|
||||||||||||||||||
Al di là del bene e del male
Friedrich NietzscheCAPITOLO PRIMO.
DEI PREGIUDIZI DEI FILOSOFI.
1. La volontà di verità che ci sedurrà ancora a molti rischi, quel famoso spirito di verità di cui tutti i filosofi fino ad oggi hanno parlato con venerazione: questa volontà di verità, quali mai domande ci ha già proposto! Quali malvagie, bizzarre, problematiche domande! E' già una lunga storia - eppure non si direbbe, forse, che essa sia appena ora cominciata? Quale meraviglia se una buona volta, finalmente, diventiamo diffidenti, perdiamo la pazienza, e con impazienza ci rivoltiamo? Che si debba anche da parte nostra imparare da questa sfinge a interrogare? "Chi" è propriamente che ora ci pone domande? "Che cosa" in noi tende propriamente alla 'verità'? - In realtà, abbiamo sostato a lungo dinanzi al problema della causa di questo volere - finché‚ abbiamo finito per arrestarci completamente dinanzi a un problema ancor più profondo. Ci siamo posti la questione del "valore" di questa volontà. Posto pure che noi vogliamo la verità:"Perchè non, piuttosto", la non verità? E l'incertezza? E perfino l'ignoranza? - Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi - oppure siamo stati noi a farci innanzi a questo problema? Chi di noi è in questo caso Edipo? Chi la Sfinge? Pare che si siano dati convegno interrogazioni e punti interrogativi. - E si potrebbe mai credere all'impressione, nata, in definitiva, in noi, che il problema non sia stato finora mai posto - che siamo stati noi per primi ad averlo intravisto, preso di mira, "osato"? Giacché‚ esso comporta un rischio e forse non esiste rischio più grande.
2. 'Come "potrebbe" qualcosa nascere dal suo contrario? Per esempio la verità dall'errore? O la volontà di verità dalla volontà d'illusione? O l'azione disinteressata dal proprio tornaconto? O la pura solare
contemplazione dei saggi dalla concupiscenza? Una tale origine è impossibile; chi sogna una cosa del genere è un folle, anzi qualcosa di peggio; le cose di valore supremo devono avere un'origine diversa, un'origine "loro propria" - non possono essere derivate da questo mondo effimero, seduttore, ingannatore, irrilevante, da questo guazzabuglio di delirio e bramosia! Piuttosto la loro origine deve essere in seno all'essere, nel non transeunte, nel nascosto Iddio, nella 'cosa in s‚' - "là" e in nessun altro luogo!'. - Questa maniera di giudicare costituisce il tipico pregiudizio, da cui si rendono riconoscibili i metafisici di tutti i tempi; questa specie di
apprezzamenti di valore sta sullo sfondo di tutti i loro procedimenti logici; prendendo questa loro 'fede' come punto di partenza, essi si sforzano di raggiungere il loro 'sapere', qualcosa che alla fine viene battezzato come 'la verità'. La credenza fondamentale dei metafisici è"la credenza nelle antitesi dei valori". Neppure ai più cauti di loroè mai venuto in mente di dubitare già su questa soglia, dove il dubitare era quanto mai necessario; perfino quando del 'de omnibus dubitandum' avevano tessuto la loro lode. E' infatti lecito dubitare,
in primo luogo, se esistano in generale antitesi, e in secondo luogo, se quei popolari apprezzamenti e antitesi di valori, sui quali i metafisici hanno stampato il loro suggello, non siano forse che apprezzamenti pregiudiziali, prospettive provvisorie, ricavate, per di più, forse da un angolo, forse dal basso in alto, prospettive-di- batrace per così dire, per prendere in prestito un'espressione che ricorre frequentemente nei pittori? Nonostante il valore che può essere attribuito al vero, al verace, al disinteressato, c'è la possibilità che debba ascriversi all'apparenza, alla volontà d'illusione, all'interesse personale e alla cupidità un valore
superiore e più fondamentale per ogni vita. Sarebbe inoltre persino possibile che "quanto" costituisce il valore di quelle buone e venerate cose consista proprio nel fatto che esse sono capziosamente imparentate, annodate, agganciate a quelle cattive, apparentemente antitetiche, e forse anzi sono a queste essenzialmente simili. Forse! - Ma chi mai vorrà preoccuparsi di siffatti pericolosi 'forse'! Per questo occorre aspettare l'arrivo di un nuovo genere di filosofi, tali che abbiano gusti e inclinazioni diverse ed opposte rispetto a quelle
fino ad oggi esistite - filosofi del pericoloso 'forse' in ogni senso. - E per dirla con tutta serietà: io vedo che si stanno avvicinando questi nuovi filosofi.3. Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto loro le bucce, mi sono detto: occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico; occorre, a questo punto, trasformare il proprio modo di vedere, come si è fatto per
quanto riguarda l'ereditarietà e l''innatismo'. Come l'atto della nascita non può essere preso in considerazione nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, così l''esser cosciente' non può essere"contrapposto", in una qualche maniera decisiva, all'istintivo, - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto
dai suoi istinti e costretto in determinati binari. Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per esprimermi più chiaramente, esigenze fisiologiche di
una determinata specie di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza sia meno valida della 'verità': simili apprezzamenti, con tutta la loro importanza regolativa per "noi", potrebbero, pur tuttavia, essere soltanto apprezzamenti pregiudiziali, una determinata specie di "niaiserie", come può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri quali noi siamo. Supposto, cioè, che non sia proprio l'uomo la 'misura delle cose'...4. La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un'obiezione contro di esso; è qui che il nostro linguaggio ha forse un suono quanto mai inusitato. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi (ai quali appartengono i giudizi sintetici "a priori") sono per noi i più indispensabili, e che senza mantenere in vigore le finzioni logiche, senza una misurazione della realtà alla stregua del mondo, puramente inventato, dell'assoluto, dell'eguale-a-se-stesso, senza una costante falsificazione del mondo mediante il numero, l'uomo non potrebbe vivere - che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita. Ammettere la non verità come condizione della vita: ciò indubbiamente significa metterci pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di valore: e una filosofia che osa questo si pone, già soltanto per ciò, al di là del bene e del male.
