Al di là del bene e del male

Friedrich Nietzsche

CAPITOLO SETTIMO.
LE NOSTRE VIRTU'.

 

214. Le nostre virtù? - E' verosimile che pure noi si continui ad
avere le nostre virtù - sebbene queste, com'è logico, non siano
più quelle virtù candide e massicce, per le quali teniamo in
onore, ma anche un po' a distanza, i nostri avi. Noi Europei del
dopodomani, noi primizie del ventesimo secolo - con tutta la
nostra pericolosa curiosità, la nostra versatilità e la nostra
arte nel travestimento, la nostra morbida e per così dire
addolcita crudeltà nello spirito e nei sensi, avremmo
presumibilmente, se mai dovessimo averle, virtù tali da sapersi
armonizzare nel modo migliore con le nostre segrete e più intime
tendenze, con le nostre più brucianti esigenze: orbene,
cerchiamole una buona volta nei nostri labirinti! - nei quali poi,
com'è noto, si smarriscono tante cose e tante cose vanno
interamente perdute. Esiste forse qualcosa di più bello che andare
in "cerca" delle nostre proprie virtù? Non significa già tutto
questo quasi "una fede" nelle nostre proprie virtù? Ma questa
'fede nelle nostre virtù' non è in fondo la stessa cosa di quel
che una volta si chiamava la 'coscienza tranquilla', quella
treccia veneranda di concetti a forma di lungo codino che i nostri
nonni si appendevano dietro il capo e abbastanza spesso anche
dietro il loro intelletto? Sembra quindi che per quanto poco del
resto si appaia antiquati e rispettabili alla maniera dei nostri
nonni, in una cosa tuttavia si sia degni nipoti di questi, noi
ultimi Europei dalla tranquilla coscienza: anche noi portiamo
ancora la nostra treccia. Ah! se sapeste quanto presto, quanto
presto ormai le cose si trasformeranno!...

215. Come nel reame degli astri sono talvolta due soli a
determinare l'orbita di un pianeta, come, in certi casi, soli di
diverso colore illuminano un unico pianeta, ora di rossa, ora di
verde luce, poi di nuovo contemporaneamente irraggiandolo e
inondandolo in guisa multicolore; così noi uomini moderni, grazie
al complicato meccanismo del nostro 'cielo stellato' - siamo
determinati da morali "diverse"; le nostre azioni risplendono
alternativamente di colori diversi, di rado sono univoche e sono
frequenti i casi in cui compiamo azioni "variopinte".

216. Amare i propri nemici? Ritengo che lo si sia imparato bene:
ciò si verifica oggi in mille guise, in piccolo e in grande; anzi
talvolta accade anche qualcosa di più alto e sublime - impariamo a
"disprezzare", quando amiamo, e proprio quando amiamo di più - ma
accade, tutto questo, senza che se ne abbia coscienza, senza
rumore, senza pompa, con quel pudore e quella dissimulazione della
bontà che vieta al labbro la parola solenne e la formola della
virtù. La morale come atteggiamento - questo, oggi, ripugna al
nostro gusto. Ciò è anche un progresso: come fu un progresso per i
nostri padri il fatto che ripugnasse infine al loro gusto la
religione come atteggiamento, inclusa l'ostilità e l'acredine
volteriana contro la religione (con tutto quanto era allora
compreso nel linguaggio mimico dei liberi pensatori) - la musica
della nostra coscienza, la danza del nostro spirito, con cui non
si accorda nessuna litania puritana, nessuna predica morale e
nessun galantomismo.

217. Guardatevi da coloro che annettono un alto valore al fatto
che si confidi nel loro tatto morale, nella finezza delle loro
distinzioni morali! Essi non ci perdoneranno mai d'essersi resi
colpevoli una qualche volta "dinanzi" a noi (o addirittura
"contro" di noi) - costoro diventeranno inevitabilmente i nostri
istintivi detrattori e offensori, pur restando ancora nostri
'amici'. - Beati quelli che dimenticano, Perchè la faranno
'finita' anche con le loro stupidaggini.

218. Gli psicologi francesi - e dove mai se non in Francia
esistono ancor oggi degli psicologi? - non hanno ancora finito di
assaporare sino in fondo il loro acre e multiforme piacere della
"bˆtise bourgeoise", quasi come se... basta, tutto questo tradisce
qualcosa. Flaubert, per esempio, il bravo borghese di Rouen, finì
per non vedere n‚ udire n‚ gustare più alcun'altra cosa - era
questo il suo modo di torturare se stesso, il suo genere di
sottile crudeltà. Ora io raccomanderei, a titolo di cambiamento -
giacché‚ la cosa sta diventando noiosa - qualcosa di diverso per
andare in estasi: cioè l'incosciente scaltrezza con cui tutti i
buoni, grassi e bravi spiriti della mediocrità si rapportano agli
spiriti superiori e ai loro compiti, quella sottile arroncigliata
gesuitica scaltrezza che è mille volte più sottile dell'intelletto
e del gusto di questo ceto medio nei suoi momenti migliori - più
sottile perfino dell'intelletto delle sue vittime -: una reiterata
dimostrazione del fatto che l''istinto' è, tra tutte le specie di
intelligenza che finora sono state scoperte, la più intelligente.
Insomma studiate, o psicologi, la filosofia della 'regola' in
lotta con l''eccezione': oppure, per parlare più chiaramente: fate
oggetto della vostra vivisezione l''uomo buono', l''homo bonae
voluntatis'... voi stessi!

