Un'estetica dell'Esistenza. Intervista a Michel Foucault

Alessandro Fontana

1984, Panorama, 945
 

Questa intervista è apparsa dapprima con il titolo "Alle fonti del piacere" su Panorama n°.945 del 28 maggio 1984 talmente tronca e rimaneggiata che Alessandro Fontana dovette fare una messa a punto pubblica. Scrisse allora a Foucault che facesse riapparire integralmente questa intervista.
 

 

Sono passati sette anni dalla Volontà di sapere. So che i vostri ultimi libri vi hanno posto dei problemi e che avete incontrato alcune difficoltà. Vi sarei grato se mi parlaste di queste difficoltà e di questo viaggio nel mondo greco-romano, che vi era, se non sconosciuto, quantomeno estraneo.

Le difficoltà venivano dal progetto stesso, che voleva per l'appunto evitarle.
Programmando il mio lavoro in parecchi volumi in base ad un piano preparato in anticipo, mi ero detto che era arrivato il momento in cui avrei potuto scriverli senza difficoltà, e sviluppare semplicemente quello che avevo in testa, confermandolo con il lavoro di ricerca empirica.
Ho rischiato di morire di noia scrivendoli, questi libri: assomigliavano troppo ai precedenti. Per alcuni, scrivere un libro è sempre rischiare qualcosa. Per esempio, di non riuscire a scriverlo. Quando si sa in anticipo dove si vuole arrivare, c'è una dimensione dell'esperienza che manca, quella che consiste precisamente nello scrivere un libro rischiando di non venirne a capo. Così, ho cambiato il progetto generale: invece di studiare la sessualità ai confini del sapere e del potere, ho tentato di ricercare più in alto come si era costituita, per il soggetto stesso, l'esperienza della sua sessualità come desiderio. Per sbrogliare questa problematica sono stato portato a considerare da vicino alcuni testi molto antichi, latini e greci, che mi hanno richiesto molta preparazione, molti sforzi e che mi hanno tenuto fino alla fine entro una certa incertezza, esitazione

C'è sempre una certa "intenzionalità" nelle vostre opere, che spesso sfugge ai lettori. La storia della follia era in fondo la storia della costituzione di quel sapere che si chiama la psicologia; Le parole e le cose era l'archeologia delle scienze umane; Sorvegliare e punire la sistemazione delle discipline del corpo e dell'anima. Sembra che quello che è al centro dei vostri ultimi libri sia ciò che voi chiamate i "giochi di verità".

Non credo che ci sia una grande differenza tra questi libri e i precedenti. Si desidera molto, quando si scrive dei libri come quelli, modificare completamente ciò che si pensa e ritrovarsi alla fine del tutto diverso da come si era alla partenza. poi ci si accorge che in fondo si è cambiati abbastanza poco. Si ha forse cambiato la prospettiva, si è girato attorno al problema, che è sempre lo stesso, cioè il rapporto tra il soggetto, la verità e la costituzione dell'esperienza. Ho cercato di analizzare come ambiti come quelli della follia, della sessualità, della delinquenza possono rientrare entro un certo gioco della verità, e come d'altra parte, attraverso l'inserimento della pratica umana, del comportamento, nel gioco della verità, il soggetto stesso si trova coinvolto. Era questo il problema della storia della follia, della sessualità.

Non si tratta, in fondo, di una nuova genealogia della morale?

Se non fosse per la solennità del titolo e il segno grandioso che Nietzsche gli ha imposto, direi di sì.

In un scritto apparso in Le Débat di Novembre 1983, voi parlate, a proposito dell'Antichità, di morali indirizzate verso l'etica e di morali indirizzate verso il codice. È qui la divisione tra le morali greco-romane e quelle nate con il cristianesimo?