5. Quel che ci stimola a guardare, con aria tra diffidente e
sarcastica, tutti i filosofi, non consiste nel fatto che si scopre
continuamente quanto essi siano ingenui - quanto spesso e con quanta
facilità si ingannino e si smarriscano, insomma nella loro puerilità e
nel loro candore - bensì nel fatto che non c'è in loro sufficiente
onestà: pur levando, tutti quanti sono, un grande e virtuoso strepito,
non appena, anche soltanto da lontano, viene sfiorato il problema
della veracità. Fanno tutti le viste d'aver scoperto e raggiunto le
loro proprie opinioni attraverso l'autonomo sviluppo di una dialettica
fredda, pura, divinamente imperturbabile (per differenziarsi dai
mistici di ogni grado, che sono più onesti di loro e più babbei -
giacchéé‚ parlano d''ispirazione'): mentre invece, in fondo, una tesi
pregiudizialmente adottata, un'idea improvvisa, una 'suggestione', per
lo più un desiderio interiore reso astratto e filtrato al setaccio
vengono sostenuti da costoro con ragioni posteriormente cercate - sono
tutti quanti degli avvocati che non vogliono farsi chiamare tali e in
realtà, il più delle volte, persino scaltriti patrocinatori dei loro
stessi pregiudizi, cui dànno il battesimo di 'verità' - e assai
lontani, altresì, dal coraggio morale della coscienza che confessa a
se stessa questo, proprio questo, assai lontani dal buon gusto del
coraggio, che sa far intendere anche ciò, sia per mettere in guardia
un nemico o un amico, sia per tracotanza e per prendersi beffa di se
stesso. La tartuferia altrettanto rigida quanto morigerata del vecchio
Kant, con la quale egli ci adesca sulle vie traverse della dialettica,
che ci conducono o più esattamente ci seducono al suo 'imperativo
categorico' - questo spettacolo ci fa sorridere, noi di gusto così
sottile, noi per i quali è un non piccolo diletto rivedere le bucce
alle raffinate malizie di vecchi moralisti e predicatori di morale.
Oppure quel giuoco di prestigio in forma matematica con cui Spinoza
fasciava come d'una bronzea corazza e mascherava la sua filosofia - in
definitiva, 'l'amore per la "propria" saggezza', interpretando queste
parole nel loro esatto e ragionevole significato, - allo scopo di
intimidire fin da principio il coraggio dell'attaccante che osasse
gettare lo sguardo su questa invincibile vergine, questa Pallade Atena
- quanta timidezza e vulnerabilità tradisce questa mascherata di un
infermo solitario!6. (2) Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi
ogni grande filosofia: l'autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché‚
una specie di non volute e inavvertite "m‚moires"; come pure il fatto
che le intenzioni morali (o immorali) hanno costituito in ogni
filosofia il vero e proprio nocciolo vitale, da cui si è sviluppata
ogni volta l'intera pianta. In realtà si agisce bene (e saggiamente)
se, per dare una spiegazione a ciò, si comincia col domandarci sempre
in che modo le più lontane asserzioni metafisiche di un filosofo si
siano determinate: quale morale tutto questo abbia di mira ("lui"
stesso abbia di mira). Conseguentemente io non credo che un 'istinto
di conoscenza' sia il padre della filosofia, ma che piuttosto un altro
istinto, in questo come in altri casi, si sia servito della conoscenza
(e della errata conoscenza) soltanto a guisa di uno strumento. Ma chi
considera i fondamentali istinti umani, per vedere fino a che punto
proprio essi possano qui essere entrati in giuoco come geni
"ispiratori" (oppure demoni e coboldi), si accorgerà che certamente
una volta essi hanno tutti praticato la filosofia - e che ognuno di
questi, nella sua singolarità, sarebbe disposto anche troppo
volentieri a presentare precisamente "se stesso" come l'ultimo fine
dell'esistenza e come il più legittimo "signore" di tutti gli altri
istinti. Ogni istinto infatti è bramoso di dominio: e come "tale"
cerca di filosofare. - Indubbiamente, nei dotti, negli uomini di
scienza in senso specifico, la cosa può porsi in altri termini -
'migliori', se si vuole -, effettivamente può darsi qualcosa come un
istinto di conoscenza, un qualche piccolo meccanismo d'orologeria che,
caricato a dovere, svolge alacremente il suo bravo lavoro "senza" che
tutti quanti gli altri istinti del dotto ne siano sostanzialmente
coinvolti. Per questa ragione i particolari 'interessi' del dotto si
collocano, di solito, in tutt'altra sfera, semmai nella famiglia o nel
guadagno o nella politica; è anzi quasi indifferente che il suo
piccolo congegno venga applicato a questo o a quell'altro settore
della scienza e che il giovane lavoratore, 'pieno di speranze', faccia
di s‚ un buon filologo o un esperto di funghi o un chimico - non lo
"caratterizza" il fatto che egli diventi questo o quello. Viceversa,
non c'è nel filosofo un bel nulla d'impersonale; e particolarmente la
sua morale offre una risoluta e decisiva testimonianza di "quel che
egli è" - vale a dire in quale disposizione gerarchica i più intimi
istinti della natura siano posti gli uni rispetto agli altri.7. Quanto sanno essere maligni i filosofi? Non conosco nulla di più
velenoso dello scherzo che si permise Epicuro ai danni di Platone e
dei Platonici: li chiamò Dionysiokolakes. Questa parola, secondo il
suo contesto letterale e il suo senso preminente, significa 'adulatori
di Dionisio', dunque satelliti di tiranni e loro bassi piaggiatori: ma
soprattutto vuol anche dire: 'sono tutti "commedianti", non v'è niente
di autentico' (Dionysoskolax era una designazione popolare del
commediante). E in quest'ultimo significato sta propriamente la
frecciata che Epicuro (3) aveva scoccato contro Platone: lo
indispettiva lo stile grandioso, la messinscena nella quale Platone,
con i suoi discepoli, mostrava tanta abilità - ed Epicuro invece,
nessuna! Lui, il vecchio maestro di scuola di Samo, che se ne rimase
nascosto nel suo giardinetto di Atene e scrisse trecento libri,
chissà? era forse spinto contro Platone dal furore e dall'ambizione?
