Wittgenstein contro Popper. Un duello con l'attizzatoio

Marco Altichieri

“Il Corriere della sera” 14 febbraio 2002.

Un saggio ricostruisce lo scontro fra i due grandi filosofi austriaci, esuli in Inghilterra dopo l'avvento del nazismo. Con un testimone d'eccezione, Bertrand Russell

La sera del 25 ottobre 1946, un venerdì, un gruppo di filosofi e studenti di filosofia dell'Università di Cambridge, che si facevano chiamare con il nome impegnativo di Moral Science Club e avevano come capo il celebre Ludwig Wittgenstein, tenne la solita riunione settimanale, nell'aula 3 della scala G del King's College, per ascoltare un conferenziere e discuterne le tesi. La serata doveva essere interessante, se le sedie della stanzetta con vista sul fiume si rivelarono subito insufficienti, tanto che molti restarono in piedi: era infatti salito da Londra, dove insegnava a contratto alla London School of Economics, un certo Karl Popper, giovane e brillante filosofo austriaco, ebreo, arrivato da poco dalla Nuova Zelanda, dove s'era rifugiato durante la guerra. C'era chi intuiva che non sarebbe stato il normale dibattito accademico, e certo lo sapeva il filosofo più famoso di quei tempi, Bertrand Russell, che si mise in prima fila, vicino al caminetto, per non perdere una parola. Perché tanta curiosità? Perché si sapeva che Popper non condivideva le teorie di Wittgenstein, genio riconosciuto, nume di Cambridge, autore del maestoso e inaccessibile "Tractatus Logico-Philosophicus", pure lui austriaco, pure lui d'origine ebraica, pure lui sfuggito al nazismo. Ma nessuno immaginava che la serata sarebbe passata alla storia - se non altro aneddotica - della filosofia: Wittgenstein e Popper, come gladiatori del pensiero, in singolar tenzone. Con un finale sconcertante e, ancora oggi, avvolto nella leggenda: davvero Wittgenstein minacciò il rivale con un attizzatoio preso dal camino? Davvero, sopraffatto dalla logica di Popper, rimase senza parole, gettò l'attizzatoio e, ammettendo la sconfitta, sbatté la porta? Per sapere come andò a finire bisogna leggere fino in fondo un libro accattivante, "Wittgenstein's Poker" (L'attizzatoio di Wittgenstein, appunto), scritto da due giornalisti della Bbc, David Edmonds e John Eidinow, che hanno rintracciato i superstiti testimoni della serata e hanno ricapitolato le vite dei rivali come se, per volontà del fato, avessero parallelamente teso verso la clamorosa "disputa di dieci minuti". Perché, in apparenza, il caso è unico nella storia dei dibattiti filosofici, se i precedenti sono ancor più dubbi: chi può giurare che Diogene ridicolizzò Platone, come raccontò sei secoli dopo un altro Diogene (Laerzio), e chi confermerebbe che Duns Scoto fu assassinato a colpi di penna, nel 1308, dagli allievi? In genere, si sa, la filosofia non accende gli animi sino alla violenza fisica.

Invece, se davvero quella sera del '46 due inconciliabili teste pensanti s'affrontarono, con un vincitore e un vinto, la contesa sarebbe unica. Si capirebbe perché Popper, nell'autobiografia "Unended Quest", scritta negli anni '70 quando Wittgenstein era morto da un pezzo, avesse titolo per vantarsene: raccontò che dopo un botta e risposta in cui lui, Popper, aveva trionfato, Wittgenstein aveva preso l'attizzatoio dal caminetto e, brandendolo distrattamente ma certo inferocito, l'aveva sfidato a esprimere una regola morale. "Non minacciare i conferenzieri in visita con gli attizzatoi", dice di avere risposto lo spregiudicato venuto da Londra. E Wittgenstein, irriso davanti ai seguaci, gettò il ferro e, simbolicamente, la spugna. Storia bellissima: ma vera? Secondo il professor Peter Geach, che era nell'aula 3, il racconto di Popper è "falso dall'inizio alla fine". In più, pare che nelle minute del Moral Science Club conservate a Cambridge non ci sia il minimo accenno alla vicenda.

