Richard Rorty: Vero o falso? Mettiamoci d’accordo

Gianni Vattimo

“La Stampa” 11 Giugno 2007.

Neopragmatista, è stato uno dei filosofi americani più influenti del ’900. Ha insegnato che i criteri per decidere derivano dalla comunità e dai suoi valori condivisi.

Richard Rorty, uno dei più noti filosofi Usa delle ultime generazioni, si è spento venerdì scorso nella sua casa di Palo Alto, California, dopo una lunga malattia. Era nato a New York il 4 ottobre 1931. Era stato professore a Princeton, in Virginia e a Stanford.

Nell'antologia La svolta linguistica (1967) Rorty anticipò alcuni dei temi che sarebbero divenuti dominanti nella sua filosofia, sviluppati in maniera sistematica in La filosofia e lo specchio della natura (1979). Un libro che in molti sensi fece epoca, giacché segnava quella vera e propria svolta che fu l'oltrepassamento della filosofia analitica in direzione del neopragmatismo, ristabilendone anche il legame profondo con la tradizione propria del pensiero americano. L'opera - nella quale Rorty presentava anche la tesi, per molti scandalosa, secondo cui i grandi filosofi del Novecento erano stati Dewey, Heidegger e Wittgenstein - inaugurò una nuova stagione di dialogo tra pensiero post-analitico nordamericano e ermeneutica europea. Proprio del novembre 1980 è la dedica che Rorty mi scrisse sul frontespizio del suo libro, quando ci conoscemmo a un colloquio sulla postmodernità a Milwaukee.

Gli anni che seguirono furono per me segnati da un dialogo continuo e da una sintonia crescente. Il «pensiero debole» nacque anche per effetto dei nostri incontri. In cui erano sempre presenti, in persona o in spirito, Gadamer, Derrida e le tradizioni di cui ognuno era portatore. Quanto al mio personale dialogo con lui, un momento decisivo è stato la preparazione e pubblicazione di Il futuro della religione (curato dal comune allievo Santiago Zabala); è in occasione di quel dibattito che Rorty parlò per la prima volta con una certa ampiezza di religione e specificamente di cristianesimo.

Peraltro, tra le sue tesi più conosciute c'è la visione del nostro mondo come di un mondo post-filosofico e post-religioso. Ma come questo non gli ha mai impedito di continuare a fare filosofia, sia pure in un modo profondamente diverso da quello della tradizione che si concepiva come ricerca di essenze e fondamenti, così mi piace pensare che anche l'esperienza religiosa potesse ancora avere un senso per lui, sebbene senza alcun compromesso con qualunque forma di teologia dogmatica. Ciò che gli piaceva della religione, e della versione «debole» del cristianesimo, era la riduzione di tutto alla carità. Lui preferiva parlare di «solidarietà»: proprio questo valore propose di sostituire a quello della oggettività a cui ha sempre cercato di ispirarsi la ricerca filosofica del vero.

Coerentemente con la lettura pragmatista della filosofia analitica e post-analitica, Rorty pensa che le proposizioni a cui attribuiamo valore di verità non possono che essere provate da altre proposizioni, per cui in qualche senso il mondo come lo conosciamo si «riduce» al linguaggio. Del resto, già per Aristotele vero e falso sono valori che si danno solo nel giudizio, cioè in una proposizione. Vuol forse dire - per un pragmatista, poi - negare che c'è il mondo esterno a noi? Certo che no; Rorty pensa solo che il mondo è una faccenda che implica cose e persone, non c'è niente come un astratto rapporto del «soggetto» con l'«oggetto», come lo pensava la filosofia moderna da Locke a Cartesio e poi a Kant e a Husserl. Questo è il tema del grande libro su La filosofia e lo specchio della natura e delle opere che vi hanno fatto seguito, da Conseguenze del pragmatismo (1982) a La filosofia dopo la filosofia (1990) a Verità e progresso (1998). L'unico modo di sapere se sono nel vero o nel falso non è tanto guardare «obiettivamente» le cose (ma poi, come farei?), bensì mettermi d'accordo su quelle cose con la comunità in cui vivo.

Una comunità è anche sempre unita nell'accettazione di paradigmi, presupposti, tradizioni, in base a cui sorgono e vengono accettate o rifiutate ipotesi e interpretazioni diverse, che non hanno certo tutte lo stesso valore. Rorty non è affatto scettico; rivendica però, con coerenza, la qualifica di relativista, perché - come Heidegger, come Nietzsche, come lo stesso Hegel - sa che non può guardare al mondo «da nessun luogo», è sempre coinvolto in una situazione storica e in un punto di vista particolare. Non riconoscerlo significa esporsi al rischio di tutti i fanatismi e fondamentalismi. Ma è chiaro che la ricerca della solidarietà con altri esseri ragionevoli non ha niente da fare con l'arbitrio e l'abbandono di ogni sforzo di ricerca.

La scienza sperimentale, dunque, sebbene non possa pretendere di conoscere definitivamente le cose «come sono», ha i suoi criteri paradigmatici e può certo decidere sul vero e il falso. La filosofia, però, è piuttosto un genere letterario, un discorso che propone interpretazioni del mondo che dialogano con altre interpretazioni. Nel dialogo si produce quella «edificazione» in cui consiste la cultura che dà senso all'esistenza. Con questa idea, Rorty instaura un altro legame che a lungo è parso un'eresia allo scientismo del pensiero anglosassone, quello della filosofia con la letteratura e anche con la politica. Ma, come spesso accade con le eresie, è proprio su questo terreno che la cultura filosofica sembra oggi avviata a svilupparsi, confermando il valore della sua eredità.

 

(Il consiglio dell'Associazione Italiana di Psicologia e Sociologia Interattivo - Costruttivista, si rende disponibile alla rimozione del presente documento, qualora l'editore o l'autore considerino tale riproduzione lesiva dei loro diritti d'autore)

 


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