Furono necessari cento anni Perchè la Grecia arrivasse a scoprire chi
era stato questo dio degli orti, Epicuro. - Ma arrivò mai a scoprirlo?8. C'è un punto, in ogni filosofia, in cui la 'convinzione' del
filosofo entra in scena: ovvero, per dirla con le parole di un antico
mistero:"adventavit asinus
pulcher et fortissimus" (4).9. Volete voi vivere 'secondo natura'? O nobili Stoici, quale
impostura di parole! Immaginatevi un essere come la natura,
dissipatrice senza misura, indifferente senza misura, senza propositi
e riguardi, senza pietà e giustizia, feconda e squallida e al tempo
stesso insicura, immaginatevi l'indifferenza stessa come potenza -
come "potreste" vivere voi conformemente a questa indifferenza? Vivere
- non è precisamente un voler essere diversi da quel che è la natura?
Vivere non è forse valutare, preferire, essere ingiusti, essere
limitati, voler essere differenti? E posto che il vostro imperativo
'vivere secondo natura' significhi, in fondo, lo stesso che 'vivere
secondo la vita', - come potreste voi "non" vivere così? Perchè fare
un principio di ciò che voi stessi siete e dovete essere? - In verità
la cosa si pone in termini assai diversi: mentre voi in attitudine di
rapimento asserite di leggere nella natura il canone della vostra
legge, volete qualcosa di opposto, voi curiosi commedianti e
ingannatori di voi medesimi! Il vostro orgoglio vuole prescrivere e
incarnare nella natura, perfino nella natura, la vostra morale, il
vostro ideale, voi pretendete che essa sia natura 'conforme alla Stoa'
e vorreste far esistere ogni esistenza alla stregua della vostra
propria immagine - come una mostruosa, eterna glorificazione e
universalizzazione dello stoicismo! Con tutto il vostro amore per la
verità, vi costringete così a lungo, con tale ostinazione, con tale
ipnotica fissità di sguardo, a vedere "falsamente", vale a dire
stoicamente la natura, al punto che non siete più capaci di vederla in
una maniera diversa - e non so quale abissale superbia finisce per
infondervi pure la speranza da insensati che anche la natura, "per il
fatto che" sapete tiranneggiare voi stessi - stoicismo è tirannide
sopra se stessi - si lasci tiranneggiare: non è infatti lo stoico un
"frammento"della natura?... Ma questa è una vecchia eterna storia: ciò
che è accaduto una volta agli Stoici, accade ancor oggi, non appena
una filosofia comincia a credere in se medesima. Essa crea sempre il
mondo a sua immagine, non può fare altrimenti; la filosofia è questo
stesso istinto tirannico, la più spirituale volontà di potenza, di
'creazione del mondo', di una "causa prima".10. Il fervore e la sottigliezza, potrei perfino dire: l'astuzia, con
cui oggi ovunque in Europa ci si avventa sul problema del 'mondo reale
e di quello apparente', dà a pensare e fa tendere l'orecchio; e chi
non percepisce qui, nello sfondo, se non una 'volontà di verità' e
null'altro, non può certamente rallegrarsi di un acutissimo udito. In
singoli e rari casi può realmente essere interessata una tale volontà
di verità, un qualche smisurato e avventuroso coraggio, un'ambizione
da metafisici di una sentinella perduta, che preferisce pur sempre un
pugno di 'certezza' a un'intera carrozza carica di belle possibilità;
possono esserci perfino puritani fanatici della coscienza, che
preferiscono agonizzare su un sicuro nulla piuttosto che su un incerto
qualche cosa. Ma questo è nichilismo e indice di un'anima disperante,
mortalmente esausta: per quanto gli atteggiamenti di una tale virtù
possano apparire prodi. Ma nei pensatori più vigorosi, più colmi di
vita, ancora assetati di vita, non pare che le cose stiano in questo
modo: mentre prendono posizione "contro" l'illusione e già con
superbia pronunciano la parola 'prospettico', mentre stimano
l'attendibilità del loro proprio corpo pressappoco tanto scarsa quanto
l'attendibilità dell'apparenza immediata che dice 'la terra non si
muove', e con fittizio buonumore si lasciano quindi sfuggire dalle
mani il più sicuro dei possessi (quale cosa, infatti, è oggi ritenuta
più sicura del proprio corpo?) - chissà se non vogliono in fondo
riconquistare qualcosa che in altri tempi è stato posseduto con una
"certezza" ancor più grande, qualcosa del vecchio latifondo
appartenente alla fede d'allora, forse 'l'anima immortale', forse 'il
vecchio dio', insomma idee sulla base delle quali, contrariamente alle
'idee moderne', si poteva vivere in maniera migliore, cioè più
vigorosa e serena. C'è qui "diffidenza" contro queste idee moderne,
incredulità verso tutto ciò che ieri ed oggi è stato edificato; c'è
forse, commisto ad esse, un lieve disgusto e sarcasmo cui riesce ormai
intollerabile il "bric-à-brac" di concetti della più diversa origine,
quali sono quelli che oggigiorno il cosiddetto positivismo porta sul
mercato, la nausea del gusto più smaliziato dinanzi alla policromia da
fiera e all'aspetto cencioso di tutti questi filosofastri della realtà
(5), in cui non c'è niente di nuovo e di genuino, ad eccezione di
codesta varietà di colori. In ciò mi pare che si dovrebbe dar ragione
a questi odierni scettici oppositori della realtà e microscopisti
della conoscenza (6): il loro istinto, che li spinge lontano dalla
realtà "moderna", è irrefutabile, - che importanza hanno per noi le
loro vie tortuose e retrograde! L'essenziale in loro "non" è il fatto
che vogliano tornarsene 'indietro', bensì che vogliano andarsene
"via". Un po' più di forza, di slancio, di coraggio, di vocazione
artistica: ed essi mirerebbero "oltre" - e non indietro! -11. Mi pare che ovunque oggi ci si sforzi di distogliere lo sguardo
dal caratteristico influsso che Kant ha esercitato sulla filosofia
tedesca, e in particolare di scivolar via saggiamente riguardo al
valore che egli attribuì a se stesso. Kant andava soprattutto e in
primo luogo orgoglioso della sua tavola delle categorie; con questa
tavola tra le mani diceva: 'E' questa la cosa più difficile che pot‚
mai essere intrapresa a vantaggio della metafisica'. Si intenda bene
questo 'pot‚ essere'! Egli si sentiva fiero di aver "scoperto"
nell'uomo una nuova facoltà, la facoltà dei giudizi sintetici "a
priori". Anche ammesso che in questo si sia ingannato, lo sviluppo e
la rapida fioritura della filosofia tedesca dipendono da
quest'orgoglio e dall'emulazione di tutti i giovani nello scoprire
possibilmente qualcosa di ancor più superbo - e in ogni caso 'nuove
facoltà'! - Ma riflettiamo: è l'ora. Come sono "possibili" giudizi
sintetici "a priori"? - si chiedeva Kant, - e che cosa rispose
