Quine. La verità non è mai un dogma

Richard Rorty

“La Stampa” 17 Febbraio 2001.

Richard Rorty ricorda il maestro che ha rinnovato l'empirismo logico, studiando il rapporto tra linguaggio e realtà,. era convinto che la filosofia avesse il compito di servire da ancella alle scienze naturali
Il '900 è stato attraversato dalla contesa tra analitici e non analitici: ma ora è necessario leggere insieme Wittgenstein e Heidegger

Willard van Orman Quine, il decano dei filosofi americani, è morto a 92 anni il giorno di Natale. Proprio cinquant'anni prima, nel dicembre del 1950, aveva tenuto una conferenza all'Associazione filosofica Americana che aveva fatto saltare sulle sedie quelli che lo ascoltavano. "Due dogmi dell'empirismo", quando fu pubblicato l'anno seguente, divenne il più discusso e il più influente saggio nella storia della filosofia anglofona del '900. Pochi saggi altrettanto brevi hanno avuto un impatto così forte sul pensiero filosofico. "Due dogmi" è un modello di argomentazione stringata e convincente, un buon esempio dell'elegante prosa di Quine. Ma è anche, soprattutto, un grande passo immaginativo. Perché in quelle poche pagine Quine ha sollevato, in una forma nuova e incalzante, l'antico problema del rapporto tra filosofia e ricerca empirica.
In "Due dogmi" Quine e mette in discussione la distinzione tra verità necessarie e verità contingenti. La ricerca empirica produce verità del secondo tipo - cioè affermazioni che, in linea di principio, possono essere revocate alla luce di successive di successive osservazioni o esperimenti (ad esempio: "gli scoiattoli non vanno in letargo" o "E=mc2). La filosofia, ci hanno insegnato Platone e Aristotele, dovrebbe produrre verità necessarie, esattamente come fa la matematica. Così pensavano anche Rudolf Carnap, il mentore di Quine, e i suoi amici empiristi logici (come e Ayer aggiungevano, le verità necessarie sono verità "analitiche" - affermazioni che non ci dicono nulla della realtà, ma si limitano a riflettere le convenzioni linguistiche. "Due più due fa quattro" è reso vero dal significato di "due" e "quattro" e "più", esattamente come "Tutti gli scapoli non sono sposati" è inverato dal significato delle parole che formano la frase.
La filosofia, concludevano gli empiristi logici, non dovrebbe cercare di dirci qualcosa sulla natura delle cose. Dovrebbe limitarsi a chiarire i significati delle affermazioni e a mostrare quella che Carnap chiamava "la sintassi logica del linguaggio".
A metà del secolo scorso per molti filosofi il contrasto tra quell'idea modesta di filosofia e quella antica, più ambiziosa, era incarnato del contrasto tra Carnap, un brav'uomo che aveva idee politiche di sinistra, e Martin
Heidegger, un ex-nazista megalomane che poneva domande tipo "Che cos'è l'Essere?" senza darsi la pena di chiarire in che modo avrebbe capito che si era dato la risposta giusta. Carnap voleva che i filosofo esplicitasseto i loro criteri di verità e in questo modo imitassero l'onestà intellettuale che caratterizza i ricercatori empirici. Heidegger aveva un assoluto disprezzo sia per le scienze naturali sia per la nuova logica matematica sviluppata da Russell e da altri, che invece Carnap considerava uno strumento indispensabile per un buon lavoro filosofico.
Quine, un giovane brillante che aveva dato il suo contributo a quel tipo di logica, nel 1933 era andato a Praga a lavorare con Carnap. Qualche anno dopo aiutava lui e i suoi amici emigrati a trovare lavoro negli Stati Uniti (rendendo così un servizio inestimabile alla vita accademica americana). Così era naturale aspettarsi che il suo intervento del 1950 (presentato al simposio "Ultime tendenze della filosofia") fosse un manifesto logico-empirista. Invece Quine uscì allo scoperto con quei dubbi che da anni andava esternando privatamente a Carnap. Non esiste esperimento, disse Quine, che possa stabilire dove finisca il richiamo alla realtà empirica e dove cominci quello ai rapporti tra idee, ai significati delle parole. In verità non esiste un modo per suddividere le verità in necessarie e contingenti. Al posto di quell'antico dualismo, suggeriva, dovremmo immaginare uno spettro che va dalle credenze cui non possiamo immaginare di rinunciare a quelle che possiamo immaginare che saranno sconfessate da osservazioni future.