Con il cristianesimo abbiamo visto instaurarsi lentamente, progressivamente un cambiamento rispetto alle morali antiche, che erano essenzialmente una pratica, uno stile di libertà. Naturalmente, c'erano anche lì norme di comportamento che regolavano la condotta di ciascuno. Ma la volontà di essere un soggetto morale, la ricerca di un'etica dell'esistenza erano principalmente, nell'Antichità, uno sforzo per affermare la propria libertà e per dare alla propria vita una certa forma entro la quale era possibile riconoscersi, essere riconosciuti dagli altri, e dove la stessa posterità poteva trovare un esempio.
Questa elaborazione della propria vita come un'opera d'arte personale, anche se essa obbediva a canoni collettivi, era al centro, mi sembra, dell'esperienza morale, della volontà di morale nell'Antichità, mentre nel cristianesimo, con la religione del testo, l'idea di una volontà di Dio, il principio di una obbedienza, la morale prendeva molto più la forma di un codice di regole (solo alcune pratiche ascetiche erano più legate all'esercizio di una libertà personale).
Dall'Antichità al cristianesimo si passa da una morale che era essenzialmente ricerca di un'etica personale a una morale come obbedienza ad un sistema di regole. E se mi sono interessato all'Antichità, è perché, per una serie di ragioni, l'idea di una morale come obbedienza a un codice di regole sta, ora, scomparendo, è già scomparsa. E a questa assenza di morale risponde, deve rispondere una ricerca di una estetica dell'esistenza.

Tutto il sapere accumulato in questi ultimi anni sul corpo, la sessualità, le discipline ha migliorato il nostro rapporto con gli altri, il nostro essere nel mondo?

Non posso impedirmi di pensare che tutta una serie di cose rimesse in discussione, anche indipendentemente dalle scelte politiche, attorno a certe forme d'esistenza, regole di comportamento, ecc., sono state profondamente benefiche: rapporto con il corpo, tra uomo e donna, con la sessualità.

Dunque, questi saperi ci hanno aiutato a vivere meglio.

Non c'è stato semplicemente un cambiamento nelle preoccupazioni, ma nel discorso filosofico, teorico e critico: infatti, nella maggior parte delle analisi fatte non si suggeriva alla gente quello che doveva essere, quello che doveva fare, quello che doveva credere e pensare. Si trattava piuttosto di far vedere come fino ad oggi i meccanismi sociali avevano potuto giocare, come le forme della repressione e della costrizione avevano agito, e poi, a partire da qui, mi sembra che si lasciasse alla gente la possibilità di determinarsi, di fare, sapendo tutto questo, la scelta della loro esistenza.

Cinque anni fa cominciammo a leggere, nel vostro seminario al Collège de France, Hayek e von Mises[1]. Si disse allora: grazie ad una riflessione sul liberalismo, Foucault sta per fornirci un libro sulla politica. Il liberalismo sembrava anche una scappatoia per ritrovare l'individuo, al di là dei meccanismi del potere. Eravamo a conoscenza della vostra polemica con il soggetto fenomenologico. A quell'epoca si cominciava a parlare di un soggetto delle pratiche, e la rilettura del liberalismo era stata fatta in parte attorno a ciò. Non è un mistero per nessuno che più volte si sia detto: non c'è alcun soggetto nell'opera di Foucault. I soggetti sono sempre assoggettati, sono il punto di applicazione di tecniche, discipline normative, ma non sono mai dei soggetti sovrani.

Occorre fare una distinzione. In primo luogo, effettivamente penso che non ci sia un soggetto sovrano, fondatore, una forma universale di soggetto che si possa ritrovare ovunque. Sono molto scettico e del tutto ostile verso questa concezione del soggetto. Credo al contrario che il soggetto si costituisca attraverso delle pratiche di assoggettamento o, in modo più autonomo, attraverso delle pratiche di liberazione, di libertà, come nell'Antichità, a partire, ben inteso, da un certo numero di regole, stili, convenzioni che si possono ritrovare nel milieu culturale.

Tutto ciò ci conduce verso l'attualità politica. I tempi sono difficili: sul piano internazionale, c'è il ricatto di Yalta e lo scontro dei blocchi; all'interno, c'è lo spettro della crisi. Rispetto a tutto questo, sembra che tra la sinistra e la destra non ci sia niente più che una differenza di stile. Come determinarsi, allora, a fronte di questa realtà ed i suoi diktat, se essa sembra essere senza alternativa possibile?

Mi sembra che questa domanda sia al tempo stesso giusta e un po' ristretta. Bisognerebbe scomporla in due ordini di questioni: in primo luogo, bisogna accettare o non accettare? Secondariamente, se non si accetta, che cosa si può fare? Alla prima domanda, si deve rispondere senza ambiguità: non bisogna accettare, né gli strascichi della guerra, né il prolungamento di una certa situazione strategica in Europa, né il fatto che metà dell'Europa sia asservita.
Successivamente si pone l'altra questione: "Che cosa si può fare contro un potere come quello dell'Unione sovietica, rispetto al nostro governo e ai popoli che, dai due lati della cortina di ferro, intendono mettere in questione la divisione che è stata imposta"? Rispetto all'Unione sovietica, non ci sono molte cose da fare, eccetto aiutare il più efficacemente possibile coloro che lottano sul posto. Quanto agli altri due bersagli, c'è molto da fare, c'è molta carne sul fuoco.