propriamente? "Grazie a una facoltà": purtroppo non con queste tre
parole, ma con dovizia di dettagli, in atteggiamento venerando e con
una tale ostentazione di profondità germanica e di arzigogoli
cerebrali, che non si badò alla esilarante "niaiserie allemande"
nascosta in codesta risposta. Si stava addirittura perdendo la testa
per questa nuova facoltà, e il giubilo giunse al culmine, quando Kant
scoprì in aggiunta anche una facoltà morale nell'uomo - poiché‚ allora
i Tedeschi erano ancora morali, e per niente affatto 'realisti in
politica'. - Venne la luna di miele per la filosofia tedesca; tutti i
giovani teologi del pio istituto di Tubinga si misero tosto in caccia
- tutti cercarono delle 'facoltà'. E che cosa non si riuscì a trovare
- in quell'età innocente, ricca, ancor giovane, dello spirito tedesco,
in cui aleggiava e cantava una fata maliziosa, il Romanticismo, in
quel tempo in cui non si sapeva ancora tener distinti 'trovare' da
'inventare'! - Soprattutto una facoltà per il 'sovrannaturale':
Schelling la battezzò intuizione intellettuale, venendo così incontro
ai più sviscerati appetiti dei suoi Tedeschi, in fondo pieni di
fregola devozionale. A tutto questo movimento tracotante ed
entusiasta, che era giovinezza, per quanto si fosse arditamente
travestito di concetti canuti e senescenti, non si può fare un torto
maggiore che prenderlo sul serio e trattarlo addirittura, a un certo
punto, con moralistica indignazione; basta così, si divenne più vecchi
- il sogno se ne volò via. Venne un tempo in cui ci si stropicciò la
fronte: e ce la stropicciamo ancor oggi. Avevamo sognato: avanti a
tutti e per primo - il vecchio Kant. Ma è poi questa - una risposta?
Una spiegazione? O non piuttosto soltanto una ripetizione della
domanda? Com'è che l'oppio fa dormire? 'Grazie a una facoltà', cioè la
"virtus dormitiva" - risponde quel medico in Molière:"quia est in eo virtus dormitiva,
cujus est natura sensus assoupire".Ma risposte di tal genere appartengono alla commedia, ed è tempo,
infine, di sostituire la domanda kantiana, 'come sono possibili
giudizi sintetici "a priori"?', con un'altra domanda: 'Perchè è
"necessaria" la fede in siffatti giudizi?' - cioè è tempo di renderci
conto che tali giudizi devono essere "creduti" come veri al fine della
conservazione di esseri della nostra specie; ragion per cui,
naturalmente, potrebbero anche essere giudizi "falsi"! Ovvero, per
parlare più chiaro, rudemente e radicalmente: giudizi sintetici "a
priori" non dovrebbero affatto 'essere possibili': non abbiamo alcun
diritto a essi, nella nostra bocca sono giudizi falsi e nulla più.
Salvo il fatto che è indubbiamente necessaria la credenza nella loro
verità, in quanto credenza pregiudiziale e immediata evidenza che
rientra nell'ottica prospettica della vita. - Se si tiene, infine,
presente anche l'enorme influenza che 'la filosofia tedesca' - spero
si comprenderà il suo diritto ad essere messa tra virgolette - ha
esercitato sull'intera Europa, non si dubiterà che ne abbia fatto
parte una certa "virtus dormitiva": si era estasiati di possedere,
grazie alla filosofia tedesca, in mezzo a nobili parassiti, virtuosi,
mistici, artisti, cristiani per tre quarti e politici oscurantisti di
tutte le nazioni, un contravveleno contro quel sensualismo ancora
strapotente che dal secolo scorso irrompeva come un fiume nel nostro
secolo, insomma - 'sensus assoupire'.12. Per quanto riguarda l'atomistica materialistica, essa appartiene
alle teorie meglio confutate che siano mai esistite, e forse non c'è
oggi in Europa, tra i dotti, nessuno così indotto, da attribuirle
ancora una seria importanza, salvo per comodità d'uso giornaliero e
domestico (vale a dire come un'abbreviazione dei mezzi espressivi) -
grazie soprattutto a quel polacco, Boscovich [7], che insieme al
polacco Copernico è stato fino ad oggi il più grande e il più
vittorioso avversario dell'evidenza immediata. Infatti, mentre
Copernico ci ha persuaso a credere, in opposizione a tutti i sensi,
che la terra "non" è immobile, Boscovich ci insegnò a rinnegare la
fede nell'ultima cosa della terra che 'stava immobile', la fede nella
'sostanza', nella 'materia', nell'atomo come residuo terrestre, come
piccola massa; è stato il più grande trionfo sui sensi che sia mai
stato ottenuto sino a oggi sulla terra. - Ma si deve ancora andar
oltre e dichiarar guerra, una spietata guerra all'arma bianca, anche
al 'bisogno atomistico', che continua sempre ad avere una pericolosa
sopravvivenza, in regioni insospettabili a chiunque, analogamente a
quel più famoso 'bisogno metafisico': si deve prima di tutto dare il
colpo di grazia anche a quell'altro e più funesto atomismo che il
cristianesimo ci ha ottimamente e tanto a lungo insegnato, l'"atomismo
delle anime". Ci sia consentito di caratterizzare con questa parola
quella credenza che considera l'anima come qualche cosa di
indistruttibile, di eterno, d'indivisibile, come una monade, come un
"atomon"; "questa" credenza deve essere estirpata dalla scienza! Non è
assolutamente necessario, sia detto tra noi, sbarazzarci con ciò anche
dell''anima' e rinunziare a una delle più antiche e venerande ipotesi:
come suole accadere all'imperizia dei naturalisti, ai quali basta
sfiorare appena l''anima' per perderla. Ma la strada per nuove forme e
raffinamenti dell'ipotesi anima resta aperta: e concetti come 'anima
mortale' e 'anima come pluralità del soggetto' e 'anima come struttura
sociale degli istinti e delle passioni' vogliono avere, sin d'ora,
diritto di cittadinanza nella scienza. Col preparare una fine alla
superstizione, che fino ad oggi ha lussureggiato con un rigoglio quasi
tropicale intorno alla rappresentazione dell'anima, lo psicologo
"nuovo" si è certamente spinto, per così dire, in un nuovo deserto e
in una nuova diffidenza - può anche darsi che la condizione degli
psicologi più antichi fosse più comoda e allegra; - ma infine egli si
rende conto che appunto con ciò è condannato anche a "inventare" - e,
chissà, forse anche a "trovare". -13. I fisiologi dovrebbero riflettere prima di stabilire l'istinto di
conservazione come istinto cardinale di un essere organico. Un'entità
vivente vuole soprattutto scatenare la sua forza - la vita stessa è
volontà di potenza: - l'autoconservazione è soltanto una delle
indirette e più frequenti "conseguenze" di ciò. - Insomma, in questo
come in qualsiasi altro caso, guardiamoci dai princìpi teologici
superflui! quale è quello dell'autoconservazione (lo dobbiamo
