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Dove gli Angeli Esitano: Etica, Ecologia e Complessità
Marcello Cini
Centro Interdipartimentale di Ricerca sulle Metodologie della Scienza, Università “La Sapienza” - Roma
1. Il punto di partenza del mio discorso sta nella constatazione, ormai ovvia, che sta esplodendo il problema del rapporto fra conoscenza scientifica e valori. Non credo sia esagerato affermare che questo problema è la principale sfida per la civiltà umana con la quale si apre il terzo millennio. Senza scienza non si sopravvive, ma di scienza si può anche morire. Detto in altri termini, se è vero che il sonno della ragione genera mostri, è anche vero che il sonno dei sentimenti, delle emozioni e dell'etica genera robots o, con termine più moderno, computers autoreplicanti.
La tradizionale separazione fra una scienza che persegue in completa autonomia l'obiettivo di acquisire conoscenza oggettiva e disinteressata, e una società che sceglie di applicarne i risultati per soddisfare i bisogni dei suoi membri in base a priorità e vincoli economici, sociali e morali in accordo con le norme che ne regolano la convivenza, non regge più. Il dogma della avalutatività delle affermazioni della scienza è crollato. L'ideale della "conoscenza fine a se stessa" si rovescia nella pratica della "ragione strumentale".
Ogni giorno ci si interroga se sia lecito utilizzare una nuova tecnica per trasformare caratteristiche di organismi viventi considerate fino ad ora naturali e immutabili, e si discute su chi debba decidere e in base a che criteri. Ogni giorno i confini fra il naturale, l'artificiale e il soprannaturale si sfumano e si intersecano. Ogni giorno si scoprono effetti imprevisti di innovazioni introdotte per uno scopo determinato che provocano cambiamenti non voluti in aree e settori differenti. AIDS, mucca pazza, Ogm, sconvolgimenti climatici, sono solo piccole avvisaglie di ciò che le nuove generazioni dovranno affrontare. I pretori si sostituiscono ai medici, gli scienziati alzano la posta al gioco della creazione, i politici inseguono gli indici d'ascolto televisivi, i depositari di dogmi agitano idoli che rendono più fanatici i fedeli e più spregiudicati gli increduli. Le tradizionali divisioni di compiti e di responsabilità, le vecchie regole non bastano più.
Come trovarne di nuove, in grado di ridestare fiducia nel futuro, additare finalità per le quali valga la pena impegnarsi, stimolare solidarietà e ridare significato alle norme della convivenza civile? Non sono certo così presuntuoso da credere di poter suggerire risposte a queste domande epocali. Vorrei soltanto riuscire ad argomentare le ragioni che mi portano ad affermare che il contributo del pensiero di Bateson è essenziale per affrontarle. Per fare questo, tuttavia, mi sembra più utile, e soprattutto più fedele al suo insegnamento, mostrare quanto il processo stesso di crescita delle conoscenze, scientifiche e non, negli ultimi decenni sia ricco di conferme della fecondità delle sue idee, piuttosto che richiamarle astrattamente come se si trattasse di un sistema filosofico preconfezionato da calare dall'alto sui risultati ottenuti dalle singole discipline.2. Quando ero giovane pensavo che l'unico modo di "conoscere" il mondo fosse la scienza, attraverso il pensiero razionale. Questi erano i capisaldi delle mie convinzioni di allora.
a) L’unico metodo per ottenere conoscenze certe e veritiere sul mondo circostante, consiste nell’accertamento di fatti riproducibili in condizioni controllate collegandoli mediante relazioni reciproche logicamente verificabili (Galileo: sensate esperienze e certe dimostrazioni).
b) Premessa indispensabile per acquisire queste conoscenze è l'adozione di un postulato ontologico, secondo il quale la realtà è separabile in oggetti distinti. Le proprietà di un oggetto non dipendono dagli oggetti circostanti e sono interamente deducibili dalle proprietà delle parti che lo costituiscono e dalle loro relazioni reciproche. Da questo postulato segue, come obbiettivo prioritario della scienza, la scoperta delle leggi necessarie e universali della natura che regolano le proprietà degli elementi ultimi.
c) Condizione per raggiungere gli obiettivi precedenti è l'adesione a una deontologia professionale sintetizzabile nei quattro imperativi mertoniani (universalismo, comunitarismo, disinteresse e dubbio sistematico) come prescrizioni tecniche e morali per perseguire lo scopo istituzionale della scienza: l'accrescimento della capacità da parte dell'uomo di rappresentare la realtà esterna e di prevedere la sua evoluzione ricostruendone una immagine fedele.
