Bauman: un futuro con troppe merci e troppi disoccupati

Roberto Bertinetti

Il Messagero 6 Giugno 2003

"MOLTI dei problemi che il mondo si trova oggi ad affrontare, in particolare quelli legati alla perdita di posti di lavoro a causa della continua innovazione tecnologica, non sono nuovi in Europa perché rappresentano una diretta conseguenza del modello di sviluppo costruito nel corso degli ultimi due secoli. A renderli più complessi è però il loro carattere ormai globale, che impedisce di ricorrere alle terapie utilizzate nel corso dell' Ottocento e di gran parte del Novecento". Zygmunt Bauman ricorda che sino a pochi decenni fa l'Asia, l'Africa, l'Australia o l'America Latina costituivano per le potenze economiche del Vecchio Continente un enorme mercato per i loro prodotti ma, soprattutto, garantivano un lavoro sicuro a chi non riusciva a trovarlo in patria. In partenza per l'Italia - domani sarà a Bologna, ospite di un convegno sul welfare - il grande studioso anglo-polacco spiega che l'effetto più visibile della globalizzazione è rappresentato proprio da un profondo mutamento nei rapporti tra il Nord e il Sud del pianeta. "Oggi non esistono più terre vergini che gli occidentali possano colonizzare per spegnere i focolai delle tensioni sociali interne. Al contrario, milioni di persone stanno premendo alle porte dell'Europa o degli Usa per costruirsi un futuro diverso da quello che avrebbero nei loro paesi", aggiunge Bauman. Si tratta di un fenomeno privo di riscontri nel passato recente oltre che, precisa, "della manifestazione più evidente della precarietà che caratterizza il nostro presente, di un tempo in cui tutto appare incerto e assai mutevole".

Professor Bauman, perché a suo giudizio la globalizzazione ha contribuito ad accentuare i problemi sociali su scala planetaria?

"Perché ha dimostrato ai popoli dell'Asia e dell'Africa, dell'Europa dell'Est e di altre regioni della Terra ciò che gli abitanti dei paesi più ricchi sapevano bene da tempo: che il progresso tecnologico comprime il numero dei posti di lavoro. La modernità è rimasta a lungo un privilegio di una percentuale ristretta degli abitanti del pianeta e il problema della manodopera in eccesso è stato risolto favorendo l'emigrazione di chi non poteva trovare lavoro in patria, dei rifiuti dello sviluppo occidentale. Per quasi duecento anni i "rifiuti" si sono messi in viaggio verso altre terre, oppure hanno rappresentato l'ossatura delle amministrazioni coloniali. Oggi la vittoria della modernità in ambito globale ha aumentato in misura esponenziale il numero dei "rifiuti". I processi di migrazione, poi, vanno in direzione opposta rispetto al passato, generano una mobilità che crea un allarme crescente in Occidente. A mio giudizio, il problema con il quale saremo chiamati a misurarci in futuro è quello della sovrabbondanza: di merci e, purtroppo, anche di uomini privi di lavoro. Il rischio è che la disoccupazione diventi una condizione permanente per centinaia di milioni di persone, senza che nessuna politica di welfare riesca a garantire tutele efficaci agli esclusi".

Nei suoi libri lei si è più volte occupato delle conseguenze dell'individualismo contemporaneo, sostenendo che rappresenta un pericolo per la stabilità sociale. Per quali motivi?

"Un senso di competitività esasperato, il successo del liberismo in ogni ambito e il progressivo indebolirsi delle strutture statali costituiscono le caratteristiche più evidenti dei mutamenti avvenuti nel corso degli ultimi anni. Certo, almeno in teoria la caduta dei regimi dittatoriali e il favore crescente per forme di governo democratiche in Asia e in Africa dovrebbero contribuire ad estendere i diritti, non a ridurli. Purtroppo, in Occidente e in altre parti del mondo, sta venendo a galla una differenza profonda tra la teoria e la realtà quotidiana. Con il risultato che siamo tutti impegnati in una difficile battaglia perché i principi sui quali abbiamo il nostro modello di welfare continuino a ispirare le scelte politiche. Ma tra le garanzie promesse e quelle davvero disponibili nell'ambito della sanità, dell'istruzione o dell'accoglienza si registra spesso un'enorme differenza. E proprio questa distanza costituisce, a mio giudizio, l'origine più evidente dell'ostilità nei confronti di chi appare diverso. La società degli individui è una società di persone sole e isolate, che hanno paura di non avere le caratteristiche giuste per ottenere successo. Il minor peso dello Stato nell'economia e nella vita pubblica ha indebolito i legami sociali, che però rappresentano l'unica difesa contro il razzismo, l'intolleranza e il disordine sul piano politico".

Pensa che la riscoperta di una religiosità di tipo tradizionale o il rafforzarsi del nazionalismo costituiscano una prova di quanto siano ancora importanti i legami sociali?

"Mi sembra che questi fenomeni, pur molto diversi tra loro, abbiano un denominatore comune: il rilievo attribuito al concetto di identità. Nello stesso tempo, tuttavia, credo che la preoccupazione, assai contemporanea, della tutela ad ogni costo dell'identità sia la manifestazione del bisogno disperato di ritrovare ciò che abbiamo perso per sempre: la solidità dei rapporti interpersonali. Se è vero, come io sostengo, che oggi sperimentiamo una condizione di perpetua instabilità, allora la crescente importanza attribuita ad una identità spesso immaginaria rappresenta un balsamo per provare a medicare le ferite. Va poi tenuto presente che la ricerca frenetica dell'identità non è un residuo del passato, ma rappresenta l'effetto collaterale dei processi di globalizzazione in atto. E, dunque, giudico poco probabile che i conflitti prodotti da una simile attività possano attenuarsi nel corso dei prossimi anni".

Saranno questi conflitti a produrre lo scontro tra civiltà che alcuni temono e altri, al contrario, auspicano?

"Non credo, anche se ancora non vedo un forte impegno per eliminare alla radice i motivi di diffidenza e di contrasto tra i diversi popoli che, a giudizio di Samuel Huntington, potrebbero aprire la strada ad uno scontro tra civiltà. Io concordo con il sociologo italiano Alberto Melucci: globalizzazione, diceva, è sinonimo di interdipendenza, di comune assunzione di responsabilità generali. Per il momento, però, questa consapevolezza mi sembra minoritaria, anche se non c'è altra strada per riuscire a governare la modernità. I problemi con i quali dobbiamo fare i conti sono infatti ormai globali e richiedono soluzioni globali. Che vanno individuate favorendo il confronto tra le diverse sensibilità politiche e religiose".

Più volte, in passato, lei si è definito socialista. Lo è ancora?

"Certamente. Essere socialista vuol dire credere che il grado di civiltà di un paese va misurato osservando quale trattamento riserva ai suoi cittadini più deboli. E, ancora, ritenere che la tutela dei diritti non rappresenta un ostacolo sulla strada della crescita economica. Aristotele ha scritto che una vita degna di questo nome può essere garantita solo da una società forte e coesa. Oggi molti tendono a dimenticarlo. Ecco perché penso che il mondo abbia ancora bisogno dei socialisti".

 

(Il consiglio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Sociologia Interattivo - Costruttivista, si rende disponibile alla rimozione del presente documento, qualora l'editore o l'autore considerino tale riproduzione lesiva dei loro diritti d'autore)

 


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