219. Il giudizio e la condanna morale è la vendetta preferita
degli spiritualmente limitati su coloro che lo sono meno di loro,
nonch‚ una specie di rivalsa per essere stati dimenticati dalla
natura, e finisce per essere l'occasione di avere uno spirito e di
diventare "sottili" - la malizia spiritualizza. Sentono con
piacere, in fondo al cuore, che esiste una misura dinanzi alla
quale anche quelli che sovrabbondano dei beni e dei privilegi
dello spirito sono uguali a loro - essi combattono per
l''uguaglianza di tutti di fronte a Dio' ed è quasi a questo fine
che "hanno bisogno" di credere in Dio. Figurano tra costoro i più
gagliardi avversari dell'ateismo. Chi dicesse loro che 'con
un'alta spiritualità non v'è probità e rispettabilità di un uomo
appunto soltanto morale che possa essere messa a confronto', li
renderebbe furibondi - e io mi guarderò bene dal farlo. Vorrei
invece adularli dicendo che anche un'alta spiritualità sussiste
soltanto in quanto filiazione ultima di qualità morali; che essa è
una sintesi di tutte quelle condizioni che vengo no attribuite
agli uomini 'esclusivamente morali', una volta che siano state
individualmente acquisite merc‚ una lunga disciplina ed esercizio,
forse in intere catene di generazioni; che l'alta spiritualità è
appunto la spiritualizzazione della giustizia e di quella
amorevole severità che si sa incaricata di mantenere in piedi nel
mondo "l'ordinamento gerarchico" tra le cose stesse - e non
soltanto tra gli uomini

220. Con una lode oggi così popolare del 'disinteressato', ci si
deve render conto, non senza forse un qualche rischio, di "ciò a
cui" propriamente rivolge il suo interesse il popolo, e quali
siano in genere le cose di cui l'uomo comune si prende
fondamentalmente e profondamente cura: compresi gli uomini còlti,
persino i dotti e, se non andiamo del tutto errati, quasi sinanche
i filosofi. Da qui deriva il fatto che la maggior parte di quel
che interessa e attrae gusti più sottili e più raffinati, ogni
indole superiore, sembra del tutto 'non interessante' all'uomo
medio: e se, a onta di ciò, questi vi noterà una dedizione, la
chiamerà 'd‚sint‚ress‚' e si meraviglierà di come sia possibile
agire 'disinteressatamente'. Sono esistiti filosofi che seppero
conferire a questa meraviglia popolare anche un'espressione
ammaliante e misticamente ultraterrena ( forse Perchè non
conoscevano, per esperienza propria, l'indole superiore?) anzich‚
stabilire la nuda e quanto mai logica verità, che l'azione
'disinteressata' è un'azione "assai" interessante e interessata,
posto che... 'E l'amore?'. - Come! Perfino un atto d'amore
dovrebbe essere 'non egoistico'? Ah balordi che siete -! 'E la
lode di colui che affronta il sacrificio?'. - Ma chi ha realmente
compiuto un sacrificio, sa d'aver voluto e ottenuto qualcosa per
questo - forse qualcosa di s‚ per qualcosa di s‚ - sa d'aver
offerto questo per avere quello in misura maggiore, forse per
essere in generale qualcosa di più o per sentire se stesso come
'più'. Questa tuttavia è una sfera di domande e risposte in cui
uno spirito di gusti raffinati non ama trattenersi: tanto la
verità, su questo punto, è ormai costretta a reprimere uno
sbadiglio, se non può esimersi dal rispondere. In fin dei conti è
una donna: non si deve usarle violenza.

221. Può accadere - diceva un moralista pedante e scrupoloso - che
io onori e tratti con riguardo un uomo altruista non Perchè egli è
altruista, ma Perchè mi sembra che abbia il diritto di rendersi, a
proprie spese, utile a un altro uomo. Insomma, la questione è
sempre quella di sapere chi sia "questo" e chi sia "quello". Per
esempio, in chi fosse destinato al comando e fatto per comandare,
il sacrificio di s‚ e il tenersi indietro per modestia non
sarebbero una virtù, bensì la dissipazione di una virtù: così a me
pare. Ogni morale non egoistica, che si afferma in guisa assoluta
e si rivolge a ognuno, non pecca soltanto contro il buon gusto:
essa è uno stimolo a peccati di omissione, una seduzione "di più"
sotto la maschera della benevolenza per gli uomini - e
precisamente una seduzione e una iattura per gli uomini superiori,
più rari e privilegiati. Occorre costringere le morali a
inchinarsi soprattutto dinanzi all'"assetto gerarchico", occorre
mettere di fronte alla loro coscienza la loro presunzione - finch‚
non giungano concordemente a rendersi conto che è "immorale" dire:
'Quel che è giusto per uno deve essere giusto per l'altro'. - Così
quel mio moralistico pedante e "bonhomme": meritava forse che ci
si facesse beffe di lui quando ammoniva in tal modo le morali alla
moralità? Ma non bisogna essere troppo nel giusto, se si vuole
avere dalla "nostra parte" coloro che ridono: persino al buon
gusto si addice un granello di torto.

222. Dove oggi si predica la compassione - e, se si ascolta bene,
non si predica oggigiorno alcun'altra religione - apra i suoi
orecchi lo psicologo: attraverso tutta la vanità e tutto il rumore
che è caratteristico di questi predicatori (come di ogni
predicatore in genere), potrà udire un rauco, gemebondo, genuino
accento di "disprezzo verso se medesimi". Tale disprezzo è proprio
di quell'offuscamento e abbrutimento d'Europa che già da un secolo
stanno crescendo (e i cui primi sintomi sono già annotati a titolo
di documento in una pensosa lettera di Galiani a Madame d'Epinay):
"a meno che non ne sia addirittura la causa"! L'uomo delle 'idee
moderne', questa scimmia orgogliosa, è smisuratamente
insoddisfatto di se stesso: ciò è assodato. Patisce: e la sua
vanità vuole che egli si limiti a 'con-patire'...

