Al di là del bene e del male

Friedrich Nietzsche

CAPITOLO SESTO.
NOI DOTTI.

204. A rischio che anche in questo caso il moralizzare si dimostri
quel che sempre è stato, vale a dire un intrepido "montrer ses
plaies", come dice Balzac -, mi piacerebbe osare di oppormi a uno
sconveniente e dannoso squilibrio gerarchico, quale è quello che
oggi, in maniera del tutto inavvertita e quasi con tranquilla
coscienza, minaccia di porsi tra scienza e filosofia. Sulla base
della propria "esperienza" - ed esperienza, a quel che vedo, non
significa forse sempre brutta esperienza? - penso si debba avere
il diritto di prendere la parola a proposito di una tale superiore
questione di rango: affinchè non si parli "contro" la scienza allo
stesso modo dei ciechi quando discutono sul colore, o come le
donne e gli artisti ('ah, questa scienza birbona!' - sospira il
loro istinto e il loro pudore - 'che scopre sempre gli
"altarini"!' ). La dichiarazione d'indipendenza dell'uomo di
scienza, la sua emancipazione dalla filosofia è una delle più
sottili ripercussioni dell'ordine e del disordine democratico:
l'autoglorificarsi e l'insuperbirsi del dotto sono oggi ovunque in
pieno rigoglio e nella loro miglior primavera - con la qual cosa
non può ancora dirsi che in questo caso tale lode di se stesso
abbia un profumo gradevole. 'Via tutti i signori!' - così vuole
l'istinto della plebaglia; e dopo essersi difesa con esito
fortunatissimo dalla teologia, di cui è stata troppo a lungo
l''ancella', la scienza ora, nella sua assoluta tracotanza e
sconsideratezza, tende a dettar legge alla filosofia e a fare
anche lei, una buona volta, da 'padrona' - ma che dico! - a
filosofeggiare. La mia memoria - la memoria, con il vostro
permesso, di un uomo di scienza - rigurgita delle presuntuose
scempiaggini che ho sentito dire dai giovani naturalisti e dai
vecchi medici riguardo alla filosofia e ai filosofi (per non
parlare dei più addottrinati e briosi tra tutti i dotti, i
filologi e i pedagoghi, che hanno queste due qualità per
professione). Talvolta era lo specialista, chi se ne sta
rincantucciato in un angolo, a mettersi istintivamente sulla
difensiva in genere contro tutti i compiti e le incapacità
sintetiche; talaltra il diligente operaio che aveva fiutato odore
di "otium" e di aristocratica prosperità nell'economia spirituale
dei filosofi e si vedeva con ciò danneggiato e immeschinito.
Talaltra era quell'acromatopsia dell'uomo utilitario, il quale
nella filosofia altro non vede se non una serie di sistemi
"confutati" e una prodiga magnificenza che non 'serve' a nessuno.
Altre volte ecco balzar fuori ora il timore di un camuffato
misticismo e di una delimitazione di frontiere della conoscenza;
ora il disprezzo di alcuni filosofi che si era arbitrariamente
generalizzato in dispregio per la filosofia. Più spesso, infine,
trovai nei giovani dotti, sotto la superba svalutazione della
filosofia, addirittura la ripercussione negativa di un filosofo, a
cui in verità si era rifiutata in blocco l'obbedienza, senza
tuttavia essersi sottratti al potere delle sue sdegnose
valutazioni di altri filosofi - con il risultato di una
disposizione d'animo totalmente ostile verso ogni filosofia. (Di
questo tipo mi sembra essere, a esempio, l'influsso esercitato da
Schopenhauer sulla Germania moderna - con il suo sciocco furore
contro Hegel è riuscito a estromettere l'intera ultima generazione
dal rapporto con la cultura tedesca, la quale cultura, tutto
considerato, ha rappresentato un culmine e un affinamento
divinatorio del "senso storico"; ma proprio su questo punto lo
stesso Schopenhauer era povero, non recettivo, non tedesco fino
alla genialità). In generale, calcolando a grandi linee, può darsi
che sia stato soprattutto l'umano troppo umano, la stessa
miseria, insomma, dei filosofi moderni quel che ha radicalmente
pregiudicato la venerazione per la filosofia e ha spalancato la
porta all'istinto della plebaglia. Si confessi dunque a noi stessi
fino a che punto il nostro mondo moderno senta la mancanza di
tutta una stirpe di filosofi come Eraclito, Platone, Empedocle, o
comunque si siano chiamati tutti questi regali e splendidi
anacoreti dello spirito: e con quanto buon diritto, di fronte a
rappresentanti della filosofia del genere di quelli che oggi,
grazie alla moda, sono tanto sulla cresta dell'onda quanto
ritenuti men che nulla, - in Germania, per esempio, i due leoni di
Berlino, l'anarchico Eugen Dhring e l'amalgamista Eduard von
Hartmann - "sia lecito" a un onest'uomo di scienza sentirsi di
migliore lignaggio. E' particolarmente la vista di quei filosofi
del guazzabuglio, che si fanno chiamare 'filosofi della realtà', o
'positivisti', a suscitare una pericolosa diffidenza nell'animo di
un giovane dotto ambizioso; anzi, nel migliore dei casi, sono
anche loro dei dotti e degli specialisti, lo si può toccar con
mano! - sono precisamente tutti quanti dei vinti, uomini
"ricondotti" sotto la sovranità della scienza, essi che una volta,
chissà quando, hanno voluto da se stessi "un di più", senza avere
il diritto a questo "di più" e alla sua responsabilità - mentre
oggi, in maniera rispettabile, rabbiosa, vendicativa, impersonano
con la parola e con l'azione "l'incredulità" riguardo al compito
di reggitrice e alle prerogative sovrane della filosofia. Ma in
fin dei conti, come potrebbe essere diversamente! Attualmente
prospera la scienza e ha i larghi segni sul viso della tranquilla
coscienza, mentre ciò in cui è gradualmente affondata l'intera
filosofia moderna, questi rimasugli filosofici di oggi, suscitano
diffidenze e malumore, se non addirittura irrisione e pietà. La
filosofia ridotta a 'teoria della conoscenza', di fatto, però,
nulla più che una timida epochistica e una dottrina
dell'astinenza: una filosofia che non sa varcare la soglia e
"ricusa" meschinamente a se stessa il diritto d'accesso - una
filosofia, questa, prossima ad esalare l'ultimo respiro, una fine,
un'agonia, qualcosa che muove a compassione. In che modo mai una
siffatta filosofia potrebbe - "dominare"!