all'inconseguenza di Spinoza -). Così infatti vuole il metodo, che
deve essere essenzialmente economia di princìpi.14. In cinque o sei cervelli comincia forse oggi ad albeggiare il
pensiero che anche la fisica sia soltanto una interpretazione del
mondo e un ordine imposto ad esso (secondo il nostro modo di vedere! -
con licenza parlando) e "non" già una spiegazione del mondo: ma in
quanto la fisica si fonda sulla fede nei sensi, essa vale come
qualcosa di più e a lungo andare deve acquistare ancora maggior
valore, cioè deve valere come spiegazione. Essa ha, dalla sua, la
testimonianza degli occhi e delle dita, l'evidenza visiva e la
materiale tangibilità; e ciò esercita su un'età dal fondamentale gusto
plebeo l'effetto d'un incantesimo, d'una persuasione, d'una "certezza
infusa", - si uniforma anzi istintivamente al canone di verità del
sensualismo eternamente popolare. Che cos'è chiaro, che cos'è
'spiegato'? Soltanto ciò che si lascia vedere e toccare, - si deve
spingere ogni problema fino a questo punto. Viceversa, proprio nel
recalcitrare all'evidenza sensibile consisteva l'incantesimo del modo
platonico di pensare, il quale era un modo di pensare "aristocratico",
- in mezzo ad uomini, forse, cui recavano diletto sensi persino più
vigorosi ed esigenti di quelli che posseggono i nostri contemporanei,
ma a cui era dato trovare un più alto trionfo nel conservare il
dominio su questi sensi: e questo era reso possibile mediante una rete
di smunti, freddi, grigi concetti, gettata da costoro sul variopinto
vortice dei sensi - la plebaglia dei sensi, come diceva Platone - (8).
In questa sopraffazione e interpretazione del mondo alla maniera
platonica, c'era una specie di "godimento" diverso da quello che ci
offrono i fisici di oggi, come pure i darwinisti e gli antiteleologici
tra i lavoratori della fisiologia, con il loro principio della 'più
piccola forza possibile' e della più grande imbecillità possibile.
'Quando l'uomo non ha più nulla da vedere e da afferrare, non ha
neppure più nulla da cercare' - questo è indubbiamente un imperativo
diverso da quello platonico, eppure per una rude, laboriosa stirpe di
meccanici e costruttori di ponti dell'avvenire, i quali non hanno da
sbrigare che un "grossolano" lavoro, può essere proprio l'imperativo
giusto.15. Per praticare con tranquilla coscienza la fisiologia, occorre
tener presente il fatto che gli organi di senso "non" sono fenomeni
nel significato della filosofia idealistica: come tali non potrebbero
in alcun modo essere cause! Sensualismo quindi, almeno come ipotesi
regolativa, per non dire come principio euristico. - Come? E altri
dicono perfino che il mondo esterno sarebbe l'opera dei nostri organi?
Ma allora sarebbe perfino il nostro stesso corpo, come frammento di
questo mondo esterno, l'opera dei nostri organi! Ma allora sarebbero i
nostri stessi organi... l'opera dei nostri organi. Questo mi sembra
una radicale "reductio ad absurdum": posto che il concetto di "causa
sui" sia qualcosa di radicalmente
assurdo. Di conseguenza, "non" è il mondo esterno opera dei nostri
organi...?16. Continuano ancora ad esistere ingenui osservatori di s‚, i quali
credono che vi siano 'certezze immediate', per esempio 'io penso', o,
come era la superstizione di Schopenhauer, 'io voglio': come se qui il
conoscere potesse afferrare puro e nudo il suo oggetto, quale 'cosa in
s‚', e non potesse aver luogo una falsificazione n‚ da parte del
soggetto, n‚ da parte dell'oggetto. Ma non mi stancherò di ripetere
che 'certezza immediata', così come 'assoluta conoscenza' e 'cosa in
s‚', comportano una "contradictio in adjecto": ci si dovrebbe pure
sbarazzare, una buona volta, della seduzione delle parole! Creda pure
fin che vuole il volgo, che conoscere sia un conoscere esaustivo; il
filosofo deve dirsi: se scompongo il processo che si esprime nella
proposizione 'io penso', ho una serie di asserzioni temerarie, la
giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, - come
per esempio, che sia "io" a pensare, che debba esistere un qualcosa,
in generale, che pensi, che pensare sia un'attività e l'effetto di un
essere che è pensato come causa, che esista un 'io', infine, che sia
già assodato che cos'è caratterizzabile in termini di pensiero, - che
io "sappia" che cos'è pensare. Se io, infatti, non mi fossi già ben
deciso al riguardo, su quale base potrei giudicare che quanto appunto
mi sta accadendo non sia forse un 'volere' o un 'sentire'? Ebbene,
quell''io penso' presuppone il "confronto" del mio stato attuale con
altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di stabilire che
cosa esso sia: a causa di questo rinvio a un diverso 'sapere', esso
non ha per me, in nessun caso, un'immediata certezza. - Al posto di
quella 'certezza immediata', alla quale il popolo, nel caso in
questione, può credere, il filosofo si ritrova in tal modo nelle mani
una serie di problemi della metafisica, vere e proprie questioni di
coscienza dell'intelletto, che così si formulano: 'Donde prendo il
concetto del pensare? Perchè credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà
il diritto di parlare d'un io e perfino d'un io come causa, e infine
ancora d'un io come causa dei pensieri?'. Chi, richiamandosi a una
specie d'"intuizione" della conoscenza, si sentisse così fiducioso da
rispondere, come fa colui che dice: 'Io penso e so che questo almeno è
vero, reale, certo' - troverebbe oggi pronti in un filosofo un sorriso
e due punti interrogativi: 'Signor mio, gli farebbe forse capire il
filosofo, è improbabile che lei non si sbagli: ma Perchè poi verità a
tutti i costi?'. -17. Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò
mai di tornare sempre a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto,
che malvolentieri questi superstiziosi sono disposti ad ammettere, -
vale a dire, che un pensiero viene quando è 'lui' a volerlo, e non
quando 'io' lo voglio (9); cosicch‚ è una "falsificazione" dello stato
dei fatti dire: il soggetto 'io' è la condizione del predicato
'penso'. "Esso" pensa: ma che questo 'esso' sia proprio quel famoso
vecchio 'io' è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una
supposizione, un'affermazione, soprattutto non è affatto una 'certezza
immediata' (10). E infine, già con questo 'esso pensa' si è fatto
anche troppo: già questo 'esso' contiene "un'interpretazione" del
processo e non rientra nel processo stesso. Si conclude a questo
punto, secondo la consuetudine grammaticale: 'Pensare è un'attività, a
ogni attività compete qualcuno che sia attivo, di conseguenza'.