223. L'ibrido uomo europeo - un plebeo, in fin dei conti,
discretamente odioso - ha assolutamente bisogno di un abito in
costume: la storia gli è necessaria come guardaroba. Indubbiamente
si accorge che nessun abito gli si attaglia a pennello alla
persona ed ecco che è tutto un cambiare. Si consideri il
diciannovesimo secolo, in queste subitanee predilezioni e
mutamenti delle mascherate stilistiche; e altresì nei momenti di
disperazione dovuti al fatto che 'non gli va bene nulla' -.
Inutile esibirsi nella foggia romantica o classica o cristiana o
fiorentina o barocca o 'nazionale' "in moribus et artibus": 'non
veste'! Ma lo 'spirito', in particolare lo spirito storico ravvisa
anche in questa disperazione l'utile suo: si torna sempre a
sperimentare un nuovo pezzo preistorico ed esotico, lo si rigira,
lo si mette da parte, lo si impacchetta, soprattutto lo "si
studia" noi siamo la prima epoca studiata "in puncto" degli
'abiti in costume', voglio dire delle morali, degli articoli di
fede, dei gusti artistici e delle religioni, preparati, come
nessun'altra epoca è mai stata, al carnevale in grande stile,
all'altezza trascendentale della suprema idiozia e
dell'aristofanesca derisione del mondo. Forse proprio a questo
punto scopriamo altresì il regno della nostra "invenzione", quel
regno in cui anche noi possiamo essere ancora originali, per
esempio come parodisti della storia mondiale o pagliacci d'Iddio -
forse, anche se nessuna cosa avrà mai un avvenire, sarà proprio il
nostro "riso" ad averlo!

224. Il "senso storico" (ovvero la capacità di indovinare
rapidamente l'ordine gerarchico degli apprezzamenti di valore,
secondo i quali un popolo, una società, un uomo hanno vissuto,
l''istinto divinatorio' in ordine alle connessioni di questi
apprezzamenti, alla relazione tra l'autorità dei valori e
l'autorità delle forze agenti): questo senso storico che noi
Europei rivendichiamo come peculiarità nostra, ci è sopraggiunto
al seguito della ammaliante e frenetica "semibarbarie" in cui
l'Europa è stata precipitata dalla promiscuità democratica delle
classi e delle razze - non appena il diciannovesimo secolo ha
cominciato a conoscere questo senso come il suo sesto senso. Il
passato di ogni forma e maniera di vita, di quelle civiltà che se
ne stavano tristemente affiancate e accatastate l'una sull'altra,
erompe, grazie a codesta mescolanza, in noi 'anime moderne', i
nostri istinti corrono ormai a ritroso in tutte le direzioni, noi
stessi siamo una specie di caos: - ma infine, come si è detto, 'lo
spirito' sa trovarci l'utile suo. Mediante la nostra semibarbarie
del corpo e delle libidini abbiamo accessi segreti per ogni dove,
quali mai furono posseduti da alcuna nobile età, soprattutto gli
accessi al labirinto delle civiltà non giunte al compimento e a
ogni semibarbarie che sia mai esistita sulla terra; ed essendo
stata sino a oggi appunto semibarbara la parte più considerevole
della civiltà umana, senso storico significa quasi senso e istinto
per ogni cosa, gusto e lingua per tutto: per cui esso si dà subito
a conoscere come un senso "non nobile". Torniamo a gustare, per
esempio, Omero: forse è il nostro più fortunato vantaggio, che si
sappia assaporare Omero, un vantaggio che gli uomini di una
cultura aristocratica (per esempio i Francesi del diciassettesimo
secolo, come Saint-Evremond, che gli rimproverava "l'esprit
vaste", e persino la loro ultima risonanza, Voltaire) non sanno e
non seppero appropriarsi con tanta facilità. Il sì e il no ben
determinati del loro palato, il loro disgusto facile a insorgere,
la loro esitante riluttanza in ordine a tutto quanto è straniero,
la loro avversione persino per la mancanza di gusto propria della
veemente curiosità e soprattutto quel sentirsi poco disposti,
tratto tipico di ogni cultura aristocratica e autosufficiente, a
confessare nuove brame, un'insoddisfazione del proprio,
un'ammirazione di quanto è straniero: tutto ciò li mette in una
posizione e in una condizione interiore contrarie persino alle
migliori cose del mondo, quando esse non si trovino in loro
possesso o non "possano" diventare loro preda - e nessun senso più
del senso storico e della sua umile curiosità plebea risulta
maggiormente incomprensibile a tali uomini. Le cose non stanno
diversamente per Shakespeare, questa prodigiosa sintesi ispano-
moresco-sassone di gusto, che avrebbe suscitato riso irrefrenabile
o dispetto in un vecchio ateniese della cerchia di Eschilo: ma noi
accettiamo proprio questa caotica varietà di colori, questo
guazzabuglio di quanto v'è di più delicato, di più rozzo e di più
artefatto, con una segreta familiarità e compiacenza, ne godiamo
come di una raffinatezza dell'arte riserbata proprio a noi e non
ci sentiamo urtati dalle nauseabonde esalazioni e dalla vicinanza
della plebaglia inglese, tra cui vive l'arte e il gusto di
Shakespeare, quasi fossimo, a esempio, sulla Chiaia di Napoli: là
dove si cammina con tutti i nostri sensi, ammaliati e di buon
animo, per la nostra strada, per quanto aleggi nell'aria l'odore
di cloaca dei quartieri popolari. Noi uomini del 'senso storico':
noi abbiamo, in quanto tali, le nostre virtù, incontestabilmente -
siamo senza pretese, disinteressati, modesti, coraggiosi, ricolmi
delle nostre vittorie su noi stessi, ricolmi di dedizione, molto
riconoscenti, molto pazienti, molto concilianti - con tutto ciò
non abbiamo forse molto 'buon gusto'. Confessiamolo infine a noi
stessi: quel che per noi uomini del 'senso storico' è estremamente
difficile a cogliersi, a sentirsi, a serbarne il sapore e l'amore,
quel che in fondo ci trova prevenuti e quasi ostili è precisamente
la perfezione e l'estrema maturità in ogni cultura e in ogni arte,
quel che v'è di propriamente nobile nelle opere e negli uomini, il
loro attimo di placido mare e di alcionia letizia di s‚, quel tono
dorato e freddo proprio di tutte le cose che sono giunte al
compimento. Forse la nostra grande virtù del senso storico si pone
necessariamente in contrasto con il "buon" gusto, almeno con il
gusto in linea assoluta migliore, e solo malamente, solo esitando,
solo facendo costrizione a noi stessi, riusciamo a riprodurre in
noi le piccole lievi ed eccelse felicità e trasfigurazioni della
vita umana, che s'accendono all'improvviso or qua or là in guisa
irripetibile: quegli attimi e quei prodigi in cui una grande forza
spontaneamente si arresta di fronte allo smisurato e
all'illimitato -, dove fu goduto il subitaneo comporsi e
pietrificarsi di un delizioso traboccante desiderio, il suo
arrestarsi, il suo piantarsi saldamente su una terra che trema
ancora. Ci è estranea la "misura", riconosciamolo: il nostro
assillo è appunto l'assillo dell'infinito, dello smisurato.
Similmente a chi cavalca un destriero fremente di buttarsi al
galoppo, noi abbandoniamo le briglie dinanzi all'infinito, noi
uomini moderni, noi semibarbari e siamo nella "nostra"
beatitudine soltanto laddove "siamo" anche maggiormente "in
pericolo".

