del tempo che si riordina in uno spazio visivo, in un luogo inventato. Tale è per Deleuze il cinema di Bresson, di Dreyer, di Minnelli. Bresson dimostra che è possibile raccontare, determinando i dettagli, costruendo "frazioni di spazio disconnesse", dando un ritmo nuovo alle cose e allineando gli sguardi attraverso "piccoli blocchi"; Dreyer alternando la luce con l'ombra, giocando con il bianco che cattura la luce e il nero dove la luce si ferma; Minnelli assorbendo tutto nel colore-movimento, dando una nuova dimensione all'immagine.
In Godard, ad esempio, a differenza del cinema classico dove persisteva l'ideale dell'identità e del sapere come totalità e armonia, il mixage sostituisce il montaggio: le immagini appaiono dissociate, non c'è più unità tra autore, personaggi e mondo; il rapporto tra il sonoro e il visivo diventa asincronico, la voce fuori campo si fa indipendente dalle immagini e la sua funzione è quella di produrre un sistema di sganciamenti e intrecci tra presente e passato.
Riferimenti Bibliografici
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KERN S. (1983), Il tempo e lo spazio, Il Mulino, Bologna 1988
METZINGER J. (1912). Du Cubisme. Paris, Compagnie Française des Arts Graphiques 1947
ORAZIO Q. F., Carmina, in Orazio 1968
ORAZIO Q. F. (1968), Tutte le opere, Sansoni Editore, Firenze
PETRARCA F. (1474), Rerum vulgarium fragmenta, in Petrarca 1996
PETRARCA F. (1996), Canzoniere, Mondadori, Milano
PROUST M. (1913), Recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1987
PROUST M. (1983), Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano
SENECA L. A. (49-52), De brevitate vitae
SENECA L. A. (62), Epistulae morales ad Lucilium,Note
[1] Tu non chiedere, tanto non è dato / sapere, quale a me, quale altra a te / sorte gli dei concedano, Leuconoe; / e i giri delle stelle non tentare. / meglio sporgersi al buio del domani / quale che sia, anche se molti inverni / ci assegna Giove o sia l'ultimo questo / che su le opposte rocce stanca il mare / Tirreno: appronta i vini, saggia; e accorcia, / poi che lo spazio è breve, il desiderio / lungo. Parliamo e il tempo invido vola: / godi il presente, e il resto appena credilo (traduzione Cetrangolo).[2] La vita si divide in tre tempi: il tempo che fu, quello che è e quello che sarà: tra questi quello che viviamo è breve, quello che vivremo è incerto, quello che abbiamo vissuto è certo
[3] Si tratta del paradosso di Zenone di Elea (495 a.C.-430 a.C.): Achille è riconosciuto come il più veloce degli eroi antichi, eppure, secondo Zenone, egli non potrà mai raggiungere una lenta tartaruga. Si immagini la gara: Achille scatta veloce e in un certo tempo t raggiunge il punto in cui era la tartaruga. Ma nel frattempo, la tartaruga stessa ha percorso un certo spazio. In un attimo, Achille raggiunge il punto in cui era la tartaruga. Essa, però, non è più lì: sia pur di poco, ha percorso un altro spazio. Achille lo supera facilmente, ma ... ecc. ecc. Così Achille - conclude Zenone - si avvicina sempre alla tartaruga, ma senza poterla mai raggiungere.
[4] Gli esordi del cinema si devono a Eadweard Muybridge e E.J. Marey che studiarono il movimento atomizzato attraverso serie di fotogrammi, utilizzando la tecnica della cromofotografia, che analizza il movimento per mezzo di una serie di istantanee, presi ad intervalli di tempo brevi regolari (Kern 1983).
[5] Un tipo particolare di tempo pubblico è il tempo sociale di Durkheim (1912): "le divisioni in giorni, settimane, mesi e anni corrispondono alla ricorrenza periodica di riti, feste e cerimonie pubbliche. […] Un calendario esprime il ritmo delle attività collettive, mentre allo stesso tempo la sua funzione è di assicurare la loro regolarità" (pag. 12).