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Se il ghiaccio è sottile. La nuova condizione antropologica di un individuo solo e paranoico, stretto nel dissidio tra una libertà dispiegata e la necessità di adattarsi e mostrarsi flessibile.
Federico Rahola
Il manifesto, 8 marzo 2001
"Se ti trovi sospeso su una sottile superficie di ghiaccio, la tua salvezza dipende solo dalla velocità". Zygmunt Bauman ricorre a queste parole di Emerson per introdurci nella pervasiva dimensione di unsicherheit (polisemia che inglese e italiano non consentono, rinviando per questo a più dimensioni correlate: insicurezza, incertezza e unsafety) a un tempo fisica, ambientale, economica, "progettuale", che caratterizza l’esperienza contemporanea. Condizione cui Zygmunt Bauman áncora l’idea di una "modernità liquida", orizzonte limitato dove gli individui sono condannati a fluttuare rapidissimi e senza sosta, una volta perduto ogni riferimento spazio-temporale acquisito, quella "solida" sicurezza pubblica che Hans Jonas definiva come un tempo che conta e che ci fa contare.
I lavori più recenti di questo grande sociologo polacco - che ha trovato "casa" nella lingua inglese – offrono uno sguardo disincantato sulle trasformazioni che attraversano a più livelli la realtà sociale. Ne emerge una nuova condizione antropologica: un individuo irrimediabilmente solo e paranoico, nel dissidio tra una libertà dispiegata e la necessità di adattarsi e mostrarsi flessibile, tra una disponibilità di consumi senza precedenti e l’obbligo di una scelta che diventa non rinviabile e infallibile.
Se ha un senso recuperare un movimento unitario nell’estesa produzione di Bauman, questo può riassumersi in una tensione diacritica che oppone alle insidie tragiche della "sicurezza" e della razionalità moderna, i rischi altrettanto tragici della libertà contemporanea, la voragine di frammentazione e solitudine che subentra allorché ogni sicurezza "totale" evapora nel presente "globale".
Baumanè stato a Genova per una serie di lezioni nell’ambito del seminario di teoria sociale della facoltà di Scienze della Formazione. Lo abbiamo incontrato (chi scrive, insieme a Luca Guzzetti) per una breve intervista.
Proponendo l’immagine di un presente "liquido" – in contrapposizione con la "solidità" delle istituzioni moderne – lei si muove su un terreno condiviso da altri autori. Penso in particolare a Ulrich Beck e alla dimensione cognitiva/riflessiva che attribuisce al presente, alla pervasiva individualizzazione (elemento che Beck traduce anche positivamente, come inventività biografica) e soprattutto al "rischio" che, accanto alla maggiore libertà, sembra divenuto condizione "ontologica". In che cosa si distingue questa "modernità liquida" da visioni moderatamente "serendipete", ovvero meno critiche, "à la" Beck?
Un buon modo per interpretare un periodo storico è di guardare ai tipi di paure che lo percorrono. Quando – nel 1984 – si è "dovuto" rileggere Orwell, il tentativo di trovare a tutti i costi aderenza e analogie in quel modo di preconizzare il nostro presente è clamorosamente fallito. La paura di 1984 non è più la nostra principale paura. Nella visione distopica che accomuna due opere coeve, e per il resto decisamente lontane tra loro (Orwell, appunto, e Brave New World di Huxley) era l’immagine di un controllo totale, di un potere inaccessibile che usciva come potente metafora del futuro.
Oggi, più che di essere oppressi, si teme invece di essere abbandonati, soli, non adatti. Ciò che Bourdieu riassume nella dimensione complessiva di precarité, traduce necessariamente un sentimento di inadeguatezza: il maggiore compito individuale che il presente ci assegna non è nella specializzazione, nell’eseguire bene un compito, ma nel dimostrare di essere flessibili, in grado di svolgere qualsiasi cosa. Unsicherheit traduce questa dimensione assoluta di incertezza e l’ansia che ne deriva. L’immagine riflessa e capovolta di questa paura, ancora ribaltata rispetto a quella orwelliana, non consiste più nel desiderio di essere conformi, ma nel mostrarsi poliedrici, adattivi. Questo non implica che tutto sia fluido e improvvisabile. Le rigidità permangono ma non sono più accessibili. Claus Offe ha sintetizzato bene questa situazione antinomica tra una rigidità remota e una flessibilità immediata.