Il primo di questi capisaldi a entrare in crisi fu per me l'ultimo. Attraverso una serie di esperienze, politiche, culturali, emotive, cominciai a convincermi, all'inizio degli anni '60, che "molti miti sul carattere ineluttabile e sul valore oggettivo dello sviluppo della tecnica e della scienza dovranno cadere", perché, dicevo, "non si può considerare in astratto tale sviluppo come uno strumento neutro rispetto alla struttura sociale, trascurando il momento essenziale dell'influenza di quest'ultima sul primo, influenza che appare sempre più determinante".
Nel giro di due o tre anni questa convinzione si tradusse nel riconoscimento che anche gli altri capisaldi della concezione tradizionale vengono messi in crisi. Così riassumevo infatti le conclusioni alle quali ero arrivato: "Siamo portati a contestare il dogma della neutralità della scienza, così profondamente radicato nella mente e nella coscienza di tanti di noi, nella misura in cui diventiamo consapevoli che non è più possibile separare l'oggetto del nostro atto di conoscenza dalle ragioni di questo atto, il momento dell'indagine della realtà dal momento della formazione di questa realtà, isolare il processo di soluzione di problemi senza individuare il meccanismo che propone i problemi da risolvere."
Il mio primo contatto con Bateson risale al '76, l'anno della pubblicazione della traduzione italiana del suo "Per una ecologia della mente" . Fui particolarmente colpito dal suo saggio su "Le categorie logiche dell'apprendimento e della comunicazione", nel quale viene tracciata la distinzione fra i diversi livelli di questo processo, una distinzione che mi chiarì il punto fondamentale di una nuova concezione della scienza, che ne salvaguardasse la relativa autonomia ma al tempo stesso ne riconoscesse il carattere di attività integrata nel processo evolutivo di un contesto sociale. "La crescita della conoscenza scientifica - riconobbi - non sfugge dunque alle modalità di acquisizione di conoscenza da parte dell'uomo. Che si tratti di conoscenza collettiva o individuale, queste modalità si basano sulla possibilità di ordinare le informazioni contenute nei messaggi che alimentano questa acquisizione in una gerarchia di classi, ognuna delle quali è un elemento di quella immediatamente superiore, e al tempo stesso raggruppa quelle del livello inferiore. [La crescita della conoscenza scientifica] non è dunque più vista come semplice accumulazione indifferenziata di nuovi contributi, ma come processo di arricchimento e di riordinamento di questo complesso sistema di relazioni fra classi di proposizioni sul mondo circostante, classi di proposizioni sulle proposizioni precedenti, e così via."
Da Bateson imparai dunque a guardare con occhi diversi il mondo della complessità, ad analizzarne le gerarchie intrecciate, a ritrovare le tracce della storia nelle strutture presenti e i condizionamenti delle loro forme passate sui cammini delle loro trasformazioni. Cominciai ad accorgermi che il panorama della scienza stava cambiando: nell'universo delle leggi naturali stava prendendo forma il mondo dei processi evolutivi.
3. La prima soglia di complessità si incontra quando si constata che esistono "oggetti" che non possono essere smembrati nei loro costituenti senza distruggerli. I sistemi complessi sono articolati in livelli di organizzazione. I linguaggi che descrivono le proprietà dei livelli superiori non sono interamente riducibili a quelli dei livelli inferiori. Essi sono fra loro compatibili (ci sono vincoli reciproci da rispettare) ma le proposizioni del linguaggio che “spiega” le proprietà degli oggetti di un dato livello non possono essere completamente sostituite da proposizioni del linguaggio che “spiega” le proprietà degli elementi del livello inferiore, dei quali gli oggetti in questione sono costituiti. (esempio: le proposizioni della biologia molecolare non possono essere espresse mediante il formalismo della meccanica quantistica).
Via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della realtà, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato si indebolisce, e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione tra loro: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. (esempio: cognitivismo vs. connessionismo nelle discipline della mente). In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso “oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo” perché il punto di vista è scelto dallo scienziato che lo propone.