Pressappoco secondo uno schema analogo il più antico atomismo cercava,
oltre alla 'forza' che agisce, anche quel piccolo conglomerato di
materia in cui essa risiede, da cui promana la sua azione, l'atomo;
cervelli più rigorosi impararono infine a trarsi d'impaccio senza
questo 'residuo terrestre' e forse un bel giorno ci si abituerà
ancora, anche da parte dei logici, a cavarsela senza quel piccolo
'esso' (nel quale si è volatilizzato l'onesto, vecchio io).18. In una teoria, la più trascurabile attrattiva non consiste
certo nel fatto che essa sia confutabile: appunto con ciò essa
attrae cervelli più sottili. Sembra che la cento volte confutata
teoria del 'libero arbitrio' debba anche a questa attrattiva la
sua durata: arriva sempre di nuovo qualcuno che si sente
abbastanza forte per confutarla.19. I filosofi sono soliti parlare della volontà come se fosse la
cosa più nota di questo mondo; anzi Schopenhauer ci dette a
intendere che la volontà soltanto ci sarebbe propriamente nota,
nota in tutto e per tutto, nota senza detrazioni o aggiunte.
Tuttavia mi sembra sempre di nuovo che anche in questo caso
Schopenhauer abbia fatto soltanto quel che appunto i filosofi sono
soliti fare: che cioè egli abbia accolto un "pregiudizio del
volgo" portandolo all'esagerazione. Il volere mi sembra
soprattutto qualcosa di "complicato", qualcosa che soltanto come
parola rappresenta una unità, e appunto nell'uso di un'unica
parola si nasconde il pregiudizio del volgo, che ha prevalso sulla
cautela dei filosofi, in ogni tempo esigua. Si sia dunque, una
buona volta, più cauti, si sia 'non filosofici' diciamo: in ogni
volere c'è in primo luogo una molteplicità di sensazioni, vale a
dire la sensazione dello stato da cui ci si vorrebbe
"allontanare", la sensazione dello stato a cui ci si vorrebbe
"avvicinare", la sensazione di questo stesso 'allontanarsi' e
'tendere', quindi anche una concomitante sensazione muscolare, la
quale, pur senza che si metta in movimento 'braccia e gambe',
comincia il suo giuoco merc‚ una specie di abitudine, non appena
noi 'vogliamo'. Al pari dunque del sentire, e, per la verità, di
un sentire di molte specie, così, in secondo luogo, anche il
pensare deve essere riconosciuto quale ingrediente della volontà:
in ogni atto di volontà esiste un pensiero che comanda; e non si
deve in alcun modo credere di poter separare questo pensiero dal
'volere', come se il volere dovesse poi continuare a sussistere!
In terzo luogo, la volontà non è soltanto un complesso di
sensazioni e di pensieri, ma anche, soprattutto, una "passione": e
in realtà quella passione del comando. Quella che viene chiamata
'libertà del volere' è essenzialmente la passione della
superiorità rispetto a colui che deve obbedire: 'Io sono libero,
'egli' deve obbedire' - in ogni volontà si annida questa
coscienza e così pure quella tensione dell'attenzione, quello
sguardo diritto che s'appunta esclusivamente su "una" cosa,
quell'incondizionato apprezzamento di valore 'ora che c'è bisogno
di questo e non d'un'altra cosa', quell'intima certezza che si
sarà ubbiditi, e tutto questo appartiene ancora alla condizione di
chi impartisce ordini. Un uomo, che "vuole" - comanda a un
qualcosa, in s‚, che ubbidisce o alla cui obbedienza egli crede.
