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La grande lezione di un pensatore che credeva nel primato del dialogo. Scompare a centodue anni l'allievo di Heidegger che ha combattuto la prepotenza uniformante della Tecnica
Franco Marcoaldi
Da “La Repubblica ” del 15 Marzo 2002.
Anche se può sembrare il momento meno opportuno, la prima osservazione che viene da fare su Hans Georg Gadamer nel giorno della sua morte, è che sarà ricordato come il «filosofo della salute» del Novecento.
Forse sono condizionato da uno dei suoi ultimi libri usciti in Italia (Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore). E ancora di più dall'incontro tra noi che ne seguì, quando mi trovai al cospetto di un novantacinquenne perfettamente lucido, ironico, curioso. Al quale, davanti a un bicchierino di Calvados, chiesi in modo diretto e un po' brutale: professore, ma la sua personale ricetta della salute, qual è? «Il costante uso della mente. La filosofia non come pratica accademica, ma come Lebensphilosophie. Una pratica che riguarda ogni singolo uomo nel suo rapporto col mondo. E che lo porta a preservare il proprio giudizio sulle cose. Ad accettare le condizioni date, ma allo stesso tempo a cercare continuamente nuove ragioni per cui vale la pena - nel senso letterale - di sentire, pensare, immaginare».
Sì, sarò senz'altro condizionato da questi ricordi. Ma non credo di andare tanto lontano dal vero se parlo di Gadamer come «filosofo della salute». L'assunto da cui partiva il pensatore di Marburgo (classe 1900), è difficilmente contestabile: il nostro tempo si è espresso in modo pressoché esclusivo attraverso il linguaggio della tecnica. La stessa «seconda guerra dei trent'anni» - come lui chiamava il periodo che va dal 1915 al 1945 - ha visto trionfare, prima che l'una o l'altra nazione, questa potenza impersonale e planetaria, cui l'uomo del Novecento pare essersi completamente abbandonato nella speranza di ritrovare un qualche senso, una qualche idea di futuro. Peccato invece che proprio l'uomo del Novecento non appaia più in grado di indicare un qualche cammino di salvezza. Per Gadamer è la conferma che l'avvenuta «colonizzazione» del sapere tecnico-scientifico a danno di tutte le altre nostre forme espressive, ha finito per amputare la natura umana. E proprio contro questa «prepotenza», l'ultimo patriarca della filosofia ha combattuto per decenni. A partire dal suo libro forse più noto e importante, Verità e metodo (1960), in cui ribaltando l'accezione comune ci ha parlato della filosofia come disciplina di verità, e della scienza come disciplina del metodo, visto che solo nelle esperienze extra scientifiche (segnatamente quelle artistiche) l'uomo fa esperienza compiuta di verità, uscendo modificato dall'incontro personale con l'opera. Lo sbilanciamento favore dello sviluppo tecnicoscientifico, invece, ha portato questo paradosso: quanto più le forme di vita vengono organizzate razionalmente su basi astratte generali, tanto meno viene esercitata la facoltà di giudizio del singolo cittadino. Ciò che finisce per mettere in crisi la stessa forma politica della democrazia.
L'ho presa un po' alla lontana; ma alla fine siamo arrivati alla parola-chiave per cui la filosofia di Gadamer verrà ricordata: ermeneutica, parola che ha contribuito più di ogni altro a popolarizzare, sino a farne il volano dell'indirizzo teorico oggi tra i più seguiti al mondo. Detta in soldoni: ermeneutica sta per interpretazione. Ma mentre un tempo essa rappresentava una disciplina specialistica affidata agli interpreti dei testi «sacri» di una società, con Gadamer - ci ha ricordato tante volte Gianni Vattimo, che è uno dei suoi più attenti studiosi - essa diventa teoria generale della comunicazione, dell'ascolto, della comprensione dell'Altro.
«L'intesa tra gli uomini avviene infatti sulla base di un orizzonte comune che vive nella lingua che parliamo, e nei testi eminenti che costituiscono il patrimonio di questa lingua». Pensare insomma, per Gadamer, è pensare insieme. Ascoltare l'altro. «Piegare la propria intenzione per integrarla con quella di chi ci è di fronte. L'esperienza di verità, pertanto, si dà solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione». Epperò, primo intoppo: mentre nella nostra società cresce la comunicazione, con essa cresce pure un profondo senso di solitudine. Per forza, risponderebbe Gadamer: perché viviamo nell'epoca degli esperti, dei tecnici e dei funzionari. E l'autorità della scienza e degli esperti ci porta a liberarci dal peso della responsabilità connessa all'azione.