Altre due proprietà caratterizzano gli oggetti al disopra della prima soglia di complessità. La prima è l'irriducibilità della storia a fattori strutturali. Essa deriva dal ruolo fondamentale che gioca il caso, cioè l'intervento aleatorio di fattori esterni, nell'evoluzione dei processi che li coinvolgono. La seconda è l'autoreferenzialità. Questo concetto svolge un ruolo centrale nella spiegazione del funzionamento dei sistemi biologici. Esso significa che il sistema è sede di catene circolari di causalità nelle quali ogni componente fornisce alle altre un segnale dotato di significato, nel senso che contiene nuova informazione rispetto ai segnali che essa ha ricevuto dalle altre. Questa proprietà implica che soltanto quando si instaura una coerenza interna fra i segnali in entrata e in uscita di ogni componente, che permette di riprodurre a ogni iterazione successiva del segnale circolante la situazione precedente, il sistema viene a trovarsi in uno stato stabile. In questo caso il sistema è autoreferenziale.
In conclusione al disopra della prima soglia il soggetto è ancora esterno all'oggetto, ma la conoscenza non è riducibile a una rappresentazione univoca dell'oggetto (pluralità di punti di vista), né le proprietà dell'oggetto sono riducibili completamente a quelle dei suoi componenti. L'aleatorietà, e quindi la storia, diventa un elemento essenziale dell'evoluzione. L'autoreferenzialità dei livelli della struttura genera novità.
L'oggetto è dunque ciò che Bateson chiama una "mente". Questo termine è per lo meno ambiguo, perché il significato comunemente usato è quello di attività cerebrale e, soprattutto nel linguaggio parlato, dove le virgolette non si pronunciano, diventa difficile capire in quale accezione viene inteso. Nella mia relazione userò liberamente il termine mente nel suo significato comune, e avvertirò esplicitamente quando parlo della mente secondo Bateson. La relazione tra i sei criteri di GB che definiscono una "mente" e le definizioni di "sistema complesso" che troviamo in altri autori è soprattutto la differenza di accento sulla natura di ciò che assicura l'autoriproduzione del sistema e la sua stabilità. Per GB è la circolazione dell'informazione tra le sue parti mentre per altri (esempio, Varela : autopoiesi) è lo scambio di materia ed energia (sistemi autocatalitici) che riproduce la struttura. In entrambi i casi c'è una gerarchia di livelli organizzativi, ma per GB essi riguardano i tipi logici dei messaggi scambiati. La differenza di accento si traduce in un differente modo di vedere il rapporto fra sistema complesso e ambiente. Per chi attribuisce all'oggetto complesso una individualità autonoma l'ambiente è soltanto fonte di rumore. Per GB una 'mente' può a sua volta essere parte di una 'mente' più vasta e l'ambiente diventa fonte di informazione dotata di significato. Diventa possibile dunque studiare il processo di "apprendimento" da parte di un sistema complesso in quanto componente di un sistema più vasto che a sua volta subisce un processo evolutivo. La sostanziale unità dei processi di apprendimento e di evoluzione che ne risulta è la chiave dell'epistemologia batesoniana e la base per il superamento del dualismo cartesiano che ne risulta.4. La seconda soglia di complessità si incontra quando il soggetto della conoscenza viene coinvolto in un rapporto circolare con l'oggetto all'interno di una mente più vasta che li comprende entrambi. La prima soglia, come abbiamo visto, porta alla pluralità di linguaggi "scientifici", cioè all'esistenza di differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di osservazione, culturali, epistemologici, tecnologici, a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. Essi non sono tuttavia incompatibili fra loro in quanto portano tutti a una conoscenza formalizzabile attraverso il pensiero razionale. La seconda invece porta a una pluralità delle forme di conoscenza da parte del soggetto, cioè all'esistenza, accanto alla conoscenza formalizzata mediante il pensiero razionale, di forme di "com-prensione" dell'oggetto da parte del soggetto che nascono da esperienze di natura emotiva non mediata dalla razionalità. Questa pluralità di forme di conoscenza corrisponde a una pluralità di linguaggi diversi: accanto a quello scientifico troviamo dunque quello letterario, artistico, mistico, onirico, e magari altri ancora.