Molto influenzato dall'amico B.F. Skinner, Quine era disposto a tracciare una linea tra fatti e linguaggio - tra appello all'esperienza sensoriale e appello alla conoscenza dei significati - solo se era possibile farlo sulla base di osservazioni di comportamento linguistico. Ma non esiste, faceva notare, nessun esperimento con cui un linguista che impari una nuova lingua possa dire quale appello i nativi stiano facendo quando trattano la verità di una certa frase come incontrovertibile. Così "Due dogmi" procedette a rovesciare il lato empirico dell'empirismo logico contro il suo lato logico. "Per tutta la sua ragionevolezza a priori - diceva Quine - un confine tra affermazioni analitiche e sintetiche (cioè empiricamente confermabili o sconfessabili) semplicemente non era stato tracciato. E che si debba tracciare una tale distinzione è un dogma nonempirico degli empirici, un articolo metafisica di fede".
"Due dogmi" sollevava la domanda: come possiamo avere una filosofia analitica, il tipo di filosofia che Carnap e Quine stesso volevano fare, se non esistono cose come le verità analitiche? La bomba di Quine non soltanto diffondeva il dubbio su una distinzione che era sembrata ovvia a Platone, Aristotele, David Hume e Immanuel Kant, ma sembrava anche infrangere la neonata speranza che i filosofi potessero ottenere risultati permanenti e utili una volta per tutte.
Quine condivideva l'abituale avversione anglofona per Heidegger e ovviamente non voleva riportare in auge quel tipo dì metafisica speculativa che era stata prodotta, ad esempio, da F.H. Bradley e A.N. Whitehead. Ma non offriva un programma metafilosofico per sostituire quello proposto da Russell e Carnap. Piuttosto, egli si limitò a indurre i filosofi a portare la filosofia in contatto con la scienza empirica - a smettere di cercare verità necessarie e trovare invece vie sagaci per sistemare i materiali forniti dalle scienze naturali. immaginò, ad esempio, un futuro in cui l'epistemologia, lo studio filosofico della conoscenza, sarebbe stata "naturalizzata" e così assorbita in quelle che oggi chiamiamo "scienze cognitive". Quel tipo di collaborazione con la scienza empirica ora appare a molti filosofi anglofoni il modo migliore per far avanzare la loro disciplina.
L'idea che hanno del proprio ruolo culturale li spinge a far uscire la filosofia dalle discipline classiche e a mettere meno enfasi, rispetto al passato, sulla necessità di familiarizzare gli studenti con gli scritti dei grandi filosofi defunti. Una volta Quine disse canzonatorio che ci sono due tipi di persone che fanno i professori di filosofia: quelli interessati alla storia della filosofia e quelli interessati alla filosofia. Quando i suoi colleghi di Harvard (dove insegnò per tutta la vita) cercarono di indurlo a insegnare materie storiche, si oppose.