Ciò che ci manca è la possibilità di guardare al di là della marea di oggetti e di chances che circondano la nostra sfera individuale e di accedere ad ambiti più lontani dove la nostra condizione davvero si determina. Se, come rilevava Weber, uno dei caratteri costitutivi della "modernità solida" consisteva nel rinvio delle gratificazioni, oggi invece ogni scelta si salda a un esito immediato: tutto precipita in un istante. Sintomo di un più generale stato di precarietà, di una mancanza di fiducia nella solidità del tempo, di un venir meno di reti protettive. La paura di essere inadeguati proviene da un dato oggettivo: tocca a noi procurarci i "materiali" per costruire le nostre biografie, nessuno ce li fornisce e nessuno ci controlla in questa delicata operazione. La scelta deve essere fatta subito e deve essere quella giusta. La paura, in controluce, è di essere buttati fuori: ognuno si percepisce come potenziale vittima di esclusione.
C’è un’enorme frattura tra la condizione di abbandono in cui si è calati e la necessità di scegliere, tra le responsabilità delle scelte e le risorse a disposizione: non si riescono a prevedere conseguenze che si pagano in prima persona. E questo riguarda potenzialmente ogni aspetto della vita sociale: ogni tipo di relazione diventa instabile, sul lavoro e, come ha mostrato Giddens, nella sfera affettiva.
E, tuttavia, sia Giddens che – in parte – Beck sembrano "apprezzare" questa dimensione.
Nessuno nega che oggi esistano più opportunità di scelta, più libertà. Ma questo comporta un prezzo altissimo, eccessivo. Se, come asseriva Freud, il problema del XX secolo risiedeva nell’insufficienza di libertà, nell’eccesso di protezione/oppressione, oggi quella situazione si è rovesciata in una libertà illimitata e in una crescente unsicherheit, che riguarda ogni ambito dell’esperienza, reale e proiettivo. C’è da aspettarsi sempre più esasperazione ed eccitazione in questa generale domanda di sicurezza. Perché ogni occasione su cui proiettare la paura compensa un’ansia le cui cause sono fuori portata.
A proposito di questa dimensione proiettiva, lei ripropone la figura classica del "capro espiatorio". Quali sono oggi i principali "confini" politici e cognitivi che permettono di individuare un capro espiatorio?
La questione dei confini è oggi, in uno scenario in cui spinte globali e ritorni locali si intersecano, più che mai centrale e suggerisce una divisione rigida tra le diverse possibilità di superarli o subirli: la differenza siderale tra la condanna ad essere locali e il privilegio di esser globali, e nel più generale scenario di displacement in cui si inscrive il fenomeno migratorio, l’abisso che separa il turista dal vagabondo. La transizione a una modernità liquida assume sui confini una particolare visibilità: si parlava di confini nel IX secolo e se ne parla oggi, ma l’oggetto di cui parliamo non è più lo stesso. Se il significato moderno, "solido", dei confini era di controllare un territorio, oggi la sua funzione è essenzialmente quella di regolare differenze.
Questo modo d’uso dei confini è ancora centrale nell’individuare un possibile capro espiatorio. Più che di scapegoat, preferisco in ogni caso parlare di scapegoating: la tendenza costante a proiettare la propria vittimizzazione su un oggetto concreto che può assumere forme diverse. La "sedimentazione" di questo processo è spesso accidentale. L’opacità di fondo della nostra insicurezza – che in ogni caso è reale – crea i presupposti dello scapegoating: trovare un pretesto contro cui combattere per ricomporre e dare senso al nostro agire. Può trattarsi di un fumatore che ci "inquina". Si tratta sempre più di immigrati che diventano altrettanti "nemici". Di ogni oggetto che "credibilmente", in base cioè alle scarse risorse teoriche che abbiamo per leggere il presente, possa porsi come interfaccia tra la nostra insicurezza immediata e un mondo che percepiamo pieno di rischi lontani e incontrollabili. Esiste sicuramente una tendenza allo scapegoating che assume, questo l’elemento tragico, un carattere "genocidario". Ma le risorse psicologiche sono le stesse, che si tratti di un’ossessione proiettata sulle diete, sull’alimentazione o contro gli immigrati: un’ipersensibilità, un’ossessione, uno stato paranoico, riflessi di superficie di un’incertezza di fondo.
L’incertezza deriva, nella sua lettura, dalla crisi di un luogo di traduzione tra pubblico e privato. Vede intorno a sé condizioni di possibilità per ricreare uno spazio pubblico?
Il venir meno di uno spazio pubblico è uno dei fattori in cui la cesura con la solidità moderna è netta. L’insicurezza di oggi è diversa da quella dei nostri padri. Le nostre sofferenze non si accumulano, e sono invece rigorosamente individuali. Non esistono più luoghi in cui sia possibile dare circolarità, tradurre dimensioni private in pubbliche. Quella dimensione che apparteneva classicamente all’agorà, come spazio di mediazione tra òikos ed ekklésia, e che nella modernità solida si poteva rintracciare nelle prime forme di organizzazione sindacale.