Quando soggetto e oggetto fanno parte entrambi di un unico metasistema la circolazione di informazione reciproca fra soggetto e oggetto porta a un processo autoreferenziale che genera (teorema di Gödel) incompletezza, ossia l'esistenza di proposizioni vere ma non dimostrabili. E' questa la sfera fenomenica in cui "la spiegazione - dice Douglas Hofstadter - dipende non dalla nostra comprensione di un solo livello per volta, ma da quella del modo in cui un livello riflette il suo metalivello, e dalle conseguenze di questa riflessione." E aggiunge: "Sono convinto che la spiegazione dei fenomeni emergenti del nostro cervello (idee, speranze, immagini, analogie e infine coscienza e libero arbitrio) si basa su una specie di circolo vizioso, un'interazione fra livelli in cui il livello superiore si congiunge di nuovo con quello più basso e lo influenza, mentre viene al tempo stesso determinato da quello inferiore."
Si tratta perciò di riconoscere che è assurdo cercare di ridurre le diverse forme di conoscenze a una sola, considerata come unica rappresentazione veritiera della realtà e negando validità alle altre. Questo ci porterebbe, dice Bateson a questo proposito, a dover scegliere tra "due incubi insensati": quello del "rozzo materialismo" e quello del "soprannaturalismo romantico". Sentiamo come ne parla:
"Di tutti i numerosi modi di affrontare il problema mente-corpo - molti portano a soluzioni a mio parere inaccettabili. Queste soluzioni sono fonte di svariatissime superstizioni, che dividerei in due classi. Vi sono forme di superstizione che collocano la spiegazione dei fenomeni della vita e dell'esperienza fuori dal corpo. Il corpo e le sue azioni sarebbero influenzati e in parte comandati da un qualche agente soprannaturale separato, una mente o spirito. In questi sistemi di credenze non è chiaro come la mente o spirito, che è immateriale, possa influire sulla materia bruta.[..] Questa superstizione non spiega nulla. La differenza tra mente e materia è ridotta a zero."
"Vi sono per contro - prosegue - superstizioni che negano affatto la mente. Come cercano di dimostrare i meccanicisti o materialisti, non vi è nulla da spiegare che non possa essere descritto da sequenze lineari di causa ed effetto. Per costoro l'informazione, l'umorismo, i tipi logici, le astrazioni, la bellezza, la bruttezza, il dolore, la gioia e così via sono cose che non esistono. Secondo questa superstizione, insomma l'uomo è una specie di macchina." E conclude: "Non posso che ribadire con la massima chiarezza le mie opinioni sul soprannaturale da una parte e sul meccanicistico dall'altra: io disprezzo e temo entrambe queste opinioni estreme e le giudico ingenue e sbagliate sotto il profilo epistemologico e pericolose sotto il profilo politico."
Il vero problema, dunque, è quello di non lasciare coesistere separatamente una accanto all'altra queste diverse forme di conoscenza in una specie di stato di non belligeranza, ma di riuscire a metterle in comunicazione, a vederle come tutte quante necessarie per l'unità e la sopravvivenza del mondo vivente. E qui, ancora una volta troviamo GB che ci suggerisce una strada. Quando la spaccatura tra i problemi della mente e i problemi della natura cesserà di essere un fattore determinante di ciò su cui è impossibile riflettere, preconizza Bateson, temi come "il bello e il brutto, il letterale e il metaforico, il sano e il folle, il comico e il serio...perfino l'amore e l'odio diventeranno accessibili al pensiero formale." E' dunque il riconoscimento dell'immanenza della "trama che connette" all'interno della "mente" che permette di parlare di questi temi con linguaggi diversi, che tuttavia si possono ricondurre a una comune esperienza originaria.5. L'intuizione fondamentale di Bateson è il collegamento profondo che esiste fra la sfera della bellezza e del sacro (entrambe forme di com-prensione emotiva non mediata dalla razionalità) e la sfera dell'inconscio. "Essere consci della natura del bello e del sacro - dice GB nel metalogo finale di Mente e Natura - è la follia del riduzionismo." Insisto ancora, perché mi sembra fondamentale, che per Bateson bellezza e sacro sono dunque, come l’inconscio, categorie immanenti alla “mente” e non provengono da entità trascendenti.