205. I pericoli inerenti allo sviluppo del filosofo sono oggi in
verità così molteplici che si potrebbe dubitare se in generale
questo frutto possa ancora giungere a maturazione. La vastità
delle scienze - la torre che la scienza va costruendo - è
smisuratamente aumentata, e con ciò anche la probabilità che il
filosofo già come discente si stanchi, o si lasci inchiodare in
qualche luogo e si abbandoni alla 'specializzazione': sì che non
perverrà più alla sua vetta, vale a dire a guardar dall'alto,
tutto all'intorno e "sotto di s‚". Oppure si arriverà troppo
tardi, quando il suo tempo e la sua energia migliore saranno già
passati; o vi arriverà danneggiato, reso più grossolano,
degenerato, sicch‚ il suo sguardo, il suo complessivo giudizio di
valore avranno sempre meno significato. E' proprio l'affinamento
della sua coscienza intellettuale a farlo forse esitare e
indugiare nel cammino; egli teme la seduzione del dilettante, del
mille piedi e del milletentacoli, lo sa fin troppo bene che chi ha
perduto il rispetto di se stesso anche come uomo della conoscenza
non comanda più, non "guida" più; a ogni modo sarebbe costretto a
voler diventare il grande commediante, un Cagliostro della
filosofia e un accalappiatore degli spiriti, insomma un seduttore.
In fondo questa è una questione di gusto: ove non fosse una
questione di coscienza. A raddoppiare ancora una volta la
difficoltà del filosofo si aggiunga inoltre che egli pretende da
s‚ un giudizio, un sì o un no non tanto sulla scienza, quanto
invece sulla vita e sul valore della vita - e mal si lascia
persuadere d'avere un diritto e anzi un dovere a questo giudizio,
e deve mettersi alla ricerca di quel suo diritto e di quella
convinzione solo dopo essere venuto a capo di vaste esperienze
forse perturbatrici e disgreganti e spesso non senza molti
indugi, perplessità e caparbi silenzi. In realtà la massa ha per
lungo tempo fatto confusione sul filosofo e lo ha disconosciuto,
sia che lo prendesse per un uomo di scienza e per un dotto ideale,
sia che lo scambiasse con un fanatico e un ebbro di Dio, nella sua
religiosa altezza, morto ai sensi e 'smondanizzato': e se anche
oggigiorno si sente lodare qualcuno Perchè vive 'da saggio' o
'come un filosofo', ciò a un dipresso significa nulla più che
'prudente e appartato'. Saggezza: per la plebe sembra essere una
sorta di fuga, un mezzo e una gherminella per cavarsela a buon
mercato da un giuoco cattivo; ma il vero filosofo non è così "per
noi", amici miei? - vive in guisa 'non filosofica' e 'non saggia',
soprattutto "imprudente", e sente il peso e il dovere di cento
esperimenti e di cento tentazioni di vita e mette continuamente a
repentaglio "se stesso", giuoca il suo giuoco cattivo...

206. In rapporto al genio, vale a dire una natura che "genera"
oppure "mette alla luce", prendendo questi due termini nella loro
massima estensione -, il dotto, l'uomo medio della scienza, ha
sempre qualcosa della vecchia zitella: giacché‚ al pari di questa
egli non ha la minima idea di queste due preziosissime
realizzazioni umane. In realtà si riconosce a entrambi, al dotto e
alla vecchia zitella, quasi a titolo d'indennizzo, la
rispettabilità - si sottolinea, in questi casi, la rispettabilità
- e anche all'esser costretti a un tale riconoscimento si aggiunge
la stessa dose di fastidio. Ma guardiamo con maggior precisione:
che cos'è l'uomo di scienza? Innanzitutto un tipo tutt'altro che
nobile di uomo, con le virtù di un tipo umano privo di nobiltà,
cioè non dominatore, non autoritario e neppure autosufficiente:
costui possiede l'operosità, la pazienza della sistemazione
ordinata, regolarità e misura nelle sue facoltà e nei suoi
bisogni, possiede l'istinto dei suoi simili e di ciò che ai suoi
simili occorre, per esempio quel tanto d'indipendenza e di verde
pascolo senza il quale non esiste la tranquillità necessaria per
un lavoro, quella pretesa all'onore e al riconoscimento (che
presuppone in primo luogo e soprattutto la conoscenza e capacità
di essere riconosciuto), quella solare chiarità di un buon nome,
quella costante conferma del suo valore e della sua utilità, con
cui occorre sempre di nuovo superare l'intima "diffidenza", ciò
che resta in fondo al cuore di tutti gli uomini posti in
condizioni di dipendenza e di tutte le bestie da armento. Il dotto
ha, come è logico, anche le malattie e i vizi di una schiatta
volgare: è ricco di piccole invidie, e per quanto v'è di basso in
quelle nature alle cui altezze egli non può elevarsi ha un occhio
di lince. E' aperto alla confidenza, ma soltanto come uno che si
lascia andare e non già "scorrere come fiumana", e proprio dinanzi
all'uomo dal grande flusso il suo atteggiamento è tanto più freddo
e riservato - il suo occhio è allora come un liscio ripugnante
lago in cui non v'è la minima increspatura di un trasporto
interiore, di una partecipazione emotiva. Le cose peggiori e più
pericolose, di cui un dotto è capace, gli derivano dall'istinto
della mediocrità tipica della sua specie: da quel gesuitismo della
mediocrità, che istintivamente lavora alla demolizione dell'uomo
d'eccezione e cerca di infrangere, o - meglio ancora! - di
allentare ogni arco teso. Allentare, cioè, con riguardo e con mano
delicata, naturalmente - "allentare" con confidenziale pietà: è
questa la caratteristica arte del gesuitismo, che ha saputo sempre
insinuarsi come la religione della pietà.