Non bisogna dunque assumere un atteggiamento per così dire hegeliano, che consiste nell'accettare la realtà per com'è e per come ce la si presenta. Resta un'ultima domanda: "Esiste una verità nella politica"?

Credo troppo alla verità per non supporre che ci siano diverse verità e diversi modi di dirla. Certo, non si può domandare ad un governo di dire la verità, tutta la verità, niente altro che la verità. Per contro, è possibile chiedere ai governanti una certa verità quanto ai progetti finali, alle scelte generali della loro tattica, a un certo numero di punti particolari del loro programma: è la parrhesia (la libera parola) del governato, che può, che deve interpellare il governo in nome del sapere, dell'esperienza che ha, del fatto che è un cittadino, su ciò che l'altro fa, sul senso della sua azione, sulle decisioni che ha preso.
Bisogna, tuttavia, evitare una trappola nella quale i governanti vogliono far cadere gli intellettuali, e nella quale questi cadono sovente: "Mettetevi al nostro posto e diteci cosa fareste". Non è una questione alla quale si deve rispondere. Prendere una decisione in una materia qualsiasi implica una conoscenza degli incartamenti che non ci è concessa, una analisi della situazione che non si ha la possibilità di fare. Questa è una trappola. Non di meno, in quanto governati si ha perfettamente il diritto di porre le questioni della verità:[2] "Che cos'è che fate quando siete ostili agli euromissili, o quando, al contrario, li sostenete, quando ristrutturate l'acciaio della Lorena, quando aprite la pratica dell'insegnamento libero"?

Entro questa discesa agli inferi che è una lunga meditazione, una lunga ricerca - una discesa nella quale si va in qualche modo alla ricerca di una verità - quale tipo di lettore vorreste incontrare? Di fatto, se forse ci sono ancora dei buoni autori, ci sono sempre meno buoni lettori.

Io direi dei lettori. Ed è vero che non si viene più letti. Il primo libro che si scrive viene letto perché si è sconosciuti., perché la gente non sa chi sei, ed è letto nel disordine e nella confusione, cosa che per me va molto bene. Non c'è ragione che si faccia non solo il libro, ma anche la legge del libro. La sola legge, sono tutte le letture possibili. Non vedo particolari inconvenienti nel fatto che un libro, venendo letto, sia letto in differenti maniere. Ciò che è grave, è che, a forza di scrivere libri, non si venga letti più del tutto e, di deformazione in deformazione, leggendo gli uni sulle spalle degli altri, si arrivi a dare del libro un'immagine assolutamente grottesca.
Qui si pone effettivamente un problema: bisogna entrare nella polemica e rispondere a ciascuno riguardo a queste deformazioni e, di conseguenza, imporre la legge ai lettori, cosa che mi ripugna, o lasciare - cosa che mi ripugna in ugual modo - che il libro sia deformato fino a divenire la caricatura di se stesso?
Ci sarebbe una soluzione: la sola legge sulla stampa, la sola legge sul libro che vorrei veder instaurare sarebbe quella della proibizione di utilizzare due volte il nome dell'autore, con in più il diritto all'anonimato e allo pseudonimo, in modo che ogni libro sia letto per se stesso. Ci sono dei libri per i quali la conoscenza dell'autore è una chiave di intelligibilità. Ma, al di là di qualche autore, per la più parte degli autori questa conoscenza non serve rigorosamente a niente. Serve solo da schermo. Per quelli come me, che non sono un grande autore ma soltanto qualcuno che fabbrica dei libri, sarebbe meglio che fossero letti per loro stessi, con le loro imperfezioni ed i loro eventuali pregi.

 

Note

[1] Si tratta del seminario dell'anno 1979-80, dedicato ad alcuni aspetti del pensiero liberale nel XIX secolo.

[2] Allusione al progetto di libro bianco che Foucault aveva proposto al piccolo gruppo di lavoro che si riuniva all'ospedale Tarnier, gruppo chiamato "Académie Tarnier".

 


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