"Esistono forse - è la domanda fondamentale che Bateson si pone - nel funzionamento di tutti i sistemi viventi, processi tali che, se notizie o informazioni su questi processi raggiungono altre parti del sistema, il funzionamento armonioso del tutto viene paralizzato o sconvolto?" La risposta è affermativa. Sappiamo tutti che la sfera delle emozioni non può essere subordinata ai dettami della volontà cosciente. "E' possibile - risponde GB - che il rimedio per i mali della finalità cosciente si trovi nell'individuo. C'è quella che Freud chiamava la strada maestra verso l'inconscio; egli si riferiva ai sogni, ma io ritengo che si dovrebbero mettere insieme i sogni e la creatività dell'arte, o la percezione dell'arte, e la poesia e le cose di questo genere. E insieme ci metterei il meglio della religione."
La necessità di una sfera della non-comunicazione al proprio interno sembra dunque essere una condizione per la sopravvivenza stessa di una "mente". La barriera tra coscienza e inconscio sembra avere la stessa funzione della barriera fra genotipo e fenotipo. Quest'ultima impedisce la scorciatoia lamarckiana che porterebbe ogni specie all'estinzione in quanto la trasmissione alla progenie del fenotipo modificato da un mutamento ambientale passato sostituirebbe la trasmissione, assicurata dal genotipo, della capacità di modificare il fenotipo in presenza di mutamento ambientale futuro. C'è una differenza di tipo logico fra i due processi. Il fenotipo "apprende" a sopravvivere in un certo ambiente attraverso una catena di causalità lineare. Il genotipo contiene tutti gli strumenti necessari perché la specie possa "apprendere" a sopravvivere. Il genotipo, ma il discorso ci porterebbe lontano e non possiamo farlo qui, contiene anelli di causalità circolare che possono generare novità. Di qui nasce la necessità di proteggere il genotipo dalle modificazioni del fenotipo con la barriera di Weissmann.
Allo stesso modo la coscienza finalizzata "ci fornisce - dice GB - una scorciatoia che ci permette di raggiungere presto ciò che vogliamo... di seguire il più breve cammino logico e causale per ottenere ciò che si desidera." La coscienza finalizzata è dunque "tautologica", una proprietà tipica della causalità lineare. La parte inconscia della mente invece contiene tutto ciò che viene percepito schedandolo in una molteplicità di classi corrispondenti a un enorme numero di criteri possibili, dalle quali "la coscienza finalizzata estrae sequenze che non hanno la struttura ad anello caratteristica della struttura sistemica globale." E' chiaro dunque che il pensiero inconscio, o primario contiene una rete di connessioni fra classi di simboli, concetti, rappresentazioni, classi di queste classi, e così via, cioè di anelli ricorsivi di causalità circolare tra livelli di tipo logico differente, che genera autoreferenzialità, cioè, in una parola, "creatività".
Caratteristica del pensiero inconscio, ricorda Bateson , è "l'incapacità di distinguere tra "alcuni" e "tutti" e di distinguere tra "non tutti" e "nessuno". E ancora: "nei processi psicologici - è sempre Bateson che parla - la transitività delle relazioni asimmetriche non sussiste: la proposizione P può essere premessa per Q, Q può essere premessa per R, e R può essere premessa per P." L'inconscio è dunque sede di paradossi logici. Di qui la necessità di una barriera che tiene separate le due parti della mente. Si tratta tuttavia di una barriera permeabile, che permette una certa comunicazione tra le due sfere. Come si sa bene, è proprio questa la grande scoperta di Freud. Ma del legame tra Bateson e psicanalisi ho già parlato altrove e non è questa la sede per tornarci sopra. Voglio piuttosto fare qualche rapida osservazione sulle patologie che questa comunicazione può generare.
Tra queste la più nota è quella del pensiero schizofrenico, consistente nel trasferimento dei paradossi logici del pensiero inconscio individuale sul piano della realtà esterna alla mente. Su di essa non mi soffermo, anche perché è la più lontana dalle mie conoscenze. Assai più istruttivo, a mio giudizio, è riflettere sulle conseguenze drammatiche che produce in termini di conflitti sociali l'analogo trasferimento schizofrenico delle antinomie proprie dell'esperienza individuale del sacro nella sfera della coscienza collettiva di un gruppo. Bateson ce ne offre un esempio illuminante. "Nell'Europa del Quattrocento - osserva - cattolici e protestanti si mandavano al rogo, o preferivano andare al rogo, piuttosto che scendere a compromessi sulla natura del pane e del vino che si usano nella messa. Le affermazioni per cui si bruciavano a vicenda erano, da una parte: “il pane è il corpo” e, dall'altra: “il pane rappresenta il corpo”."