207. Per quanto si possa con animo grato muoversi incontro allo
spirito "oggettivo" - e chi non è mai stato almeno una volta
sazio, fino a morirne, di tutto il soggettivo e della sua
maledetta ipsissimosità? - si deve infine imparare a esser cauti
anche verso la propria gratitudine e porre un freno alla
esagerazione con cui la rinuncia al proprio io e lo
spersonalizzarsi dello spirito vengono celebrati in questi ultimi
tempi quasi come una meta in s‚, come una redenzione e una
trasfigurazione: ciò suole avvenire segnatamente entro la scuola
dei pessimisti, che ha anche buone ragioni per tributare dal canto
suo altissimo onore al 'conoscere disinteressato'. L'uomo
oggettivo, che non impreca e non inveisce più come il pessimista,
il dotto "ideale" in cui l'istinto scientifico, dopo mille
completi e parziali insuccessi, attinge infine il suo apogeo e il
suo tramonto, è indubbiamente uno dei più preziosi strumenti
esistenti: ma è nelle mani di qualcuno più potente. E' soltanto
per così dire uno strumento: uno "specchio" - non già 'scopo a se
stesso'. Realmente l'uomo oggettivo è uno specchio; abituato
soprattutto a sottomettersi a quel che vuole essere conosciuto,
senza alcun piacere oltre a quello che gli procura il conoscere,
il 'rispecchiare' - egli attende che qualche cosa sopraggiunga per
distendersi delicatamente, affinchè anche i passi leggeri e lo
scivolare fugace di esseri spettrali sulla sua superficie non
vadano perduti. Quel che ancora gli resta della 'persona', gli
sembra casuale, spesso arbitrario, ancor più spesso molesto: tanto
è divenuto a se stesso un passaggio e un riflesso di figure e di
avvenimenti estranei. Non di rado, a furia di sforzi, ritorna col
pensiero a 'se stesso', ma in maniera sbagliata; è facile che si
scambi per un altro, cade in errore sulle sue proprie urgenti
necessità e soltanto in questo egli è rozzo e trascurato. Lo
tormenta forse la salute, o la meschinità e una certa aria di
chiuso nella moglie e nell'amico, oppure la mancanza di sodali e
di una compagnia - sì, egli si sforza di riflettere sulle sue
afflizioni, ma inutilmente! già il suo pensiero si perde divagando
verso il caso più "generale" e l'indomani saprà tanto poco come lo
sapeva ieri in che modo gli si dovrebbe dare aiuto. Ha perduto la
serietà per se stesso e anche il tempo; è sereno, "non" per
assenza di tribolazioni, ma Perchè gli mancano dita e possibilità
tattili per le "proprie angustie". La consueta condiscendenza per
ogni cosa e ogni esperienza, l'allegra e schietta ospitalità con
cui accoglie tutto ciò in cui si imbatte, la sua specie di
irriguardosa benevolenza, di pericolosa indifferenza per il sì e
per il no: ah, ci sono molti casi in cui egli deve pagar caro
queste sue virtù! - e soprattutto come uomo, fin troppo facilmente
egli diventa il "caput mortuum" di queste virtù. Se si vuole da
lui amore e odio, amore e odio - voglio dire - come lo intende
Dio, la femmina e l'animale -: egli farà quel che può, e darà quel
che può. Ma non ci si deve far meraviglia, se non è molto - se
precisamente in ciò egli si mostra inautentico, fragile, precario
e facilmente sfaldabile. Il suo amore è voluto, il suo odio è
artificiale e piuttosto un "tour de force", una piccola vanità ed
esagerazione. Egli è appunto autentico soltanto nella misura in
cui gli è consentito essere oggettivo: soltanto nel suo sereno
amore per la totalità egli è ancora 'natura' e 'naturale'. La sua
anima rispecchiante ed eternamente levigantesi non sa più
affermare, non sa più negare; egli non dà ordini e neppure
distrugge. 'Je ne m‚prise presque rien' - dice con Leibniz: non si
trascuri e non si sottovaluti questo "presque"! Non è neppure un
uomo modello; non v'è nessuno che egli preceda o segua; si colloca
in generale troppo lontano per aver motivo di prendere posizione
tra il bene e il male. Se così a lungo lo si è scambiato con "il
filosofo", con l'educatore cesareo e il violentatore della
cultura, gli si è tributato un troppo alto onore e non si è fatto
caso a quel che v'è di più sostanziale in lui - egli è uno
strumento, un bell'esemplare di schiavo, se non addirittura
senz'altro la sua specie più sublime, senza essere tuttavia in se
stesso nulla - "presque rien"! L'uomo obiettivo è uno strumento,
uno strumento di misura e uno specchio artisticamente lavorato,
prezioso, delicato e facilmente offuscabile, che si deve trattare
con cura e con ogni onore; ma non è una meta, un risultato e
un'ascesa, un uomo complementare, in cui si giustifica la
"restante" esistenza, un epilogo e ancor meno un cominciamento,
una generazione e una causa prima, non è nulla di compatto, di
possente, di riposante sopra se medesimo, che voglia
signoreggiare: è piuttosto soltanto un vaso dalle forme
delicatamente soffiate, sottili e volubili, il quale deve
soprattutto attendere una qualche specie di contenuto per prender
'forma' secondo quest'ultimo - egli è di solito un uomo senza
alcun contenuto di nessuna sorta, un uomo 'senza se stesso'. Di
conseguenza anche per le donne è un nulla, "in parenthesi". -

208. Se oggi un filosofo volesse dare a intendere di non essere
uno scettico - spero che si sarà già compreso ciò, ponendo mente
alla descrizione test‚ fatta dello spirito oggettivo - sarà, a
udirsi, poco gradevole a tutti, lo si sogguarderà con una certa
soggezione, molte saranno le domande che gli si vorrebbero
porre... anzi, tra gli ascoltatori timorosi, come ce ne sono oggi
nella massa, a partire da quel momento verrà definito pericoloso.