Il tentativo dei filosofi analitici di uscire dalla loro prossimità con i dipartimenti di storia e letteratura avvicinandosi ai laboratori scientifici contribuì alla famigerata rottura "analitico continentale" all'interno della disciplina. Nei paesi non-anglofoni la sgradevolezza di Heidegger è allegramente riconosciuta, ma questo non impedisce a molti professori di filosofia di considerarlo il pensatore più importante del XX secolo. Questa opinione è condivisa da pochissimi professori di letteratura, teoria politica e storia delle idee inglesi o americani - quelli che non riescono a vedere il senso del lavoro dei filosofi analitici e sospettano che la filosofia anglofona sia diventata ipertecnica e intellettualmente sterile. L'accusa di sterilità è però ingiusta. Al contrario, la sfida di Quine a Carnap (insieme a quelle complementari portate alle idee di Thomas Kuhn e Ludwig Wittgenstein) ha aperto la porta a una lunga serie di originali e fruttuose riconsiderazioni delle descrizioni tradizionali del rapporto tra linguaggio e realtà, tra conoscenza ed esperienza sensoriale, tra scienza e filosofia. Queste riconsiderazioni hanno sollevato dubbi sulla convinzione di Quine che le scienze naturali sono l'area della cultura in cui la verità sulla realtà è più chiaramente e più ovviamente raggiunta e la razionalità dà il meglio di sé. Molti filosofi che riconoscono un debito profondo con Quine sono ora meno inclini a elogiare le cosiddette scienze dure come paradigma della conoscenza. Mentre Quine pronunciò la famosa frase "La filosofia della scienza è filosofia quanto basta", questi pensatori neo-quiniani tendono piuttosto a vedere la ricerca scientifica meno diversa dal resto della cultura di quanto non l'abbia portata a essere Quine.
Quine non si scostò mai dall'affermazione che il lessico della logica e delle scienze fisiche, correttamente disciplinato dalla filosofia, potesse rivelare quella che lui chiamava "la vera e ultima struttura della realtà". ma molti filosofi analitici contemporanei concordano piuttosto con Nelson Goodman, che fu collega di Quine nel dipartimento di filosofia di Harvard, che non esiste una struttura del genere - che non esiste, come disse Goodman, un unico modo di essere del mondo, ma soltanto svariate sue descrizioni alternative. Alcune servono ad alcuni scopi, altre ad altri, ma nessuna è più vicina alla realtà o più lontana di un'altra. L'idea di Goodman ricorda l'approccio alla filosofia di John Dewey, in particolare la sua volontà di trascurare il rapporto tra pensiero e realtà per concentrarsi sull'utilità pragmatica di modi alternativi di pensare.
Molti tra i migliori studenti di Quine (come Donald Davidson) e tra i suoi più ferventi ammiratori (come Hilary Putnam) cercarono di convincerlo ad abbandonare o alleggerire il suo scientismo, ma senza successo. La dottrina secondo cui le affermazioni su ciò che gli uomini credono e desiderano non rappresentano nulla di reale, mentre le affermazioni sulle stelle e le molecole sì, rimase centrale nel pensiero di Quine. Davidson, Putnam e altri hanno passato molti anni cercando di estendere e radicalizzare le idee di Quine, evidenziando le apparenti incoerenze e cadute in errore del suo pensiero, implicitamente (ma ogni tanto anche esplicitamente) criticandolo perché non valutava nella loro giusta portata le implicazioni della sua stessa svolta teorica. Va a merito loro e di Quine se queste critiche, che andarono davvero in profondità, non portarono mai né ad antagonismi personali né alla frammentazione della filosofia analitica in scuole di pensiero in guerra tra di loro. Al contrario, il rispetto, creato da un profondo senso del debito che aveva con lui, che Quine ha mostrato per Carnap, pur facendo del suo meglio per demolire alcune delle sue idee più care, è stato pari all'onore che giustamente gli riservano quelli che cercano di demolire alcune delle sue.
Il rapporto tra Quine e Davidson era particolarmente stretto e Davidson, che ancora oggi, a 83 anni, produce originali e provocatorie idee filosofiche, ha ereditato da Quine la posizione di decano. Davidson ha riassunto la sua radicalizzazione dei dubbi di Quine sulla distinzione tra linguaggio e fatti dicendo che "abbiamo cancellato il confine tra conoscere un linguaggio e conoscere la nostra via nel mondo in senso generale... Io concludo che non esiste una cosa come un linguaggio, se un linguaggio è qualcosa di simile a ciò che molti filosofi e linguisti hanno ipotizzato. Non esiste perciò una cosa del genere da imparare, padroneggiare o avere innata.