Il punto essenziale è questo: mentre nella sfera della coscienza (nella parte "calcolante della nostra mente") siamo in grado di distinguere perfettamenrte fra una cosa reale e il simbolo che sta per quella cosa, nella sfera dell'inconscio (la parte della mente che "sogna") queste distinzioni non possiamo tracciarle. Nell'inconscio non c'è differenza fra le cose e i loro simboli. Non c'è differenza fra è e rappresenta. Le guerre di religione sono dunque - ci spiega Bateson - una patologia collettiva che ha la stessa origine del pensiero schizofrenico individuale. Non è difficile a questo punto ipotizzare che analoghe forme di intolleranza religiosa o razziale abbiano la stessa origine. Per esempio, ma anche qui il discorso ci porterebbe troppo lontano, credo che si potrebbero trovare delle interessanti affinità fra le osservazioni di Bateson sul sacro e il discorso di René Girard sul carattere "sacro" della figura del capro espiatorio, che al tempo stesso viene "sacrificato" (notate il termine) in quanto causa dei mali che affliggono una comunità ma acquista, dopo il sacrificio, natura divina in quanto ne diventa il salvatore.
Altrettanto grave è tuttavia la patologia inversa, cioè il fenomeno della invasione della finalità cosciente nella sfera dell'inconscio. Scrive Bateson "La natura specifica di questa distorsione [è] tale che la natura cibernetica dell'io e del mondo tende a essere non percepita dalla coscienza, in quanto i contenuti del pensiero cosciente sono determinati da considerazioni di finalità." Tre sono le ragioni che rendono drammatiche le conseguenze di queste ristrette visioni finalistiche. In primo luogo il costume proprio dell'uomo di cambiare il suo ambiente piuttosto che se stesso. Questo costume produce ecosistemi artificiali tagliati fuori dalle catene di autoregolazione proprie degli ecosistemi naturali. In questo modo si moltiplicano gli ecosistemi artificiali a specie singola: campi di grano, colture di batteri, allevamenti di polli, colonie di cavie e così via. Ora poi si stanno creando ecosistemi artificiali di specie artificiali. Sono tutti ecosistemi che richiedono interventi esterni mirati e continui per la loro sopravvivenza, interventi che a loro volta danno origine a catene di effetti secondari imprevisti e non voluti.
Il secondo fattore è la crescente velocità di cambiamento del rapporto fra finalità cosciente e qualità dell'ambiente dovuta allo sviluppo di tecnologie sempre più potenti. La velocità è ormai un valore in sé, riconosciuto da tutti nella nostra società. Dal mondo della produzione, dove maggior velocità vuol dire maggior profitto, una connotazione positiva per tutto ciò che è più veloce si è diffusa in tutte le sfere della vita individuale e sociale. Insomma, la civiltà delle macchine si fonda sul (e produce il) mito della velocità. Ricordiamoci che Marinetti, ma anche Majakowskij, (ancora una volta troviamo radici comuni in contesti politici e sociali diversi) ne erano gli araldi. Nella civiltà contadina invece, come ben si sa, le cose erano molto diverse; i detti popolari “ogni cosa a suo tempo” e “chi va piano va sano e va lontano” riassumono la coscienza che la natura ha i suoi ritmi e le sue stagioni. Seminare troppo presto e raccogliere troppo tardi sono sbagli ugualmente pericolosi.
Per farla breve, l'ideologia riassumibile nello slogan “più veloce è meglio” è culturalmente rozza e socialmente pericolosa. Culturalmente rozza perché si fonda sull'assunzione del concetto newtoniano di tempo assoluto come flusso di riferimento comune per tutti i processi naturali e sociali, dimenticando che ogni fenomeno complesso ha in genere un tempo proprio caratteristico, che è l'unica unità di misura significativa della sua evoluzione. Socialmente pericolosa perché la spinta ad accrescere al massimo possibile la velocità di tutti i processi porta inevitabilmente a un loro sfasamento reciproco, cioè alla perdita della coerenza temporale fra loro necessaria a mantenere l'autoregolazione del sistema, una perdita che a lungo andare non può non sfociare in una catastrofe ecologica.