Avranno quasi la sensazione di avvertire in lontananza, in quel
suo rifiuto dello scetticismo, una specie di brontolio cattivo e
minaccioso, come se si stesse sperimentando, chissà dove, una
nuova sostanza esplosiva, una dinamite dello spirito, forse una
nichilina russa di recente scoperta, un pessimismo "bonae
voluntatis", che non si limita a dire no, a volere semplicemente
il no, ma anzi - orribile a pensarsi! - lo "realizza". Contro
questa specie di 'buona volontà' - la volontà di una reale,
effettiva negazione della vita - non esiste oggi, a detta di
tutti, alcun altro narcotico e sedativo all'infuori dello
scetticismo, il dolce, amabile, papaveraceo scetticismo; e persino
Amleto viene oggigiorno prescritto dai medici del tempo contro lo
'spirito' e il suo sotterraneo rumoreggiare. 'Non abbiamo già
sature le orecchie di rumori sgradevoli?' dice lo scettico, da
quell'amico della tranquillità, da quella specie, quasi, di agente
di pubblica sicurezza che è: 'Questo no sotterraneo è
terrificante! Zittitevi una buona volta, talpe del pessimismo!'.
Il fatto è che lo scettico, questa delicata creatura, si spaventa
anche troppo facilmente; la sua coscienza ha imparato a sussultare
a ogni no, anzi perfino a ogni risoluto e duro sì e a sentirsi
come rimordere. Sì! e no! - questo è per lui contrario alla
morale; viceversa egli ama festeggiare la sua virtù con la nobile
astensione, dicendo, a esempio, con Montaigne: 'E che ne so io?'.
Oppure con Socrate: 'So di non sapere'. Oppure: 'Qui non mi fido,
qui non vedo aperta nessuna porta'. Oppure: 'A che servono tutte
le ipotesi premature? Fare assolutamente a meno di ipotesi
potrebbe benissimo essere conveniente al buon gusto. Dovete
proprio in tutti i modi raddrizzare immantinente quel che è
storto? Tappare a tutti i costi ogni buco con uno stoppaccio
qualsiasi? Non c'è forse tempo per questo? Non ha forse tempo il
tempo? Indemoniati che siete, non potete proprio assolutamente"
aspettare"? Anche l'incerto ha le sue attrattive, anche la Sfinge
è una Circe, anche la Circe figurava tra i filosofi'. - Così si
consola uno scettico; ed è vero che un qualche conforto gli è
necessario. Lo scetticismo, infatti, è l'espressione più
spirituale di una certa multiforme condizione fisiologica, che nel
linguaggio comune va sotto il nome di astenia nervosa e
costituzione malaticcia; essa si sviluppa ogni qual volta razze o
ceti, a lungo divisi tra loro, s'incrociano risolutamente e
all'improvviso. Nella nuova generazione che ereditariamente
accoglie nel suo sangue misure e valori diversi, tutto è
inquietudine, fastidio, dubbio, tentativo: le forze migliori
esercitano un'azione inibitoria, le virtù si ostacolano
reciprocamente nel loro sviluppo e nel loro rafforzamento, nel
corpo e nell'anima si sente una mancanza d'equilibrio, di forza di
gravità, di perpendicolare sicurezza. Ma quel che in tali ibride
creature si ammala e degenera quanto mai gravemente, è la volontà:
costoro non conoscono più assolutamente l'indipendenza nella
decisione, il senso di piacere che i forti provano nell'esercizio
della "volontà" - esse dubitano della 'libertà del volere'
sinanche nei loro sogni. La nostra Europa di oggi, teatro di un
tentativo, assurdamente improvviso, vòlto a mescolare radicalmente
le classi e "per conseguenza" le razze, è, per questa ragione,
scettica a ogni livello, alto o basso che sia, ora di quel
volubile scetticismo che balza impaziente e cupido di ramo in
ramo, ora invece mostrando un aspetto torvo come quello di una
nube sovraccarica di punti interrogativi ed è spesso sazia fino
alla morte del suo volere! Paralisi della volontà: dove mai oggi
non si trova accoccolata questa storpia! E spesso com'è azzimata
per giunta! E in che maniera seducente s'è fatta bella! Ci sono i
più bei vestiti di gala e di menzogna per questa malattia; e del
fatto che oggi quel che si mette in bella mostra come oggettività,
'scientificità', 'l'art pour l'art', 'puro conoscere scevro di
volontà' sia imbellettato scetticismo e paralisi della volontà -
di questa diagnosi del male europeo voglio farmene garante io. La
malattia della volontà non si è diffusa sull'Europa in guisa
uniforme: si manifesta con maggiore imponenza e molteplicità
d'aspetti laddove la cultura è già da lunghissimo tempo di casa,
scompare, invece, nella misura in cui 'il barbaro' persiste o
torna a rivendicare il suo diritto sotto le vesti ciondolanti
della propria educazione occidentale. E' infatti nella Francia
contemporanea, come si può altrettanto facilmente inferire quanto
toccare con mano, che la volontà è ammalata in maniera veramente
grave; e la Francia che ha sempre avuto una magistrale abilità nel