225. Sia edonismo che pessimismo, sia utilitarismo che
eudemonismo, tutti questi modi di pensare, che misurano il valore
delle cose secondo il "piacere" e il "dolore", cioè secondo stati
concomitanti e fatti collaterali, sono modi esteriori di pensiero,
nonch‚ ingenuità, che chiunque sia consapevole delle sue forze
"plasmatrici" e abbia una coscienza di artista guarderà dall'alto
in basso, non senza scherno e neppure senza compassione.
Compassione di "voi"! Indubbiamente non è questa la compassione
che voi avete in mente: non è compassione della 'miseria' sociale,
della 'società', dei suoi infermi e dei suoi sventurati, dei suoi
esseri viziosi e distrutti sin dall'origine, quali sono quelli che
giacciono stesi a terra dinanzi a noi; è ancor meno compassione
delle classi di schiavi ringhianti, conculcati, sediziosi, che
anelano al dominio - essi lo chiamano 'libertà'. La "nostra"
compassione è una superiore e più lungimirante compassione - noi
vediamo come si rimpicciolisce "l'uomo", come voi lo rendete
piccolo! - e vi sono momenti in cui osserviamo, con una
indescrivibile angoscia, la "vostra" compassione, in cui ci
difendiamo da questa compassione - in cui troviamo più pericolosa
la vostra serietà che qualsivoglia leggerezza. Voi volete, se
possibile - e non esiste un 'se possibile' più assurdo -
"eliminare la sofferenza"; e noi? - sembra proprio che si
preferisca averla, questa sofferenza, in un grado ancor più
elevato e peggiore di quanto non sia mai accaduto! Il benessere,
come lo intendete voi - non costituisce una meta, a noi sembra
piuttosto una "fine"! Una condizione che rende subito l'uomo
ridicolo e spregevole - e ne fa "desiderare" la distruzione. La
disciplina formativa del dolore, del "grande" dolore - non sapete
voi che soltanto "questa" disciplina ha creato fino ad oggi ogni
eccellenza umana? Quel tendersi dell'anima nella sventura, per cui
si educa la sua forza, il suo brivido allo spettacolo della grande
rovina, la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel
perseverare, nell'interpretare, nell'utilizzare la sventura, e
tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia,
grandezza a essa toccò in dono - non lo ricevette forse in mezzo
ai dolori e alla disciplina plasmatrice del grande dolore?
Nell'uomo "creatura" e "creatore" sono congiunti: nell'uomo c'è
materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos;
ma nell'uomo c'è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del
martello, la divinità di chi guarda e c'è anche un settimo giorno
- comprendete voi questa antitesi? E che la "vostra" pietà è per
la 'creatura nell'uomo', per ciò che deve essere modellato,
infranto, fucinato, purificato, smembrato, riarso, arroventato,
per ciò che necessariamente non può non "soffrire", che "deve"
soffrire? E la "nostra" pietà - non lo intendete voi? - a chi è
rivolta la nostra "opposta" pietà, quando essa si difende dalla
pietà vostra come dal peggiore di tutti gl'infrollimenti e
debolezze? - pietà contro pietà, dunque! - Ma esistono,
ripetiamolo ancora una volta, problemi più alti di tutti i
problemi del piacere e del dolore e della pietà; ed è una
ingenuità ogni filosofia che miri esclusivamente a questi.

226. "Noi immoralisti!" Questo mondo, che riguarda "noi", in cui
"noi" abbiamo motivi per temere e per amare, questo quasi
invisibile, impercettibile mondo di sottili comandi, di sottili
obbedienze, un mondo del 'quasi' in ogni senso, scabroso,
insidioso, appuntito e tenero, sì esso è ben protetto contro i
goffi spettatori e la fiduciosa curiosità! Noi siamo inviluppati
in una rete e in una camicia pesante di doveri e non "possiamo
uscirne" -, in questo appunto siamo anche noi 'uomini del dovere'!
Talvolta, è vero, danziamo sì nelle nostre 'catene' e tra le
nostre 'spade'; più spesso, è altrettanto vero, sotto il peso di
queste cose digrigniamo i denti e siamo impazienti per tutta la
segreta durezza del nostro destino. Ma ad onta di tutti i nostri
sforzi, i babbei e l'evidenza dicono contro di noi: 'Questi sono
uomini "senza" un dovere' - abbiamo sempre babbei e l'evidenza
contro di noi.