Dobbiamo rinunciare all'idea di una struttura condivisa chiaramente definita che gli utenti del linguaggio acquisiscono e via via applicano". L'iper-quineanesimo di Davidson non solo offende Noam Chomsky (che lo considera un dogmatismo a priori, mostrando disprezzo per la linguistica empirica) ma getta nella costernazione coloro che pensano che la filosofia analitica sarebbe finita se non potesse studiare proprio quel tipo di strutture linguistiche condivise chiaramente definite che Davidson pensa non esistano. Questo iper-quineanesimo non è stato ben accolto neppure dallo stesso Quine. Quando Davidson suggerì di gettar via non solo la distinzione tra analisi e sintesi, ma ogni altro residuato dell'antica distinzione lockean-kantiana tra il guazzabuglio disorganizzato fornito dai sensi e la mente organizzatrice che trae un senso da quel guazzabuglio, Quine s'impuntò.
Nell'articolo "Sull'idea stessa di uno schema concettuale", scritto nel 1974, Davidson invitava a mettere da parte la distinzione tra concetti e dati sensoriali, come quella tra i nostri schemi concettuali e il mondo non concettualizzato al quale essi vengono applicati: "Il dualismo di schema e contenuto, di sistema organizzante e qualcosa che aspetta di essere organizzato, non può essere reso intelligibile e giustificabile. E' esso stesso un dogma dell'empirismo, il terzo dogma. Un terzo, e forse l'ultimo, perché se vi rinunciamo, allora non è chiaro se rimane ancora qualcosa di distinto da chiamare empirismo".
Quine replicò, in un saggio che titolò "L'idea stessa di un terzo dogma", che l'empirismo è troppo importante per essere abbandonato. Se l'empirismo sparisse, pensava Quine, sarebbe scomparso anche il progetto di naturalizzare l'epistemologia - mostrando come gli esseri umani creino immagini sempre più accurate del mondo partire dai modesti input forniti dai loro organi sensoriali. La speranza che Quine riponeva in quel progetto e nella convergenza ch ne sarebbe derivata di filosofia e ricerca empirica, poggiava sulla sua convinzione che il compito della filosofia è quello di servire da ancella delle scienze naturali.
Agli occhi di Davidson invece le scienze dure non sono così speciali: è meno sicuro di Quine che le affermazioni sulle particelle elementari siano più strettamente correlate alla realtà delle affermazioni sui valori morali ed estetici. L'empirismo, se è solo il goffo tentativo di Locke di trovare una filosofia che mette d'accordo i meccanismi corpuscolari di Boyle e Newton, può forse essere autorizzato ad avvizzire. Se i filosofi analitici di domani smetteranno di seguire le orme di Davidson e arriveranno a convenire con Putnam che lo scientismo ha avuto una cattiva influenza sul pensiero filosofico del XX secolo, allora la filosofia analitica si sarà trasformata in qualcosa che Russell e Carnap avrebbero difficoltà a riconoscere. E' probabile che gli storici della filosofia del '900 identificheranno "Due dogmi" con l'inizio di quella trasformazione, ma forse penseranno che Quine fu riluttante a entrare su quel terreno che i suoi discepoli invece colonizzeranno.
Se accadesse una trasformazione di questo genere, ci sarebbero alcune (pallide, per ammissione generale) possibilità di una fine del disaccordo ancora amaro e litigioso che divide i filosofi analitici e non analitici sul ruolo culturale della filosofia, E' tipico dei primi non riuscire a vedere l'interesse per Heidegger. I secondi, che ancora dominano la professione filosofica nella maggior parte dei paesi non-anglofoni, pensano (come me) che da lui ci sia moltissimo da imparare.
La maggior parte dei filosofi non analitici non considerano le scienze un modello adatto alla filosofia. Preferirebbero mantenere la filosofia all'interno delle discipline umanistiche. Sebbene non condividano il disprezzo di Heidegger per le scienze naturali, pensano che i loro colleghi analitici sopravvalutino la loro importanza.
E' tipico dei filosofi esterni alla tradizione analitica passare più tempo a pensare alla storia delle idee che alle scienze naturali. Tra i loro libri preferiti ci sono ampi resoconti della storia del pensiero, dai greci ai giorni nostri. C'è, ad esempio, il tipo di storie raccontate da Hegel, Nietzsche (in "La nascita della tragedia"), Heidegger, Hans Blumenberg e Jürgen Habermas (in "Il discorso filosofico della modernità"). Leggere e scrivere questo genere di libri crea un'atmosfera intellettuale molto diversa da quella prodotta dallo studio di saggi argomentativi relativamente brevi e concisi, del genere di quelli scritti da Quine, Davidson, Putnam. I filosofi non analitici apprezzano doti intellettuali come la risonanza storica e la visione sinottica tanto quanto l'acutezza delle argomentazioni.