trasformare radicalmente i più esiziali rivolgimenti dello spirito
in qualcosa di incantevole e di ammaliante, mostra propriamente
oggi, come scuola ed esposizione di ogni magia della scepsi, la
sua preponderanza culturale sull'Europa. La forza di volere, e di
volere, in verità, a lungo una volontà, è già un po' più
accentuata in Germania, e al nord ancor più che al centro;
notevolmente più vigorosa in Inghilterra, Spagna e Corsica,
connessa, laggiù, alla flemma, quaggiù, invece, a teste dure - per
non parlare dell'Italia, che è troppo giovane per sapere già quel
che vuole, e che deve prima dimostrare se sa volere -, ma è
assolutamente rilevante e sorprendente in quell'immenso impero
intermedio in cui, per così dire, l'Europa rifluisce verso l'Asia,
in Russia. Qui da gran tempo la forza del volere si è raccolta e
accumulata, qui la volontà attende - chissà se come volontà di
negazione o d'affermazione - minacciosamente il momento in cui
verrà scatenata, per mutuare dai fisici contemporanei il loro
termine preferito. Non soltanto potranno rendersi necessarie
guerre in India e complicazioni in Asia, affinchè l'Europa venga
liberata dal peso del suo più grande pericolo, ma occorreranno
rovesci interni, lo smembramento dell'Impero in piccoli corpi e
soprattutto l'introduzione dell'imbecillità parlamentare, compreso
l'obbligo per ognuno di leggere a colazione il proprio giornale.
Non dico questo auspicandolo: a me starebbe invece a cuore
l'opposto - cioè un tale aumento di minacciosità della Russia, da
far sì che l'Europa si sentisse costretta a decidere di divenire
anch'essa egualmente minacciosa, di "acquisire", cioè, "una
volontà unica", merc‚ l'intervento di una nuova casta dominante
sopra l'Europa, di una durevole, tremenda volontà propria, in
grado di proporsi mete al di là dei millenni - affinchè finalmente
la commedia, protrattasi anche troppo, della sua congerie di
staterelli nonch‚ la molteplicità dei suoi velleitarismi dinastici
e democratici giunga infine a un epilogo. E' passato il tempo
della piccola politica: già il prossimo secolo porterà con s‚ la
lotta per il dominio della terra la "costrizione" alla grande
politica.

209. In che senso la nuova età guerriera, in cui noi Europei siamo
manifestamente entrati, possa essere favorevole, forse, anche allo
sviluppo di una specie diversa e più vigorosa di scetticismo, non
saprei esprimerlo in questo momento se non mediante un'immagine,
la quale sarà ben compresa dagli amici della storia tedesca.
Quello spregiudicato entusiasta dei magnifici, aitanti granatieri,
che, come re di Prussia, dètte vita ad una genialità militare e
scettica - e al tempo stesso, in fondo, a quel nuovo tipo tedesco
oggi appunto vittoriosamente affermatosi, - il problematico e
bizzarro padre di Federico il Grande, ebbe su "un unico" punto il
piglio e l'artiglio felice del genio: si era reso conto di ciò che
mancava, allora, in Germania e aveva compreso quale deficienza
fosse cento volte più penosa e opprimente della deficienza, ad
esempio, di cultura e di forma sociale - la sua avversione al
giovane Federico proveniva dal timore suscitatogli da un profondo
istinto. "C'era deficienza di uomini", e con suo amarissimo
rammarico sospettava che il suo stesso figlio non fosse uomo
abbastanza. In ciò s'ingannava; ma chi, al posto suo, non si
sarebbe ingannato? Vedeva suo figlio corrotto dall'ateismo,
dall'"esprit", dalla gaudente spensieratezza dei Francesi - così
ricchi di genialità - scorgeva sullo sfondo il grande succhiatore
di sangue, il ragno dello scetticismo, avvertiva con sospetto
l'immedicabile miseria di un cuore che non è più abbastanza duro
per il male e neppure per il bene, di una volontà infranta, che
non comprende più, n‚ "può" più comprendere. Ma frattanto in suo
figlio andava sviluppandosi quella nuova e più pericolosa specie
di scetticismo chissà "quanto" incoraggiata proprio dall'odio
paterno e dalla gelida melanconia di una volontà plasmatasi nella
solitudine - lo scetticismo della virilità temeraria, che è
strettamente affine al genio della guerra e della conquista e che
fece la sua prima comparsa in Germania prendendo forma nel grande
Federico. Questo scetticismo disprezza e cionondimeno attira a s‚;
scava e prende possesso; non crede in nulla, ma non si perde in
ciò; offre allo spirito una pericolosa libertà, eppure raffrena
severamente il cuore; è la forma "tedesca" dello scetticismo, che
nei modi di una prosecuzione e di un potenziamento spirituale del
federicianesimo ha tenuto un bel pezzo l'Europa sotto la signoria
dello spirito tedesco e della sua diffidenza critica e storica.