227. Ebbene - ammesso che sia questa, l'onestà, la nostra virtù,
da cui noi, spiriti liberi, non possiamo liberarci - vogliamo
attendere a essa con tutta la nostra malizia e il nostro amore,
senza stancarci mai di 'perfezionarci' nella "nostra" virtù, che è
la sola a esserci rimasta: e non importa se il suo splendore
finirà per restar sospeso come una dorata, azzurra, ironica luce
vespertina su questa cultura senescente e sulla sua cupa e tetra
austerità! E se anche un giorno la nostra onestà si stancasse e
sospirasse e stirasse le membra e ci trovasse troppo duri e
volesse avere qualcosa di migliore, di più leggero, di più tenero,
al pari di un piacevole vizio: restiamo "duri", noi ultimi Stoici!
e mandiamole in aiuto tutte le diavolerie che abbiamo in noi - il
nostro disgusto del goffo e dell'approssimativo, il nostro
'nitimur in vetitum' (26), il nostro coraggio di avventurieri, la
nostra curiosità accorta e raffinata, la nostra più sottile, più
dissimulata e più spirituale volontà di potenza e di superamento
del mondo, che vaga e aleggia cupida intorno a tutti i regni
dell'avvenire - corriamo in aiuto al nostro 'Dio' con tutti i
nostri 'diavoli'! Può darsi che in conseguenza di ciò si venga
disconosciuti e confusi con altri: che importa! Diranno: 'La loro
'onestà', - cioè il loro satanismo, e nulla più!' che importa!
Anche se avessero ragione! Non furono tutti gli dèi, quali si sono
avuti sino a oggi, diavoli ribattezzati e divenuti santi allo
stesso modo? E che cosa sappiamo infine di noi stessi? E come vuol
"essere chiamato" lo spirito che ci guida (è questione di nomi)? E
quanti spiriti nascondiamo? La nostra onestà... noi spiriti liberi
guardiamo che non diventi la nostra vanità, il nostro sfarzoso
ornamento, il nostro limite, la nostra stupidità! Ogni virtù
inclina alla stupidità, ogni stupidità alla virtù; 'stupido sino
alla santità' - si dice in Russia - facciamo in modo di non
diventare, infine, per stupidità, anche dei santi e dei noiosi!
Non è forse la vita cento volte troppo breve per annoiarvisi? Fu
già necessario credere alla vita eterna per...

228. Mi si perdoni la scoperta che fino a oggi tutte le filosofie
morali furono noiose e si annoverarono tra i narcotici - e che ai
miei occhi nessun'altra cosa più di questa "noiosità" dei loro
apologeti ha recato danno alla 'virtù'; con questo non vorrei
ancora aver disconosciuto la loro generale utilità. E' molto
importante che rifletta sulla morale il minor numero di uomini
possibile - ha quindi grande peso il fatto che la morale non
diventi un bel giorno interessante! Ma non c'è da preoccuparsi.
Anche oggi le cose continuano a essere quel che sono sempre state:
non vedo nessuno in Europa che abbia (o ritenga ammissibile) una
consapevolezza del fatto che la riflessione sulla morale potrebbe
essere condotta in maniera insidiosa, ammaliatrice - che potrebbe
esservi in essa "una funesta fatalità"! Si consideri, per esempio,
gli instancabili, inevitabili utilitaristi inglesi, in che modo
goffo e venerando se ne vanno e vengono, camminando sulle orme di
Bentham (c'è una similitudine omerica che esprime ciò con maggior
chiarezza), alla stessa guisa con cui lui stesso già camminava
sulle orme del venerabile Helv‚tius (no, non era un uomo
pericoloso, questo Helv‚tius!) (27). Nessuna idea nuova, non una
mutazione o una increspatura eleganti di un'idea antica; neppure
una storia effettiva del pensiero passato; una letteratura
totalmente "impossibile", posto che non si sappia inacidirla con
una qualche malignità. Infatti, anche in questi moralisti (che
occorre leggere senz'altro con segreti intendimenti, ove mai si
dovesse leggerli -) si insinua furtivamente quel vecchio vizio
inglese che è chiamato "cant" ed è "tartufismo morale", occultato
questa volta sotto la nuova forma della scientificità; non manca
neppure una segreta difesa dai rimorsi di coscienza, dai quali
logicamente è afflitta, pur in una trattazione scientifica di
morale, una razza di ex puritani. (Non è forse un moralista
l'esatto riscontro di un puritano? essendo il primo un pensatore
che ritiene problematica, degna di punti interrogativi, la morale,
che insomma fa di essa una questione? Moralizzare non dovrebbe -
essere immorale?). In fondo, tutti costoro vogliono che si dia
ragione alla morale "inglese": in quanto appunto con questa si
giova nel modo migliore all'umanità, ovvero all''utile
collettivo', o alla 'felicità del maggior numero', no!, alla
felicità dell'"Inghilterra"; essi vorrebbero dimostrare, con tutte
le loro forze, che l'aspirare alla felicità "inglese", cioè al
"comfort" e alla "fashion" (e, nel grado più alto, a un seggio in
parlamento), sia al tempo stesso anche il giusto sentiero della
virtù, anzi che tutta la virtù esistita sino a oggi nel mondo si
sia concretata appunto in una siffatta aspirazione. Nessuno di
tutti questi tardigradi animali d'armento dalla coscienza inquieta
(i quali si sforzano di trattare la causa dell'egoismo come causa
del benessere generale) vuol rendersi conto o presentire in
qualche modo che il 'benessere generale' non è un ideale, una
meta, un concetto comunque afferrabile, bensì soltanto un emetico
- che quanto è giusto per uno, non per questo in alcun modo "può"
essere giusto per l'altro, che esigere "una sola" morale per tutti
costituisce un pregiudizio proprio a danno dell'uomo superiore,
insomma, che esiste un "ordine gerarchico" tra uomo e uomo, e
conseguentemente anche tra morale e morale. Questi utilitaristi
inglesi sono una modesta e fondamentalmente mediocre specie di
uomini e, come già si è detto, essendo essi dei noiosi non si
potrà avere un'idea sufficientemente elevata della loro utilità.
Occorrerebbe "rinfrancarli", come in parte si è tentato di fare
coi seguenti versi:

Salute a voi, o bravi carrettieri,
'quanto più prolissi, tanto meglio',
duri sempre di testa e di ginocchi,
senz'entusiasmi, senza risa mai,
indistruttibilmente mediocri,
"sans g‚nie et sans esprit!"