Eppure, la conferenza suonava come una sfida già per il titolo scelto da Popper, "Ci sono ancora problemi filosofici?", dove la domanda stessa implicava che almeno un problema rimane. Perciò era evidente la provocazione: se Wittgenstein sosteneva che la filosofia deve solo concentrarsi sullo studio del linguaggio, Popper era convinto che essa debba affrontare le grandi questioni della vita e della morale. Secondo Popper i filosofi costruiscono teorie come gl'ingegneri costruiscono ponti, mentre per Wittgenstein la filosofia tradizionale si riduce a una serie di pseudo-risposte a pseudo-problemi. Unica attenuante: benché già pubblicate in "La società aperta e i suoi nemici", le idee di Popper, di 13 anni più giovane del rivale, erano ancora poco conosciute. Ma è mai possibile che Wittgenstein, preso dai suoi pensieri e dall'arrogante consapevolezza del proprio genio, non avesse capito che la serata poteva rivelarsi una trappola? A dividerli, comunque, c'era il passato. Popper, nato nel 1902, era figlio d'un celebre avvocato che aveva lo studio nel cuore di Vienna, teneva in casa una biblioteca di diecimila volumi, per hobby traduceva classici greci e latini, e in più faceva la beneficenza che gli guadagnò l'Ordine di Francesco Giuseppe: poco credibile che Wittgenstein non conoscesse uno dei borghesi più in vista della città. Impossibile, poi, che Popper non sapesse chi erano i Wittgenstein, la famiglia viennese più ricca dopo i Rothschild, che abitavano un palazzo sulla Alleegasse e vivevano, secondo le parole di Johannes Brahms, "come se fossero a corte". Né il padre di Ludwig coltivava solo musicisti (Mahler, Schoenberg, Webern, Berg...), ma incoraggiava anche pittori e scultori, se Gustav Klimt, per la sua influenza, lo chiamava "il ministro delle belle arti". Gente che stava tutti i giorni sui giornali, nei discorsi mondani e perfino nelle satire di Karl Kraus.

Ovvio che tra due tipi così ci fosse rivalità, umana e ideale. Le loro filosofie erano tanto estranee, "come due navi che s'incontrano e si perdono nella notte", da escludersi l'una l'altra. Wittgenstein credeva che la filosofia fosse una sorta di terapia per esorcizzare demoni immaginari, una medicina che vale solo per gli individui: uno può vincere i fantasmi metafisici che lo tormentano, ma altri patiranno ancora. Popper invece faceva della filosofia un'arma nella guerra per la libertà: spiegò a Isaiah Berlin d'avere scritto, con "La società aperta e i suoi nemici", un "libro combattente" contro i totalitarismi, nazismo e comunismo. Un confronto che, a tanti anni di distanza, deve avere prodotto un vincitore. Quale? Popper, riassumono Edmonds ed Eidinow, ha avuto un tale successo che le sue idee sono ormai luogo comune, tanto che non si studiano quasi più: perfino la London School of Economics l'ha dimenticato, e ha convertito il suo ufficio in un gabinetto. Wittgenstein, al contrario, ha raggiunto "il canone filosofico" di Platone, Aristotele e Kant, benché il suo pensiero resti così oscuro che i seguaci "meditano sui suoi testi come studenti del Talmud che divinano saggezza dalla Torah".

E il terribile scontro del 25 ottobre '46, nell'aula 3G del King's College? Quello, naturalmente, rimane il segreto meglio conservato della storia della filosofia. Ovvio che Popper volesse provocare Wittgenstein, e pochi dubbi restano sulla complicità di Bertrand Russell, che aveva trovato in Popper un alleato contro lo strapotere del nume di Cambridge. Il confronto, naturalmente, ebbe luogo. E Wittgenstein, esasperato, prese in mano l'attizzatoio: disse qualcosa a Russell, lamentando di essere malinteso. E fu Russell, forse, a replicare: "Sei tu che fai confusione". Si udì una porta sbattere, tutti si ritrovarono a guardare la sedia di Wittgenstein, vuota. Il ferro giaceva accanto al caminetto, inerte. E fu allora che Popper, come rispondendo a una domanda non formulata, intimò: "Non minacciare i conferenzieri in visita con un attizzatoio". Battuta spiritosa, ma Wittgenstein se n'era già andato. L'attizzatoio, ormai raffreddato, fu dimenticato e, presto, buttato via. Perciò, non restano impronte digitali del più furioso diverbio nella storia della filosofia.

 

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