Grazie al carattere virile, indomabilmente forte e tenace, dei
grandi filologi e critici storici tedeschi (i quali tutti, se li
si osserva bene, erano altresì artisti della distruzione e della
disgregazione), si stabilì gradualmente e ad onta di ogni
romanticismo, nella musica e nella filosofia, un "nuovo" concetto
dello spirito tedesco in cui emergevano risolutamente i tratti
dello scetticismo virile; sia, ad esempio, come intrepidezza di
sguardo, sia come coraggio e spietatezza di mano nel suo lavoro di
scomposizione, sia come volontà tenace di rischiosi viaggi di
scoperta, di spirituali spedizioni artiche sotto desolati e
perigliosi cieli. Ci saranno state buone ragioni se uomini
umanitari, dal sangue caldo e superficiali, si sono fatti il segno
della croce proprio di fronte a questo spirito: "cet esprit
fataliste, ironique, m‚phistophelique", lo chiama, non senza un
brivido, Michelet. Ma se ci si vuole render conto di quanto sia
caratteristica questa paura di fronte all''uomo' che sta nello
spirito tedesco, ad opera del quale l'Europa venne destata dal suo
'sonno dogmatico', si rammenti l'idea che si aveva un tempo, la
quale dovette essere vinta con questa virilità, e si rammenti come
in un'epoca non molto lontana fu lecito a una donna mascolinizzata
(24) osare, nella sua sfrenata presunzione, di raccomandare
all'interesse dell'Europa i Tedeschi come miti, poetanti
babbuassi, buoni di cuore e fiacchi di volontà. Si comprenderà,
infine, abbastanza a fondo la meraviglia di Napoleone quando gli
accadde di vedere Goethe (25): è una spia di quel che per secoli
si era pensato dello spirito tedesco. 'Voilà un homme!' - il che
voleva dire: 'E' proprio un "uomo"! E io che mi aspettavo soltanto
un tedesco!'.

210. Ammesso dunque che nell'immagine dei filosofi dell'avvenire
un qualche tratto faccia indovinare che dovranno forse essere
degli scettici, nel senso or ora accennato, non si sarebbe
designato in tal modo se non un certo aspetto di costoro e "non
già" essi stessi. Con lo stesso diritto potrebbero essere chiamati
critici; e sicuramente saranno uomini sperimentatori. Attraverso
il nome con cui ho osato battezzarli ho già sottolineato
espressamente l'esperimentare e il piacere dello sperimentare: si
deve ciò al fatto che costoro, critici come sono del corpo e
dell'anima, amano servirsi dell'esperimento in un senso nuovo,
forse più ampio, forse più pericoloso? Forse che essi, nella loro
passione per la conoscenza, devono procedere con uno sperimentare
temerario e doloroso più lontano di quanto possa essere consentito
al gusto tenero e infrollito di un secolo democratico? - Non v'è
dubbio: se non altro, questi uomini prossimi ad apparire non
potranno fare a meno di quelle severe e non innocue
caratteristiche per cui il critico si stacca dallo scettico;
alludo alla sicurezza delle misure di valore, alla cosciente
applicazione di una unità metodica, all'accorto coraggio, allo
stare isolati e al sapersi dare una giustificazione; sì, essi
riconoscono in s‚ un "piacere" nel dire di no e nello smembrare,
nonch‚ una certa accorta crudeltà che sa usare il coltello con
sicurezza ed eleganza, anche quando il cuore sanguini. Saranno
"duri" (e forse non sempre unicamente contro se stessi) più di
quanto uomini umanitari potrebbero augurarsi, non praticheranno la
'verità' Perchè essa 'piaccia' loro o li 'innalzi' e li
'entusiasmi' - sarà invece scarsa la loro persuasione che proprio
la "verità" comporti tali piacevolezze per il sentimento.
Sorrideranno, questi spiriti severi, nel caso che qualcuno dica
dinanzi a loro: 'Quel pensiero mi innalza: come potrebbe non
essere vero?'. Oppure: 'Quell'opera mi incanta: come potrebbe non
essere bella?'. Oppure: 'Quell'artista mi innalza: come potrebbe
non essere grande?' - e forse non soltanto un sorriso, ma anche un
autentico disgusto affiorerà subito in loro per tutto quanto è
fantastico, idealistico, femmineo, ermafrodita a questo modo, e
chi sapesse seguirli fin nella segreta stanza del loro cuore
difficilmente vi troverebbe l'intenzione di conciliare 'sentimenti
cristiani' con il 'gusto antico' o forse addirittura col
'parlamentarismo moderno' (mentre un siffatto spirito
conciliativo, nel nostro secolo assai incerto e quindi assai
conciliante, lo si può rinvenire persino nei filosofi). Questi
filosofi dell'avvenire non si limiteranno a esigere da se stessi
una disciplina critica, nonch‚ ogni consuetudine che conduca alla
purezza e al rigore nelle cose dello spirito: potrebbero altresì
ostentarle come la loro specie di ornamento - sebbene non per
questo vorranno assumere il nome di critici. Non sembrerà loro
irrilevante il disdoro che si getta addosso alla filosofia, quando
si sentenzia, come accade spesso e volentieri oggigiorno: 'La
filosofia in se stessa è critica e scienza critica e nulla più!'.