Il terzo fattore, infine, il peggiore, è la sostituzione delle finalità coscienti degli individui con le finalità proprie di entità non umane (come trusts, società, partiti politici, sindacati, compagnie finanziarie, nazioni ecc.) che non sono aggregati di persone, ma aggregati di parti di persone. "Quando il signor Rossi - spiega Bateson a questo proposito - entra nella sala del consiglio della sua società, egli deve limitare strettamente il suo pensiero ai fini specifici della sua società, o a quella parte della società che egli “rappresenta”. Idealmente, il signor Rossi dovrebbe agire come una coscienza pura, senza correttivi: una creatura disumanizzata." Questo meccanismo fa di queste "entità non umane" dei robot, dotati di finalità cosciente autonoma, impermeabile a qualunque intervento correttivo che non faccia già parte del progetto in base al quale sono stati costruiti. E, siccome sono in generale assai più forti e potenti dei singoli individui, la società degli uomini diventa sempre più una società di robot.6. Come affrontare queste minacce che Bateson qualche decennio fa così lucidamente intravedeva all'orizzonte? La prima cosa da fare è riconoscere che la smaterializzazione dell'universo delle merci caratterizza la svolta fondamentale del capitalismo del ventunesimo secolo. Con essa muta profondamente il processo produttivo. Non è più necessario, come quando si produce un oggetto materiale da immettere sul mercato, impiegare un lavoratore che lo fabbrica, né disporre di materie prime, macchine, componenti che a loro volta erano state prodotte da altri lavoratori.
Certo, la produzione di beni materiali rimarrà pur sempre una componente fondamentale del processo di produzione di merci. Anch'essa, tuttavia, con la riduzione a merce del mondo della vita e dell'universo della mente tende a smaterializzarsi. Basta entrare in un supermercato per accorgersi che la maggior parte di ogni oggetto è il risultato di "informazione": tutti i prodotti di una certa categoria merceologica contengono le stesse materie prime, ma si differenziano per il modo, le proporzioni, le procedure con le quali esse vengono trattate, mescolate, confezionate e pubblicizzate. Se si aggiunge a tutto questo la tendenza alla sostituzione del lavoro umano, fisico e mentale, con i robot e i computer, è facile concludere che la produzione di merci, materiali e immateriali, diventa potenzialmente illimitata, perché senza limiti è la nuova informazione che la mente umana può creare.
La caratteristica radicalmente nuova della produzione di informazione in forma di merce è rappresentata dalla possibilità, una volta realizzato il prototipo, di farne un numero illimitato di copie, praticamente senza costi aggiuntivi. Mentre ogni nuova auto venduta ha un costo che non può essere ridotto al disotto di quanto il produttore deve sborsare per pagare i lavoratori che l'hanno costruita e i fornitori che gli hanno venduto le materie prime e le componenti necessarie, duplicare un software non costa praticamente nulla: il prezzo di vendita è tutto profitto. Così come basta brevettare un procedimento, depositare un'idea, inventare un logo, per riscuotere i diritti da chiunque voglia utilizzarli.
Nel vecchio capitalismo erano le relazioni sociali fra le classi della società che stavano nascoste nell'involucro delle merci materiali: il possesso degli oggetti da utilizzare per uno scopo preciso - il loro valore d'uso - era subordinato al loro valore di scambio, che era a sua volta determinato dal rapporto fra capitalisti e lavoratori. I rapporti individuali, tuttavia, non avevano, in genere, valore di scambio. Nel nuovo capitalismo sono invece le stesse relazioni fra gli individui singoli che diventano merce: il capitale infatti ha gradualmente trasformato in merce tutti i messaggi di qualunque natura che gli individui si scambiano tra loro.
La contraddizione fondamentale della società del capitale globale sta infatti nella spinta a ridurre tutto all'omogeneità indifferenziata della forma di merce, da un lato, e nella necessità di soddisfare attraverso il mercato bisogni individuali e collettivi che investono tutto l'arco infinito delle esperienze umane, dall'altro. Tanto per fare un esempio, deve ridurre a merce sentimenti ed emozioni, gioie e dolori, bellezza e sacralità, e al tempo stesso deve convincere i consumatori che queste merci sono esperienze "vere" che possano essere vissute nel loro senso pieno anche dopo essere passate attraverso il filtro del mercato.