229. In quelle epoche tarde che possono andar superbe della loro
umanità, sopravvive ancora tanta paura, tanta "superstizione"
della paura di fronte alla 'selvaggia fiera crudele' - aver
signoreggiato la quale costituisce appunto la superbia di quella
età umana - che persino tangibili verità restano, come per un
accordo, inespresse per secoli, avendo esse l'aria di poter
fornire un aiuto a quella selvaggia fiera, definitivamente uccisa,
Perchè ritorni in vita. Forse è temerario da parte mia lasciarmi
sfuggire una siffatta verità: possano altri acciuffarla di nuovo e
darle da bere tanto 'latte di timorato pensiero' da farla restare
nel suo cantuccio cheta e dimenticata. - Dobbiamo modificare le
nostre opinioni sulla crudeltà e aprire gli occhi: si deve
apprendere finalmente l'impazienza, affinchè non si aggirino più a
lungo, ostentando virtù e improntitudine, sfacciati e madornali
errori come quelli che, per esempio, riguardo alla tragedia sono
stati impinguati da filosofi vecchi e nuovi. Quasi tutto ciò che
noi chiamiamo 'civiltà superiore' trova nell'intellettualizzazione
e nell'approfondimento della "crudeltà" le sue basi - è questa la
mia tesi: quella 'fiera selvaggia' non è stata affatto uccisa,
essa vive e prospera, soltanto che si è divinizzata. Quel che
costituisce la tormentosa voluttà della tragedia è la crudeltà;
quel che nella cosiddetta compassione tragica, e persino, in
ultima analisi, in ogni moto sublime, sino ai più alti e delicati
brividi della metafisica, determina un'impressione gradevole,
riceve la sua dolcezza soltanto dall'ingrediente della crudeltà
che vi è commisto. Quel che il romano assapora nell'arena, il
cristiano nelle estasi della croce, lo spagnuolo alla vista dei
roghi e delle corride, il giapponese di oggi, quando fa ressa per
assistere alla tragedia, l'operaio dei sobborghi parigini, con la
sua nostalgia di sanguinose rivoluzioni, la wagneriana, che nella
sospensione della sua volontà 'soggiace' al "Tristano e Isotta" -
ciò che tutti costoro assaporano e cercano con misteriosa avidità
di suggere nei loro stessi visceri sono i filtri aromatici della
grande Circe 'crudeltà'. A questo proposito occorre sbarazzarci
senz'altro della balorda psicologia di una volta, che intorno alla
crudeltà null'altro sapeva insegnare se non che essa nasce alla
vista delle sofferenze "altrui": esiste un copioso, esorbitante
piacere anche dei propri dolori, del proprio farsi soffrire - e
tutte le volte che l'uomo si lascia persuadere all'autonegazione
in senso "religioso" o all'automutilazione, come accadde tra i
Fenici e gli asceti, o in generale a fuggire i sensi, a
disincarnarsi, alla contrizione, alle convulsioni penitenziali dei
puritani, alla vivisezione della coscienza e al pascaliano
"sacrifizio dell'intelletto" (28), è la sua crudeltà ad attirarlo
e a incalzarvelo segretamente, è quel pericoloso brivido di una
crudeltà rivolta "contro se stesso". Si consideri, infine, che
anche l'uomo della conoscenza, allorch‚ costringe la sua mente a
conoscere "in contrasto" con l'inclinazione della mente e
abbastanza di frequente anche contro i desideri del suo cuore, -
cioè a pronunciare un no, laddove vorrebbe affermare, amare,
adorare -, esercita il suo potere come artista e come
trasfiguratore della crudeltà; già ogni prendere le cose in
profondità e alle radici è un atto di violenza, una volontà di far
soffrire diretti contro quel fondamentale volere dello spirito che
mira incessantemente all'apparenza e alla superficie - già in ogni
volontà di conoscenza c'è una goccia di crudeltà.