Per quanto questa valutazione della filosofia possa rallegrarsi
del plauso di tutti i positivisti di Francia e di Germania (e
potrebbe anche darsi che avrebbe lusingato il cuore e il gusto di
Kant: si pensi al titolo delle sue opere principali), i nostri
nuovi filosofi diranno: i critici sono strumenti dei filosofi e
appunto perciò, in quanto strumenti, sono ancora ben lontani
dall'essere essi stessi filosofi! Anche il grande cinese di
K”nigsberg era soltanto un grande critico. -

211. Insisto nel dire che si cessi finalmente dallo scambiare per
filosofi gli operai della filosofia e soprattutto gli uomini di
scienza - e che proprio su questo punto si dia rigorosamente 'a
ognuno il suo', e non già troppo a questi, troppo poco a quelli.
Può darsi che per l'educazione del vero filosofo sia necessario
che anche lui si sia arrestato una volta su tutti questi gradini
ai quali i suoi servitori, gli operai scientifici della filosofia,
restano inchiodati - "devono" restare inchiodati; forse deve
essere stato anche lui un critico e uno scettico e un dogmatico e
uno storico, e oltre a ciò un poeta e un raccoglitore e un
viaggiatore e un divinatore di enigmi e un moralista e un veggente
e un 'libero spirito', quasi ogni cosa, per percorrere la cerchia
dei valori e dei sentimenti di valore umani e per "potere"
scrutare dall'alto verso ogni lontananza, dagli abissi verso ogni
altitudine, dal cantuccio verso ogni orizzonte. Ma tutte queste
sono soltanto condizioni preliminari del suo compito: questo
stesso compito vuole qualcosa di diverso - esige che egli "crei"
dei valori. Quegli operai della filosofia, conformi al nobile
modello di Kant e Hegel, devono accertare e ridurre in formole
qualsiasi ampia fattispecie di valutazioni - vale a dire di
antiche "determinazioni" di valori, creazioni di valori, che sono
diventate dominanti e che per un certo tratto di tempo hanno
assunto il nome di 'verità' - sia nel campo della "logica" che in
quello della "politica" (morale) e dell'arte. Spetta a questi
investigatori rendere perspicuo, ben ponderato, palpabile,
maneggevole tutto quanto sino a oggi è accaduto ed è stato oggetto
di valutazione; abbreviare ogni lunghezza, anzi il 'tempo' stesso,
e "soggiogare" l'intero passato: un compito sterminato e
meraviglioso, al servizio del quale ogni sottile orgoglio, ogni
tenace volontà può senz'altro trovare il proprio soddisfacimento.
"Ma i veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano": essi
affermano '"così deve" essere!', essi determinano in primo luogo
il 'dove' e l''a che scopo' degli uomini e così facendo dispongono
del lavoro preparatorio di tutti gli operai della filosofia, di
tutti i soggiogatori del passato - essi protendono verso
l'avvenire la loro mano creatrice e tutto quanto è ed è stato
diventa per essi mezzo, strumento, martello. Il loro 'conoscere' è
"creare", il loro creare è una legislazione, la loro volontà di
verità è - "volontà di potenza". Esistono oggi tali filosofi?
Sono già esistiti tali filosofi? Non "devono" forse esistere tali
filosofi?...

212. Sono sempre più indotto a credere che il filosofo, come uomo
"necessario" del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni
tempo in contraddizione con il suo oggi: il suo nemico fu ogni
volta l'ideale dell'oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori
dell'uomo, ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si
sentirono amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e
pericolosi punti interrogativi - hanno trovato il loro compito, il
loro duro, non voluto, inevitabile compito, e infine la grandezza
del loro compito, nel costituire essi stessi la cattiva coscienza
del loro tempo. Vivisezionando col coltello proprio il cuore delle
"virtù del tempo", tradirono quel che era il loro strano segreto:
conoscere una "nuova" grandezza dell'uomo, una nuova strada non
ancora mai battuta per il suo innalzamento. Essi svelarono ogni
volta quanta ipocrisia e infingardaggine, quanto lasciarsi andare
e lasciarsi cadere, quanta menzogna si nascondesse sotto il tipo
maggiormente venerato della moralità loro contemporanea, quanta
virtù fosse "sopravvissuta" a se stessa; ogni volta essi dissero:
'Dobbiamo arrivare a partire da quel luogo, che oggi è per voi
meno di ogni altro familiare'. Dinanzi a un mondo delle 'idee
moderne', che vorrebbe confinare ognuno in un angolo e in una
'specializzazione', un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse
esistere, sarebbe costretto a porre la grandezza dell'uomo, l'idea
di 'grandezza' proprio nella sua vastità e multiformità, nel suo
essere intero in molte cose: determinerebbe persino il valore e il
rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di
sopportare e di assumere sopra di s‚, a seconda del limite "fino"
al quale uno può tendere la sua responsabilità. Oggigiorno il
gusto e la virtù dell'epoca affievoliscono e assottigliano il
volere, nulla è tanto in armonia con i tempi quanto l'estenuazione
della volontà: nell'ideale del filosofo, quindi, proprio la forza
della volontà, la durezza e la capacità di assumere decisioni
durevoli deve essere parte integrante della nozione di
'grandezza'; con lo stesso buon diritto con cui la dottrina
contraria e l'ideale di un'umanità stupidamente rinunciataria,
umile, altruistica erano commisurati a un'epoca opposta, un'epoca
che, come il secolo sedicesimo, soffriva del suo accumulo di
energia volitiva e delle più furibonde ondate e mareggiate del suo
egoismo. Al tempo di Socrate, tra uomini tutti quanti di istinti
infiacchiti, tra i vecchi Ateniesi conservatori, che si lasciavano
andare - 'verso la felicità', come essi dicevano, verso il
piacere, stando a quel che facevano - e che nello stesso tempo
continuavano ad aver sempre sulle labbra le antiche magniloquenti
parole, alle quali da un pezzo la loro vita non dava più a essi
alcun diritto, era forse necessaria "l'ironia" per la grandezza
dell'anima, quella socratica, maliziosa sicurezza del vecchio
medico e del plebeo, che sezionava spietatamente la sua stessa
carne, come la carne e il cuore dei 'nobili', con uno sguardo il
cui linguaggio sonava in maniera abbastanza perspicua: 'Lasciate
andare le vostre finzioni dinanzi a me! Qui noi siamo uguali!'.