Oggi quell’arte di tradurre si è persa. E anzi, l’individualizzazione ha assunto un carattere di autoperpetuazione. Se il secolo che si è chiuso è stato sempre attraversato da spinte di deterritorializzazione, ciò che Giddens definisce disembedding, a questo movimento ne corrispondeva sempre uno successivo e opposto di ri-embedding, con un effetto di traduzione quasi trasparente, immediato, che permetteva la riproduzione di un’ordine: l’idea sartriana di un projét de la vie, di coordinate che consentivano ad un borghese di esser borghese sapendo cos’era. Oggi quella dimensione si è spezzata e non ci sono più possibilità di ri-embedding, non ci sono più beds – se non i letti provvisori di un motel autostradale.
Il problema dell’identità oggi non è più quello di costruire, mattone su mattone, biografie solide, stabili, ma è anzi di costruirsi forme non rigide, non radicate. Tenere le porte aperte, senza mai potersi fermare e pensare di essere arrivati, in un gioco che a un long life project sostituisce una long life anxiety. Condizione che probabilmente Richard Sennett ha descritto meglio di altri nella contrapposizione banale tra Henry Ford e Bill Gates. La fabbrica fordista a un tempo decomponeva e frammentava l’esperienza lavorativa ma ricomponeva le vite in una cornice unitaria. Oggi interi complessi segmenti lavorativi sono affidati alla responsabilità individuale, privata, e le relazioni sociali si orientano sullo stile del mercato. Più in generale, è venuta a mancare una dimensione di routine, oppressiva ma anche apotropaica, una circolarità temporale che rappresentava la base solida dell’esperienza moderna.
Uno dei meriti di un testo importante come Le nouvel èsprit du capitalisme di Boltanski e Chiapello consiste nel sottolineare l’impossibilità di astrarre da queste mutate condizioni, dando risposte che ancora si riferiscono a condizioni tramontate. Non si tratta si far risorgere alcunché, non c’è modo per riavvolgere il nastro della storia. Ma sono possibili nuove risposte. Quando affermo l’urgenza di nuovi spazi pubblici di traduzione, alludo alla necessità di colmare l’abisso tra una condizione di assoluta fragilità individuale e un potere sempre più inaccessibile. Rispondere a questa domanda forte di punti di connessione significa essenzialmente creare due tipi di spazi pubblici. Un primo tra individualità de jure e de facto: rintracciare direzioni che non sono separabili dalle singole esperienze, ma che stanno oltre il destino individuale e possono trasformarlo da un giorno all’altro senza preavviso. Colmare questo divario significa creare una concreta possibilità di agire direttamente sulle proprie condizioni.
E ciò rimanda a un secondo e più profondo gap, che riguarda la separazione tra potere e politica. I processi che si definiscono come globalizzanti descrivono soprattutto questa fuga del potere dalla politica. Le istituzioni politiche inventate e costruite negli ultimi due secoli oggi sono semplicemente incapaci di indicare/raggiungere i luoghi in cui il potere si trova. Se il potere fluttua globalmente, la politica resta irrimediabilmente locale. Credo comunque che esistano dei segnali che ci fanno intravvedere un "movimento di movimenti": movimenti che incontrano e sfidano il potere sul suo stesso territorio, che oltre a pensare agiscono globalmente. Oggi nessuna istituzione statale può sostenere una simile sfida, perché troppo impigliata in interessi immediati, locali, elettorali. Per questo il recente incontro di Porto Alegre assume particolare significato, "prefigura" qualcosa di davvero incoraggiante.
Lei parla di un mercato di legittimazioni che compensano il venir meno di una autorità. Qual è lo spazio del potere in questo scenario acentrico e liquido?
Vorrei contestualizzare questa assenza di legittimazione nel quadro del boom di esperti e consulenti. La società degli individui è evidentemente affollata da un sempre maggiore bisogno di compensazioni. La molteplicità di legittimazioni si riferisce al fatto che invece di una sola autorità – assoluta, come in passato poteva essere la chiesa – si è passati ad una condizione di rivendicazione di monopoli da parte di più autorità in competizione sulla possibilità di produrre giudizi autoritari. Una competizione che, nella modernità liquida, diventa assoluta.
La legittimazione che Weber attribuiva ai poteri dello stato, oggi si è frantumata in una miriade di soggetti che rivendicano autorità e promesse di felicità individuale. Oggi il potere non si basa più su una forma di legittimazione ma sulla competizione del mercato.
Ad essere legittimata è solo la solitudine.
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