Nessuno dunque può più comunicare con gli altri se non paga un pedaggio al capitale che ha ridotto a merce tutti i mezzi indispensabili per mettere in relazione reciproca i membri della società. Senza queste merci l'individuo non può sopravvivere come individuo sociale. Diventa rifiuto, spazzatura, in una parola scompare. Questo spiega come Bill Gates sia diventato l'uomo più ricco del mondo, o, se volete, come sia stato possibile che in pochi mesi le azioni di un piccolo gestore di telefonini come Tiscali abbiano accumulato un valore di borsa superiore a quello della Fiat.
Per cogliere la natura del processo di produzione di merci in questo contesto ci è utile distinguere, secondo il punto di vista evoluzionista che Bateson ci ha indicato, i due momenti diversi che ne sono alla base: quello della differenziazione e quello della selezione. Fino a poco tempo fa la straordinaria multiformità del mondo della vita e l'infinita varietà delle idee che costituiscono l'universo del pensiero umano, sono state il frutto, ognuna nel proprio ambito, di processi storici regolati da fattori naturali (geografici, climatici, catastrofici) e sociali (culturali, economici, tecnologici) diversissimi, derivanti da un ampio spettro di nicchie differenti, vincoli autonomi e intrecci originali di caso e necessità. In altre parole sia il momento della differenziazione che quello della selezione hanno avuto storicamente come risultato l'accrescimento della diversità biologica e culturale.
Con l'acquisizione della capacità di trasformare gli organismi viventi e i cervelli umani in merce il momento della selezione subisce tuttavia un mutamento radicale. La sostituzione della pluralità di vincoli naturali e sociali che hanno fino ad ora regolato l'evoluzione delle molteplici forme della vita e del pensiero, con il vincolo unico della massima valorizzazione del capitale è una semplificazione mostruosa le cui conseguenze non sono ancora nemmeno lontanamente immaginabili.
Questo approccio ci permette dunque di individuare chiaramente l'obiettivo strategico degli attori sociali che intendono opporsi a questa devastante semplificazione: reintrodurre nel processo di produzione di nuova cultura - nel senso più ampio possibile del termine - una pluralità di vincoli diversi da quello dominante della legge del mercato, che non deve essere demonizzato, ma detronizzato dal suo attuale ruolo di vincolo universale per essere ridimensionato a quello originario di mezzo per equilibrare la domanda e l'offerta di beni necessari e intrinsecamente scarsi in una società complessa e articolata, evitando sprechi, appropriazioni indebite e distribuzioni cervellotiche.
L'obiettivo è dunque di ricreare un variegato arco di nicchie naturali e sociali protette dallo strapotere dei padroni del commercio internazionale; di far nascere e rivitalizzare vecchie e nuove relazioni tra individui e gruppi; insomma di ripristinare i mille rivoli del flusso di creatività, di iniziativa e di attività umane che rende fertile il tessuto della società, erigendo argini contro l'alluvione del capitale globale che, riducendo tutto a merce, deforma la diversità, che rappresenta la ricchezza della vita, fino a trasformarla nella sua orrida caricatura, la disuguaglianza, che rappresenta la miseria del denaro.
Se tutto questo è il senso del processo di globalizzazione, occorre allora porre la questione della difesa della diversità - diversità degli individui e dei loro bisogni, diversità delle culture e dei loro universi simbolici, diversità delle forme di vita e delle loro insostituibili peculiarità - al centro dell'azione volta a contrastarne le tendenze più pericolose e distruttive. In questo modo la prospettiva cambia radicalmente. Solo un meta-soggetto formato da soggetti diversi decisi a difendere la propria singolarità minacciata da questo processo di omologazione può infatti porsi questo compito.
Altrettanto indispensabile tuttavia è la consapevolezza comune che in questo meta-soggetto devono coesistere un pluralismo di culture e un tessuto comune, una compresenza di autonomie e un asse culturale condiviso, una competizione tra diversi e una sintesi provvisoria, dove sintesi non vuol dire mescolanza, diluizione, snaturamento di differenze importanti, ma accordo su meta-regole di rispetto reciproco e sull'impegno a cogliere quanto di fondamentale ci sia nelle rispettive concezioni della vita. Prima fra tutte quella che sancisca la diversità come ricchezza di tutti e unica via di salvezza per la nostra specie.
Nella sterminata letteratura sull'argomento si segnalano:
Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000
Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 1999
U. Beck, Che cos'è la globalizzazione, Carocci, Roma 2000
U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Modernizzazione riflessiva, Asterios, Trieste 1999
Bibliografia
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