Oggi è tutto l'opposto qui in Europa, dove soltanto l'animale da
armento perviene agli onori e onori distribuisce, dove
l''uguaglianza dei diritti' si potrebbe anche troppo facilmente
trasformare nell'uguaglianza dei torti: intendo dire in una comune
guerriglia contro tutto quanto di raro, d'inconsueto, di
privilegiato appartiene all'uomo superiore, all'anima superiore,
alla superiore responsabilità, alla pienezza creativa della
potenza e all'arte del signoreggiare - oggigiorno si addice alla
nozione di 'grandezza' l'essere nobili, il voler essere per se
stessi, il poter essere diversi, il restarsene isolati e la
necessità di vivere a modo proprio; e il filosofo divinerà
qualcosa del suo proprio ideale, quando stabilirà: 'Più grande tra
tutti sarà colui che può essere il più solitario, il più nascosto,
il più diverso, l'uomo al di là del bene e del male, il signore
delle proprie virtù, ricco quant'altri mai di volontà; questo
appunto deve chiamarsi "grandezza": poter essere tanto multiforme
quanto intero, tanto esteso quanto colmo'. E ancora una volta
domandiamo: è oggi - "possibile" la grandezza?

213. E' difficile imparare che cosa sia un filosofo, non essendo
ciò un qualcosa che possa essere insegnato: lo si deve 'sapere'
per esperienza oppure si deve avere l'orgoglio di "non" saperlo.
Ma la circostanza che oggidì tutti parlino di cose riguardo alle
quali non "possono" avere alcuna esperienza, vale in particolar
modo, disgraziatissimamente, per i filosofi e per gli stati
filosofici - pochissimi li conoscono e possono conoscerli, e tutte
le opinioni al riguardo sono false. Così, per esempio, è ignota
alla maggior parte dei pensatori e dei dotti, dal punto di vista
della loro esperienza, quella coesistenza genuinamente filosofica
di un'ardita, irrefrenabile spiritualità, il cui tempo è un
"presto", con un rigore e una necessità dialettica che non fa
alcun passo falso, e per questa ragione, ove qualcuno ne volesse
far tema di discorso di fronte a costoro, non lo si riterrebbe
degno di fede. Essi si rappresentano ogni necessità come angustia,
come un penoso dover seguire e venir costretti; e lo stesso
pensare è per loro qualcosa di lento, una specie di
temporeggiamento, quasi una tribolazione e abbastanza spesso 'un
fatto degno del "sudore" dei nobili' - mai e poi mai, invece,
qualcosa di leggero, di divino e di strettamente affine alla
danza, alla tracotanza! 'Pensare' e 'prendere sul serio' una cosa,
'soppesarla gravemente' - questo per loro è tutt'uno: soltanto in
tal modo essi hanno 'vissuto'. già a questo riguardo gli artisti
hanno probabilmente un fiuto più sottile: essi che anche troppo
sono consapevoli del fatto che proprio allorquando non compiono
più nulla di 'arbitrario', sibbene tutto secondo necessità, il
loro senso di libertà, di sottigliezza, d'assoluto potere, la
sensazione di un porre, di un disporre e di un plasmare creativo
ha raggiunto il culmine - insomma sono coscienti che necessità e
'libero volere' sono allora in essi una cosa sola. Esiste infine
una gerarchia degli stati interiori cui corrisponde la gerarchia
dei problemi: e i problemi più alti respingono senza pietà colui
che osa avvicinarvisi senza essere predestinato a risolverli
dall'elevatezza e dalla potenza della sua spiritualità. A che
giova se a far ressa con la loro ambizione plebea vicino a questi
problemi, come a una specie di 'corte delle corti', sono svelte
intelligenze mondane, oppure goffi, onesti meccanici ed empirici!
Tappeti di questa sorta non potranno mai essere calcati da rozzi
piedi: a ciò è stato già provveduto nella legge primordiale delle
cose; le porte restano sbarrate a questi intrusi, per quanto vi
sbattano e vi si rompano il capo! Per ogni mondo elevato occorre
esserci nati; o, per dirla a più chiare note, occorre esservi
"allevati": un diritto alla filosofia - prendendo questa parola in
senso lato - lo si ha unicamente in virtù della propria origine,
gli antenati, il 'sangue' sono anche in questo caso decisivi.
Molte generazioni devono aver cospirato in precedenza, con la loro
opera, alla nascita del filosofo; ognuna delle sue virtù deve
essere stata individualmente acquisita, coltivata, trasmessa in
eredità, assunta nella propria carne, e non soltanto l'andamento e
il corso, ardito, lieve e delicato, dei suoi pensieri, ma
soprattutto l'intima disponibilità a grandi responsabilità, la
nobiltà di uno sguardo imperioso, di uno sguardo dall'alto, il
senso del proprio distacco dalla massa e dai suoi doveri e dalle
sue virtù, la cortese protezione e difesa di ciò che è stato
disconosciuto e calunniato, sia esso Dio o il diavolo, il piacere
e l'esercizio della grande giustizia, l'arte del comando, la
vastità del volere, la lentezza di uno sguardo che di rado ammira,
di rado si affisa in alto, di rado ama...