230. Forse non risulterà senz'altro comprensibile quel che ora ho
detto di una 'volontà fondamentale dello spirito': mi sia
consentito un chiarimento. Quell'imperioso qualcosa che è chiamato
'spirito' dal volgo vuole signoreggiare in s‚ e intorno a s‚ e
sentirsi padrone: possiede la volontà di ridurre il molteplice ad
unità, una volontà allacciante, infrenante, avida di dominio e
realmente dominatrice. Le sue esigenze e le sue facoltà sono a
questo punto le stesse che i fisiologi attribuiscono a tutto ciò
che vive, si sviluppa e si moltiplica. La forza appropriativa
dello spirito nei riguardi di ciò che è estraneo si rivela in
un'accentuata inclinazione ad assimilare il nuovo all'antico, a
semplificare il multiforme, a ignorare o a respingere quel che è
del tutto contraddittorio: allo stesso modo arbitrariamente e con
maggior vigore essa sottolinea, mette in evidenza, falsifica a
proprio vantaggio determinati tratti e linee di quanto le è
estraneo, di ogni frammento del 'mondo esterno'. Così facendo,
mira a incorporare nuove 'esperienze', a inserire nuove cose in
vecchi ordini - a una crescita dunque; o, con maggior precisione,
al "senso" della crescita, al senso di un incremento di forza. A
questo stesso volere è subordinato un impulso apparentemente
antitetico dello spirito, una improvvisamente erompente
risoluzione all'ignoranza, al volontario isolamento, un serrar le
proprie finestre, un intimo dir di no a questa o quella cosa, un
non lasciarsi avvicinare, una sorta di condizione difensiva contro
quel molto che può essere conosciuto, un contentarsi dell'oscuro,
dell'orizzonte che rinchiude, un dir di sì e un consentire
all'ignoranza: e tutto ciò è necessario a seconda del grado di
forza appropriativa, della propria 'capacità di digestione', per
dirla con un'immagine - e in realtà lo spirito è per lo più simile
anche a uno stomaco. E' egualmente ricompresa in tutto ciò
l'occasionale volontà dello spirito di lasciarsi ingannare, non
senza forse il malizioso presentimento che le cose "non" stiano in
questo e quel modo, che ci si limiti appunto a lasciarle essere
così e così, il dilettarsi di ogni insicurezza e ambiguità, un
giubilante, narcisistico godimento della volontaria angustia e
segretezza di un cantuccio, dell'estremamente vicino, del primo
piano, di quanto è ingrandito, rimpicciolito, rimosso, reso più
bello, un narcisistico godimento per l'arbitrarietà di tutte
queste estrinsecazioni di potenza. E' ricompresa, infine, in tutto
questo quella non innocua prontezza dello spirito nell'ingannare
altri spiriti e nel dissimularsi al loro cospetto, quella costante
pressione e quel costante incalzare di una forza creatrice,
foggiatrice e capace di trasmutazioni: lo spirito assapora in
tutto ciò la multiformità delle sue maschere e la sua accortezza,
assapora altresì il senso della sua sicurezza, anzi proprio
attraverso le sue arti proteiformi trova la migliore delle difese
e dei nascondimenti! - "Contro questa" volontà di apparenza, di
semplificazione, di maschera, di mantello, insomma di superficie -
giacché‚ ogni superficie è un mantello agisce quella sublime
inclinazione dell'uomo della conoscenza, la quale prende e "vuole"
prendere le cose in profondità, nella loro multiformità, alle loro
radici: quella sorta di crudeltà della coscienza e del gusto
intellettuale, che ogni ardimentoso pensatore riconoscerà in se
stesso, posto che abbia temprato e aguzzato abbastanza a lungo -
come si conviene - il proprio sguardo nei riguardi di se medesimo
e si sia assuefatto a una severa disciplina e anche a severe
parole. Costui dirà 'c'è qualcosa di crudele nella tendenza del
mio spirito' - per quanto i virtuosi e gli amabili cerchino di
dissuaderlo! In realtà sarebbe cosa più piacevole a udirsi, se
dietro a noi - a noi liberi, "assai" liberi spiriti - si parlasse,
si sussurrasse e si facessero lodi semmai di una nostra
'illimitata rettitudine', invece che della nostra crudeltà e avrà
forse realmente "questo" suono, un giorno, la nostra gloria
postuma? Frattanto - giacché‚ c'è tempo fino a quel giorno -
vorremmo essere anche noi tutt'altro che propensi ad azzimarci con
siffatte morali cianfrusaglie e frange di parole: tutto il nostro
lavoro fino a oggi ci fa venire in odio proprio questo gusto e la
sua vivace opulenza. Sono parole belle, luccicanti, tintinnanti,
pompose: onestà, amore per la verità, amore per la saggezza,
abnegazione per la conoscenza, eroismo del vero - c'è qualcosa, in
esse, che fa gonfiare d'orgoglio. Ma noi eremiti e marmotte ci
siamo persuasi da un pezzo, nel fondo più segreto della nostra
coscienza di eremiti, che anche codesto venerabile sfarzo di
parole appartiene al vecchio abbigliamento, ciarpame e dorata
polvere di menzogne dell'inconsapevole vanità umana e che anche
sotto una siffatta lusinga di colori e di sovradipinture deve
essere ancora una volta riconosciuto il terribile testo
fondamentale "homo natura". Ritradurre cioè l'uomo nella natura,
padroneggiare le molte vanitose e fantasiose interpretazioni e
significazioni marginali, le quali fino a oggi vennero
scarabocchiate e dipinte su quell'eterno testo base "homo natura";
far sì che d'ora innanzi l'uomo si pianti dinanzi all'uomo, come
già oggi sta facendo, indurito nella disciplina della scienza, si
aderga dinanzi all'"altra" natura, con gli occhi impavidi di Edipo
e con le orecchie sigillate di Odisseo, sordo alle musiche
adescatrici dei vecchi uccellatori metafisici, che con voce
flautata gli hanno sussurrato anche troppo a lungo: 'Tu sei di
più! tu sei più in alto! diversa è la tua origine!' - potrà anche
essere un compito stravagante e insensato, ma è pur sempre un
"compito" - chi potrebbe negarlo? Perchè eleggemmo noi questo
compito insensato? Oppure, ponendo diversamente la domanda:
'Perchè in generale conoscere?'. Ognuno ce lo chiederà. E noi,
messi in tal modo alle strette, noi che già ci siamo rivolti cento
volte questa domanda, non abbiamo trovato n‚ troviamo alcuna
risposta migliore...

231. L'imparare ci trasforma, i suoi effetti sono quelli di ogni
alimentazione, la quale non si limita a 'conservare' -: com'è noto
al fisiologo. Ma nel fondo di noi stessi, proprio 'nell'imo', c'è
indubbiamente qualcosa che non può essere insegnato, un granito di
spirituale "Fatum", di predeterminata decisione e risposta a una
predeterminata scelta di domande. In ogni questione cardinale
parla un immutabile 'questo sono io'; intorno all'uomo e alla
donna, per esempio, un pensatore non può mutare quel che ha
imparato, ma soltanto andare a fondo nell'imparare - può soltanto
scoprire alla fine quel che su questo argomento 'resta saldo' in
lui. Si trovano ben presto certe soluzioni di problemi che
precisamente "per noi" costituiscono robuste credenze: verranno
chiamate forse, da allora in poi, le nostre 'convinzioni'. Più
tardi - si scorge in esse unicamente le orme di quel cammino verso
la conoscenza di noi stessi, pietre miliari di quel problema che
noi stessi "siamo" - o più esattamente, della grande sciocchezza
che noi siamo, del nostro spirituale "Fatum", del "non
insegnabile" proprio 'nell'imo'. - In conseguenza di questa
notevole delicatezza, quale è appunto quella che ho usato riguardo
a me stesso, mi verrà forse più agevolmente consentito di
esprimere alcune verità sulla 'donna in s‚': ammesso che si sappia
ormai, fin dall'inizio, che queste verità sono appunto soltanto
le "mie" verità.