Ma si badi ora a quel che v'è di più prodigioso nella volontà, in
questa cosa così multiforme per la quale il volgo ha soltanto
"un'unica" parola: in quanto, nel caso dato, noi siamo al tempo
stesso chi comanda e chi ubbidisce e, come parte ubbidiente,
conosciamo le sensazioni del costringere, dell'opprimere, del
comprimere, del resistere, del muovere, le quali sono solite aver
inizio subito dopo l'atto del volere; in quanto, d'altro lato,
abbiamo l'abitudine, in virtù del concetto sintetico 'io', di non
dar peso a questo dualismo e di lasciarci ingannare al riguardo,
si è agganciati al volere anche un'intera catena di illazioni
sbagliate e conseguentemente di false valutazioni della volontà
stessa, di guisa che chi vuole crede in buona fede che il volere
"basti" all'azione. Poiché‚, nel maggior numero dei casi, si è
voluto soltanto quando ci si poteva "aspettare" l'effetto del
comando, quindi l'obbedienza, quindi l'azione, allora
"l'apparenza" si è trasferita nella sensazione che esista una
"necessità d'effetto": insomma, chi vuole crede, con un
sufficiente grado di certezza, che volontà ed azione siano in
qualche modo una cosa sola - egli attribuisce il successo,
l'attuazione del suo volere ancora alla volontà stessa e gode in
ciò di un accrescimento di quel senso di potenza che ogni successo
porta con s‚. 'Libertà del volere' - è questa la parola per quel
multiforme stato di piacere di colui che vuole, il quale comanda e
nello stesso tempo si fa tutt'uno con l'esecutore, e, come tale,
assapora al tempo stesso il trionfo sulle resistenze, ma giudica
in cuor suo che sia la sua volontà ad averle propriamente
superate. In tal modo, colui che vuole aggiunge le sensazioni di
piacere degli efficaci strumenti esecutivi, delle servizievoli
'volontà inferiori' o anime inferiori - il nostro corpo non è che
un'organizzazione sociale di molte anime - al suo senso di piacere
come essere che comanda. "L'effet c'est moi": avviene, in questo
caso, quel che si verifica in ogni comunità ben costruita e
felice, l'identificazione cioè della classe governante con i
successi della comunità. In ogni volere si tratta assolutamente di
comandare e obbedire, sulla base, come si è detto, di
un'organizzazione sociale di molte 'anime': per la qual cosa un
filosofo dovrebbe arrogarsi il diritto di ricomprendere il volere
in s‚ già nell'orizzonte della morale: una morale, cioè intesa
come dottrina dei rapporti di supremazia sotto i quali prende
origine il fenomeno 'vita'.20. Che i singoli concetti filosofici non siano niente di
arbitrario, niente che si sviluppi di per s‚, bensì concrescano in
reciproca relazione e affinità, che essi, per quanto
apparentemente compaiano nella storia del pensiero all'improvviso
e a capriccio, rientrino in un sistema, allo stesso modo di tutti
i membri della fauna di una parte della terra: tutto ciò si
rivela, infine, anche nella sicurezza co cui i filosofi più
diversi continuano sempre a riempire un certo schema fondamentale
di "possibili" filosofie. Alla merc‚ di un invisibile incantesimo,
sempre di nuovo essi ripercorrono ancora una volta la stessa
orbita: continuino pure a sentirsi così indipendenti l'uno
dall'altro con la loro volontà critica o sistematica, c'è pur
sempre un qualcosa, in essi, che li conduce, un qualcosa che li
incalza, in un determinato ordine, l'uno dopo l'altro, appunto
quella innata sistematica e affinità dei concetti. Il loro pensare
è in realtà molto meno uno scoprire che un rinnovato conoscere, un
rinnovato ricordare, un procedere a ritroso e un rimpatriare in
una lontana, primordiale economia complessiva dell'anima, da cui
quei concetti sono germogliati una volta: in questo senso
filosofare è una specie d'atavismo di primissimo rango. La
prodigiosa somiglianza di famiglia, propria di ogni filosofare
indiano, greco, tedesco, si spiega in modo abbastanza semplice.
Proprio laddove si presenta un'affinità di linguaggio è del tutto
inevitabile che, grazie alla comune filosofia della grammatica -
grazie, voglio dire, al dominio e alla guida inconsapevoli,
realizzati da analoghe funzioni grammaticali - tutto sia
predisposto, sin dall'inizio, per uno sviluppo e una successione
omogenea dei sistemi filosofici: così come pare quasi sbarrata la
via a certe diverse possibilità d'interpretazione del mondo.
Filosofi dell'area linguistica uralo-altaica (nella quale il
concetto di soggetto ha avuto un assai scarso sviluppo) avranno
con grande probabilità un diverso sguardo 'sul mondo' e si
dovranno trovare su sentieri diversi da quelli degli Indogermani o
dei Musulmani: l'incantesimo di determinate funzioni grammaticali
è in definitiva l'incantesimo di "fisiologici" apprezzamenti di
valore e di condizionamenti razziali. - Tanto andava detto per
respingere la superficialità lockiana in ordine all'origine delle
idee.21. La "causa sui" è la maggiore autocontraddizione che sia stata
concepita fino a oggi, una specie di stupro e d'innaturalità della
logica: ma lo sfrenato orgoglio dell'uomo l'ha portato al punto di
irretirsi profondamente e orribilmente proprio in quest'assurdità.
Il desiderio del 'libero volere', in quel metafisico intelletto
superlativo, quale purtroppo continua sempre a signoreggiare nelle
teste dei semidotti, il desiderio di portare in se stessi l'intera
e ultima responsabilità per le proprie azioni e di esimere da essa
Dio, mondo, progenitori, caso, società, equivale infatti ad essere
appunto nientemeno che quella "causa sui" e a tirare per i capelli
se stessi dalla palude del nulla all'esistenza con una temerità
più che alla Mnchhausen. Posto che qualcuno, in tale modo,
venisse a scoprire la rozza scempiaggine di questo famoso concetto
del libero volere e lo cancellasse dalla sua mente, ormai lo
pregherei di fare ancora un altro passo avanti e di cancellare
dalla sua mente anche il rovescio di quel concetto di 'libero
volere': voglio dire il 'non libero volere', che procede da un
abuso di causa ed effetto. Non bisogna erroneamente "reificare"
'causa' ed 'effetto', come fanno i naturalisti (e chi,
analogamente a loro, naturalizza teoreticamente), in conformità
alla meccanicistica buaggine dominante, secondo la quale la causa
preme e spinge fino a 'determinare l'effetto'; occorre servirsi
appunto della 'causa' e dell''effetto' soltanto come di meri
"concetti", cioè di finzioni convenzionali destinate alla
connotazione, alla intellezione, "non" già alla spiegazione.
