|
||||||||||||||||||
Franco Volpi
“La Repubblica ” 12 Giugno 2007.
Era la figura più visibile e discussa dell’attuale filosofia statunitense, impegnato nelle controversie disciplinari tra “analitici e continentali”, ma esposto anche nel dibattito intellettuale e politico in cui interveniva con grande autorevolezza. Richard Rorty - stroncato venerdì scorso da un cancro al pancreas - era nato a New York il 4 ottobre 1931 e si era formato a Chicago e Yale, laureandosi con una tesi su "The Concept of Potentiality". Fino alla fortunata antologia The Linguistic Turn (1967), i suoi lavori sono ancora concepiti in stile “analitico”. In seguito, però, dando ascolto a voci eterodosse come Sellars, Quine e in parte Goodman e Davidson, Rorty sollecitò la riflessione sul linguaggio e sulla “svolta linguistica” in filosofia fino a sfondare l’impostazione analitica. Nel suo libro più importante, Philosophy and the Mirror of Nature del 1979, che lo consacrò sulla scena mondiale, apre una prospettiva post-analitica in cui sviluppa una critica radicale del “mentalismo” della filosofia moderna, ovvero della convinzione che la mente sia lo “specchio della natura” e il fondamento incontrovertibile del conoscere. Divenne così un oppositore del “fondazionismo epistemologico” e fece proprie le convinzioni di base dell’ermeneutica continentale, come la storicità e la relatività del nostro conoscere e il suo essere sempre mediato dal linguaggio, integrandole con elementi della tradizione anglo-americana, specialmente con il pragmatismo di Dewey e James. La filosofia analitica - ecco la sua provocazione - non è poi cosi lontana dalla tradizione continentale come pretende di essere. Anzi, ne sarebbe l’ultima sofisticata variante, l’ennesima espressione del modo di pensare metafisico, fondazionista, proprio della filosofia europea da Platone a Cartesio, da Kant a Husserl, da Russell a Carnap. La filosofia analitica insegue ancora il miraggio di una conoscenza basata su fondamenti ultimi, possibilmente indubitabili e incontrovertibili. La via regale seguita per raggiungerlo è quella della mente, concepita da un lato come fonte dell’autoevidenza del soggetto, e dall’altro come “specchio della natura” capace di riflettere fedelmente la realtà. Ma la domanda è: tale specchio potrà mai essere così lucido e terso da garantire il rispecchiamento perfetto del mondo? Rorty ne dubita. Perché la mente non funziona come uno specchio. Essa è piuttosto un “organo” che attraverso il linguaggio e i concetti getta sulla realtà una rete conoscitiva catturandone alcuni aspetti. E si parla di “verità” quando si conviene che la cattura sia riuscita, di “falsità” in caso di insuccesso. Ma il consenso intorno a ciò si forma in una dimensione linguistica e culturale che è intrinsecamente storica, mutevole, relativa. Forte di questa consapevolezza, la filosofia non deve inseguire impossibili chimere fondative, né pretendere di raggiungere un punto di vista privilegiato rispetto ad altri. Essa deve accontentarsi di essere una “voce” che si affianca ad altre nella grande “conversazione dell’umanità” per arricchirne il patrimonio culturale. Suo compito non è tanto di “risolvere”, bensì di “dissolvere” i problemi, come Rorty sottolinea in Consequences of Pragmatism (1982), in sintonia con il decostruzionismo di Derrida e il pensiero debole di Vattimo. Va da sé che il tradizionale ruolo fondativo e architettonico della filosofia ne risulta demolito. Di fronte alla contingenza che connota il nostro essere nel mondo e nella storia, Rorty raccomanda due atteggiamenti: quello dell’ironia, che tiene a distanza ogni pretesa di assolutezza conoscitiva, e quello della solidarietà, che favorisce la convivenza tra gli uomini. Quest’ultima non scaturisce tanto da un nostro improbabile identificarci con la specie umana e con l’idea di uomo in generale, cioè da una “universalizzazione”, bensì dalla particolare e concreta immedesimazione con un altro individuo al quale siamo effettivamente legati da qualche appartenenza comune. In Contingency, Irony, and Solidarity (1989) Rorty giunge a sostenere la maggiore importanza dell’ideale della solidarietà rispetto a quello dell’oggettività, e la priorità della democrazia sulla filosofia. Quest’ultima dovrebbe peraltro rinunciare a fornire una giustificazione teorica dell’ordinamento democratico: tale compito sarebbe altrettanto inutile quanto la fondazione teologica che Newton volle dare alla propria fisica. Criticato dalla Destra conservatrice come relativista irresponsabile, e dalla Sinistra radicale come troppo poco militante, Rorty si è impegnato nella stesura di un manifesto politico, Achieving Our Country (1998), in cui difende i valori di una sinistra pragmatica e progressista. Da libero e “incorreggibile” maestro d’ironia - come l’ha definito Daniel Dennett - non si è stancato di mostrare il bello del relativismo e del nichilismo, contro il fanatismo e il fondamentalismo. Sapeva che gli uomini sono molto meno uguali di quello che dicono, e molto più di quello che pensano.
(Il consiglio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Sociologia Interattivo - Costruttivista, si rende disponibile alla rimozione del presente documento, qualora l'editore o l'autore considerino tale riproduzione lesiva dei loro diritti d'autore)