Siamo dunque nel pieno di quella che negli anni Trenta Jaspers chiamò, al suo cominciamento, età della responsabilità anonima. E che così Gadamer sintetizza, in un brano da ritagliare e mandare a memoria: «La qualità maggiormente richiesta, ormai, è l'adattabilità, il funzionariato. Funzionario è colui che sorveglia l'andamento di uno specifico apparato, sia esso di tipo tecnicoscientifico, o relativo alla pubblica amministrazione. Per questo viene scelto, e in questo risiedono le sue possibilità di carriera. Anche se è chiaro a tutti che sono sempre meno coloro che prendono decisioni, mentre sono sempre più quelli che seguono semplicemente il funzionamento dell'apparato. E ciò nonostante la moderna società soggiace alla necessità interna anche se irrazionale di questo stato di cose. Il conformismo che ne discende, come hanno dimostrato tutti i regimi di massa, è una straordinaria arma per il potere, in grado di uccidere qualunque creatività e spontaneità del singolo». Stando così le cose frantumazione dei linguaggi specialistici e atomizzazione dell'esistenza - sarà solo attraverso questa filosofia del «dialogo sociale», del sapere comune, che potremo garantire la sopravvivenza della democrazia. E di un individuo ancora consapevole delle proprie scelte.
Sono riflessioni che affondano molto indietro nel tempo, riportandoci inevitabilmente all'incontro capitale del 1923 con Martin Heidegger, allora giovane assistente di Edmund Husserl.
Quell'incontro - malgrado le dure critiche rivolte poi da Gadamer al maestro per la sua scelta filonazista - resterà decisivo dal punto di vista teorico: «Heidegger mi ha insegnato che cos'è l'espressione linguistica di un pensiero, la differenza tra convenzionalità dei linguaggi scientifici e la ricchezza dei linguaggi filosofici e artistici, la ridondanza del problema della verità rispetto al problema della verità scientifica.
Si tratta di un debito talmente evidente, che l'intera produzione gadameriana verrà letta - da Habermas, ad esempio - come tentativo di «urbanizzare» l'esistenzialismo heideggeriano, spurgandolo dagli eccessi metafisici e riconducendolo dentro il territorio di una più moderata filosofia del dialogo.
Presa per buona questa interpretazione, l'«urbanizzazione» è andata decisamente molto in là. Tanto che se infine una timidissima obiezione può essere mossa all'opera di questo grandissimo maestro, riguarda un eccesso ottimistico di fondo: la convinzione cioè che l'ermeneutica, il dialogo, l'interpretazione, abbiano avanti a sé un campo d'azione praticamente illimitato. Un esempio per tutti: la lettura che il filosofo tedesco ha dato della poesia di Paul Celan. Se ci si pone davvero in una posizione di ascolto, si potrà pervenire - nel libero gioco dell'immaginazione e dell'intelletto - a una sua comprensione coerente e comunicabile agli altri. Non è forse lo stesso Celan a parlare della «necessità di un faccia a faccia» con il lettore? Per Gadamer è la conferma migliore della bontà del proprio principio teorico. Eppure lo strazio dell'esistenza di Celan non parrebbe indicare la stessa assoluta fiducia riposta nel linguaggio. Quando il poeta scrive ad Hans Bender, «non vedo differenza tra una stretta di mano e un poema», pare semmai avvicinare la sua forma espressiva a un tipo di comunicazione che sfonda gli abituali codici linguistici. Quasi ribadisse: una poesia non può essere spiegata. E' come un abbraccio, uno sguardo complice.
So bene che questa obiezione non convincerebbe Gadamer. Lo so, perché ebbi modo di fargliela. E lui, sorseggiando ancora un po' di Calvados, mi rispose con la consueta amabilità: «Lei dice che sono troppo ottimista. Ma l'ottimismo non è una pecca. E neppure una virtù. E' un bisogno connaturato alla natura dell'uomo. Il pessimismo invece, quello sì che è un lusso. Soltanto due «borghesi» come Schopenhauer e Leopardi se lo potevano permettere ... ».