Nell''in s‚' non esistono 'collegamenti causali', 'necessità',
'non libertà psicologiche', poiché‚ in questo campo 'l'effetto'
"non" consegue 'dalla causa' e non vige alcuna 'legge'. Siamo
"noi" soltanto ad avere immaginosamente plasmato le cause, la
successione e la funzionalità di una cosa rispetto all'altra, la
relatività, la costrizione, il numero, la norma, la libertà, il
motivo, lo scopo; e se foggiamo e infondiamo nelle cose questo
mondo di segni come un 'in s‚', operiamo in ciò ancora una volta
come abbiamo sempre operato, cioè in "maniera mitologica". Il
'volere non libero' è mitologia: nella vita reale si tratta
soltanto di "forte" e "debole" volere. E' già quasi sempre un
indizio del difetto di questo stesso volere il fatto che un
pensatore in ogni 'connessione causale' e 'necessità psicologica'
avverta ormai una specie di costrizione, di angustia, di
inevitabile condizionamento, d'oppressione, di non libertà:
proprio sentire in questo modo è qualcosa di rivelatore, la
persona si tradisce. E se le mie osservazioni sono giuste, in
generale la 'non libertà del volere' viene intesa come problema da
due parti radicalmente opposte, anche se sempre in una guisa
profondamente "personale": gli uni non vogliono a nessun costo
abbandonare la loro 'responsabilità', la fede in "se stessi", il
loro personale diritto al "proprio" merito (appartengono a questa
parte le razze boriose ); gli altri, viceversa, non vogliono
alcuna responsabilità, n‚ aver colpa di nulla e desiderano,
traendo questo loro atteggiamento da un intimo disprezzo per se
stessi, di poter "togliere di mezzo" se stessi in una direzione
purchessia. Questi ultimi, quando scrivono libri, sono soliti oggi
assumersi la difesa dei delinquenti; una specie di compassione
socialista è il loro travestimento più gradito. E in realtà il
fatalismo dei volitivamente deboli si abbellisce sorprendentemente
quando sa insinuarsi come 'la religion de la souffrance humaine':
è questo il suo 'buon gusto'.22. Mi si faccia venia, come vecchio filologo che non può esimersi
dalla malizia di riveder le bucce a certe cattive arti
interpretative: ma quella 'normatività della natura', di cui voi
fisici parlate con tanta prosopopea come se - - esistesse soltanto
grazie alle vostre spiegazioni e alla vostra cattiva 'filologia',
non è un dato di fatto, un 'testo', ma piuttosto soltanto un
riassetto e una distorsione di senso ingenuamente umanitari, con
cui venite abbastanza incontro agl'istinti democratici dell'anima
moderna! 'Ovunque uguaglianza di fronte alla legge - in ciò la
natura non si trova in condizioni diverse o migliori delle
nostre': un grazioso espediente mentale con cui si maschera,
ancora una volta, a guisa di un secondo e più sottile ateismo,
l'ostilità dei plebei per tutto quanto è privilegiato e sovrano.
'Ni Dieu ni maŒtre' lo volete anche voi: e allora 'evviva la
legge di natura!' non è vero? Ma, come già si è detto, questa è
interpretazione, non testo; e potrebbe venire qualcuno che con
un'intenzione e un'arte interpretativa diametralmente opposte
sapesse desumere dalla lettura della stessa natura e in relazione
agli stessi fenomeni proprio una affermazione, dispoticamente
spregiudicata e spietata, di rivendicazioni di potenza, - un
interprete che vi mettesse sotto gli occhi la perentorietà e
l'assolutezza insite in ogni 'volontà di potenza', in modo tale
che quasi ogni parola e persino quella di 'tirannide' apparirebbe
in conclusione inutilizzabile oppure già una pallida e blanda
metafora una parola troppo umana; e che tuttavia finirebbe per
affermare su questo mondo la stessa cosa che affermate voi, cioè
che esso ha un suo corso 'necessario' e 'calcolabile', ma "non
già" Perchè in esso imperano norme, bensì Perchè le norme
"mancano" assolutamente e ogni potenza in ogni momento trae la sua
estrema conseguenza. Posto poi che anche questa fosse soltanto
un'interpretazione - e voi sareste abbastanza solleciti da
obiettarmi ciò - ebbene, tanto meglio.23. Tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a
pregiudizi e apprensioni morali: essa non ha osato scendere nel
profondo. Concepirla come morfologia e "teoria evolutiva della
volontà di potenza", come io la concepisco: questo non è stato da
nessuno neppure sfiorato col pensiero: stando al fatto, cioè, che
ci è consentito di riconoscere, in quel che finora è stato
scritto, un indizio di quel che finora è stato taciuto. Il potere
dei pregiudizi morali è penetrato a fondo nel mondo più
intellettuale, in apparenza più freddo e più scevro di presupposti
e, come è facile comprendere, in maniera nociva, inibitoria,
accecante e distorcente. Una peculiare fisio-psicologia deve
lottare con resistenze incoscienti poste nell'animo
dell'indagatore, essa ha il 'cuore' contro di s‚: già una dottrina
del vicendevole condizionamento dei 'buoni' e dei 'cattivi'
istinti provoca, come più sottile immoralità, in una coscienza
vigorosa e impavida, pena e disgusto, - più ancora una dottrina
della derivabilità di tutti gli istinti buoni da quelli cattivi.
Posto invece che qualcuno assuma addirittura le passioni
dell'odio, dell'invidia, della cupidigia, della brama di dominio
come qualcosa di fondamentalmente e originariamente indispensabile
alla complessiva economia della vita, qualcosa che deve quindi
ulteriormente potenziarsi ove la vita debba essere ulteriormente
potenziata - in questo caso egli soffrirebbe di un simile
orientamento del suo giudizio come di un mal di mare. Eppure anche
quest'ipotesi non è di gran lunga la più penosa e la più bizzarra
in questo sterminato regno, quasi ancora nuovo, di pericolose
conoscenze: - ed esistono, in realtà, cento buone ragioni Perchè
ognuno se ne resti lontano, se... "può"! D'altro canto: se ci si è
spinti fin qui con la nostra nave, ebbene! avanti! stringendo ora
i denti da prodi! gli occhi ben aperti! la mano salda sul timone!
- navighiamo, lasciandoci risolutamente "dietro" la morale,
calpestiamo, schiacciamo forse, così facendo, i nostri stessi
residui di moralità, mentre compiamo e osiamo il nostro viaggio
laggiù - ma che c'importa di "noi"! Mai sino ad oggi un "più
profondo" mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e
avventurieri temerari, e lo psicologo in tal modo 'compie il
sacrificio' - "non" il "sacrifizio dell'intelletto" (11), al
contrario! potrà per lo meno pretendere che la psicologia sia
nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e alla
preparazione della quale è destinata l'esistenza delle altre
scienze. La psicologia infatti è ormai di nuovo la strada per i
problemi fondamentali.