All'interno di una singola disciplina dovrebbe esserci spazio per entrambi i modi di pensare e di scrivere. Purtroppo invece molti filosofi analitici provano ancora, nei confronti dei loro colleghi nonanalitici, quegli stessi dubbi che negli Anni 30 Heidegger suscitava in Carnap. Immaginano che i loro colleghi nonanalitici siano frivoli e irrazionali e si rifiutino di argomentare partendo da premesse chiare e arrivando a conclusioni altrettanto chiare.
Molti filosofi non analitici rendono la pariglia con accuse ugualmente infelici di scolasticismo decadente. Essi vedono i problemi cui i filosofi analitici sostengono di offrire soluzioni come fragili manufatti, periodicamente scartati e sostituiti quando le fameliche generazioni analitiche si combattono tra di loro. I non-anglofoni che si danno la pena di familiarizzare con la tradizione analitica a volte dicono sogghignando che i filosofi di lingua inglese hanno passato i cinquant'anni antecedenti "Due dogmi" a scalare un cumulo di terra sopra una tana di talpa e i successivi cinquanta a scenderlo.
Questi lazzi sono incauti tanto quanto quelli dei filosofi analitici. i critici non si rendono conto che Quine ha spalancato una porta su un mondo di idee molto più ampie. Asserendo che la filosofia può restare fedele allo spirito e ai risultati della scienza moderna - e ripudiando il dualismo ereditato da Platone, Aristotele, Hume e Kant - ha aperto nuovi sentieri filosofici, ha condotto i suoi studenti in luoghi che nessuno immaginava esistessero. Anche se l'importanza di "Due dogmi" non sarà mai immediatamente evidente ai profani (come la "Critica della ragion pura" di Kant), chi ha fatto le letture necessarie a comprendere le idee che Quine combatteva, resterà a bocca aperta davanti alla potenza della sua immaginazione magnificamente iconoclasta.
La filosofia avanza, ma non in linea retta. Procede piuttosto sobbalzando contemporaneamente su diversi fronti. Ogni iniziativa ha bisogno di tempo per consolidarsi e di ancor più tempo per integrarsi con altre iniziative, Noi filosofi stiamo ancora riflettendo non soltanto sulla morale da trarre da "Due dogmi", ma sulle lezioni da imparare dalla "Fenomenologia dello spirito" di Hegel.
Io non penso (e qui sono in disaccordo con molti dei miei colleghi filosofi) che il progresso consista in un esame attento e rigoroso delle implicazioni di argomentazioni alternative. Può esserlo occasionalmente, ma più spesso nasce da qualcuno come Quine, che riconosce ciò che Hegel avrebbe chiamato l'implicita contraddizione che sta nel cuore del sapere convenzionale, immaginando come apparirebbero le cose se una distinzione che è arrivata a sembrare intuitiva e di buon senso venisse messa da parte e poi buttando tutto giù dal tavolo. "Due dogmi", come ho detto prima, mostra grande abilità argomentativa e, ancor più, grande forza immaginativa. Questo tipo di forza, il più raro dei doni dell'intelletto, si trova sia in filosofi analitici come Wittgenstein, Quine, Wilfrid Sellars e Davidson, sia in filosofi nonanalitici come Nietzsche, Henri Bergson, Heidegger e Jacques Derrida. Cìò che queste figure hanno in comune - la capacità di immaginare alternative che nessun altro ha colto - è molto più importante di qualunque differenza fra di loro. Così (per trarre una conclusione alla quale Quine probabilmente si sarebbe opposto con tutte le sue forze) sarebbe una buona cosa se gli studenti di filosofia di tutto il mondo venissero incoraggiati a studiarne entrambi i tipi.

 


Phoenix