|
||||||||||||||||||
Noi e i media: spettatori o protagonisti?
Zygmunt Bauman
Il Manifesto 25 Ottobre 2002
Quale strategia poter adottare nell'era delle autostrade informatiche? E come non farsi schiacciare dalle chiacchiere del villaggio globale? Se ne parlerà dal 7 al 9 novembre a Roma
Nell'era delle autostrade informatiche l'argomento della non conoscenza sta rapidamente perdendo di credibilità. Le notizie sulla sofferenza delle altre persone, trasmesse nelle forme più vivide e più leggibili, sono immediatamente disponibili quasi in ogni luogo (da che l'accesso alla rete mondiale delle autostrade informatiche non richiede più neanche la vicinanza di un allaccio telefonico, la distanza non è più una scusa). Questo comporta due conseguenze che pongono due dilemmi etici di una gravità senza precedenti. Primo: essere spettatori non è più l'eccezionale condizione di pochi. Tutti noi siamo ormai spettatori: testimoni del male inflitto e della sofferenza umana che esso comporta. Secondo: tutti noi ci confrontiamo (anche se non ce ne rendiamo conto) col bisogno di discolparci e di autogiustificarci. Sono pochi - se mai ce ne fosse anche uno solo - quelli che non provano di tanto in tanto il bisogno di ri correre all'espediente del diniego della colpa.
Ci si lasci dire che nell'era dell'universale accessibilità e istantaneità dell'informazione scusarsi con un "io non sapevo" costituisce un additivo di colpa piuttosto che una assoluzione dal peccato. Comporta una connotazione di questo tipo: "Egoisticamente, per la mia pace mentale, mi rifiuto di preoccuparmi". Nell'era delle confessioni, in cui la sfera pubblica viene utilizzata come una vetrina per mettere in mostra la più privata intimità, il nascondere un'informazione viene visto ogni volta come un'offesa che provoca risentimento. In ogni caso, assorbire le informazioni a disposizione, prestarvi attenzione e trattenerle, "essere al corrente", unirsi alle ultime chiacchiere del villaggio diventa una virtù. Mentre, dall'altro lato, la mancanza di interesse, l'indifferenza per l'informazione, l'ignoranza delle ultime novità e dei discorsi di tendenza, il non tenersi al passo con il flusso delle news diventa motivo di vergogna.
Oggi che quasi tutti i discorsi sono chiacchiere del villaggio (o condotti in quello stile anche quando trattano di materie private) è difficile che un qualsiasi discorso possa ignorare le chiacchiere del villaggio. Così, il dire "non sapevo" è puramente e semplicemente fuori luogo rispetto allo spirito del tempo. Rimane allora l'ultima scusa: "Non potevo farci nulla" o "Non potevo fare più di quello che ho fatto". Al giorno d'oggi, anzi, è diventata la scusa più utilizzata dagli spettatori e forse l'unica strategia adottabile.
Per farla breve - visto che di questo argomento si potrebbe discutere a lungo - la colpa dello spettatore è per lo meno una colpa di omissione. Il non agire scatena una catena di eventi non molto più breve di quella causata dall'azione, mentre la certezza (o l'alta probabilità) della non-resistenza generalizzata di coloro che non assistono direttamente può comportare maggiore responsabilità per le malefatte compiute e per i loro effetti della semplice presenza di un certo numero di mascalzoni malintenzionati.
Un'azione globale eticamente motivata ed informata non dispone di adeguati strumenti globali. In mancanza delle giuste leve e veicoli di azione effettiva, tutti noi sembriamo - ognuno di noi individualmente e tutti gli individui come insieme - condannati al ruolo di spettatori e costretti a sostenere quel ruolo per un futuro troppo lungo. Periodici scoppi di proteste contro l'esclusione dai processi decisionali e la costrizione a rimanere spettatori (la miccia genuina, si potrebbe dire, degli appuntamenti antiglobalizzazione in stile guerriglia) sembrano essere la sola, e desolatamente inadeguata, alternativa alla mite accettazione dello stato attuale delle cose. Richiamano l'attenzione, suscitano la consapevolezza dei rischi che ci troviamo dinanzi; qualche volta riescono a forzare la mano degli altezzosi potenti su alcuni punti su cui viene richiamata l'attenzione. Tutto sommato, comunque, sebbene rumorosi e violenti, non comportano un cambiamento reale nell'equilibrio del potere - per quanto nobili possano essere le intenzioni e grande il coraggio degli attori. Dall'altro lato, l'impegno regolare e a lungo termine di un'azione collettiva volta a risalire alle radici della miseria umana, nata nel nuovo vuoto dell'etica globale, ha tutta l'apparenza di un sogno nebuloso. È questa nebulosità che avvolge l'annuncio in stile Fukuyama della "fine della storia" nella nebbia della credibilità.
Ma solo tale impegno - un impegno regolare e di lungo periodo - merita di essere chiamato "il momento politico per eccellenza" - come Luc Boltanski suggerisce - "un atto che trasforma lo spettatore in attore". Perché un impegno di breve durata sarebbe completamente inutile. L'altra e più frequente risposta allo spettacolo della miseria umana, come la caccia ai colpevoli di specifici misfatti o fare le lodi di benefattori di specifiche vittime, reca tutt'al più un sollievo temporaneo e localizzato. Nella maggior parte dei casi, alleviamo i sintomi più dolorosi del male solo per ridurre l'urgenza della cura. Troppo spesso, tuttavia, offrono la tanto necessaria e bramata foglia di fico all'autorità costituita, ansiosa di incanalare l'onda crescente dell'avversione morale lontano dalle reali sorgenti dell'insulto etico e desiderosa di nascondere il fatto di non fare nulla per ostacolare l'insorgere dell'ingiuria.
Nella peggiore delle ipotesi, come avverte Boltanski, possono causare più miseria - come nel caso delle persone "al potere che sfruttano le vittime del passato per impadronirsi del futuro mentre ignorano le sofferenze del presente", invece "di posare lo sguardo sugli sventurati e guardare in faccia il male, senza l'immediato bisogno di rivolgersi verso benefattori e persecutori immaginari".
Riflettendo sull'eredità del secolo che si è or concluso, Goran Rosenberg ha suggerito che per una più significativa scansione dei periodi storici non sia necessario seguire il calendario. Il XIX secolo, caratterizzato da un'ormai inattuale esuberanza e fiducia in se stessi da parte dei giovani, cominciò di fatto nel 1789 e finì nel 1914. Potremmo suggerire che il XX secolo, caratterizzato dalla sinistra scoperta che il male può scaturire dal solco della civiltà non soltanto inalterato ma perfino rinnovato e rinforzato, ha avuto inizio nel 1914. Ed è ancora una questione tutta aperta stabilire quando questo paradigma arriverà a conclusione. Dipende dallo sforzo degli spettatori trasformare se stessi in attori per fornire la risposta a un tale interrogativo: diventare anzi essi stessi la risposta.
(Il consiglio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Sociologia Interattivo - Costruttivista, si rende disponibile alla rimozione del presente documento, qualora l'editore o l'autore considerino tale riproduzione lesiva dei loro diritti d'autore)