232. La donna vuole rendersi indipendente: e a tale scopo comincia
col dar chiarimenti agli uomini sulla 'donna in s‚' - "ciò" fa
parte dei peggiori progressi dell'universale "abbruttimento"
d'Europa. Quante mai brutte cose, infatti, non verranno messe in
luce da questi goffi tentativi della femminile scientificità e
autodenudazione!- Sono tanti e poi tanti, per la donna, i motivi
di pudore: v'è celata nella donna tanta pedanteria,
superficialità, saccenteria, tanta gretta presunzione, tanta
gretta scapestrataggine e immodestia - basti studiare i suoi
rapporti coi bambini! - cose, queste, che sino a oggi sono state,
in fondo, ottimamente represse e infrenate dal "timore" per
l'uomo. Guai se l''eterna fastidiosità della donna' - di cui è
tutt'altro che povera! - potesse arrischiarsi a venir fuori! Guai
se cominciasse a disimparare radicalmente e per principio la sua
accortezza e la sua arte, che è quella della grazia e del giuoco,
del cacciar via le cure, dell'addolcire e del non dar peso; guai
se cominciasse a disimparare la sua raffinata abilità nel
suscitare piacevoli desideri! già oggi si fanno sentire voci
femminili che, per il santo Aristofane!, mettono paura; si sente
minacciare, con medica esattezza, quel che in prima e ultima
istanza la donna "vuole" dall'uomo. Non è di pessimo gusto che la
donna si accinga in tal modo a scientificizzarsi? Sino a oggi,
fortunatamente, dar lumi era faccenda dell'uomo, una dote virile -
si restava pertanto 'tra noi'; e del resto, con tutto quel che le
donne scrivono sulla 'donna', ci si può riservare una buona dose
di diffidenza sul fatto che la donna "voglia" e "possa" volere
effettivamente lumi su se stessa. Se poi una donna, con tutto ciò,
non va cercandosi una nuova "acconciatura" - e io penso che
agghindarsi si convenga all'eterno femminino - vorrà allora
suscitare il timore nei suoi riguardi - vorrà forse, in tal modo,
dominare. Ma essa non "vuole" verità: che importa la verità alla
donna! Nulla, da che mondo è mondo, è più della verità estraneo,
ripugnante, ostile alla donna - la sua grande arte è la menzogna,
la massima delle sue faccende è l'apparenza e la bellezza.
Confessiamocelo, noi uomini: noi onoriamo ed amiamo nella donna
precisamente "questa" arte e "questo" istinto: noi che ci sentiamo
pesanti e volentieri ci accompagniamo per alleggerirci a creature,
sotto le mani, gli sguardi e le dolci sciocchezze delle quali la
nostra serietà, la nostra gravità e profondità appaiono quasi come
una sciocchezza. Infine mi domando: c'è mai stata una donna che
abbia ammesso la profondità di una testolina femminile, la
giustizia di un cuore muliebre? E non è forse vero che più o meno,
fino a oggi, è stata soprattutto proprio la donna a disistimare la
'donna'? - e mai e poi mai noi? Noi uomini desideriamo che la
donna non continui a compromettersi con il suo dar lumi: come fu
previdenza virile e delicatezza verso la donna il decreto della
Chiesa: "mulier taceat in ecclesia"! Fu nell'interesse della donna
che Napoleone fece intendere alla troppo loquace Madame de Sta‰l:
"mulier taceat in politicis"! - e io penso che sia un vero amico
delle donne chi oggi suggerisce loro: "mulier taceat de muliere"!

233. Anche prescindendo dal fatto che costituisca una spia del
cattivo gusto - tradisce la corruzione degli istinti il
richiamarsi esplicito, da parte di una donna, a Madame Roland o
Madame de Sta‰l o Monsieur George Sand, come se con ciò potesse
essere dimostrato qualcosa "a favore" della 'donna in s‚'. Per noi
uomini le sovramenzionate sono le tre donne "ridicole" in s‚ -
nulla più - e sono proprio i migliori involontari "argomenti in
contrario" all'emancipazione e all'autonomia della donna.

234. La stupidità in cucina; la donna cuoca; l'orribile
sventatezza con cui si provvede al nutrimento della famiglia e del
padrone di casa! La donna non comprende che cosa "significhino" i
pasti: e vuole essere cuoca! Se la donna fosse un essere pensante
avrebbe dovuto scoprire, essendo cuoca da millenni, i più grandi
dati di fatto della fisiologia, come pure avrebbe dovuto
impossessarsi dell'arte medica! A causa delle pessime cuoche - a
causa dell'assoluta mancanza di razionalità nella cucina, lo
sviluppo dell'uomo è stato assai a lungo ostacolato e
gravissimamente danneggiato: perfino oggi le cose non sono gran
che migliorate. Un discorso, questo, per le signorine che vanno
ancora a scuola.

235. Ci sono atteggiamenti e tratti di spirito, ci sono sentenze,
un pugno esiguo di parole, in cui si cristallizza all'improvviso
un'intera civiltà, una intera società. Come, a esempio, quelle
parole incidentalmente rivolte da Madame de Lambert a suo figlio:
'Mon ami, ne vous permettez jamais que de folies, qui vous feront
grand plaisir' - sia detto di passaggio, sono queste le parole più
materne e più sagge che siano mai state indirizzate a un figlio.

236. Ciò che Dante e Goethe hanno creduto riguardo alla donna -
quegli, quando cantava 'ella guardava suso, e io in lei' (29),
questi, quando lo traduceva in '"in su" ci trae l'eterno
femminino' (30) -: non dubito che ogni nobile donna si guarderà da
questa convinzione, giacché‚ essa crede appunto "la stessa cosa"
riguardo all'eterno mascolino...

237. "Sette piccoli proverbi di donne".

Come se ne fugge via la più greve noia quando un uomo striscia ai
nostri piedi!

Vecchiaia, ahimè!, e scienza infondono forza anche a una gracile
virtù.

Abito nero e parsimonia di parole dànno a ogni donna un aspetto -
assennato -.

A chi mi sento grata nella mia felicità? A Dio - e alla mia sarta.

Giovane: un antro inghirlandato di fiori. Vecchia: un drago ne
sbuca fuori.

Nobile nome, gambe ben fatte, e un uomo, per giunta: oh se "lui"
fosse mio!

Discorsi brevi, senso lungo una strada sdrucciolevole per
l'asina!

Sino ad oggi le donne sono state trattate dagli uomini come gli
uccelli che da una qualche altezza si sono smarriti giù in basso
fino a loro: come una cosa più delicata, più fragile, più
selvatica, più strana, più dolce, più ricca di sentimento, ma
anche come qualcosa che si deve imprigionare Perchè non se ne voli
via.

238. Impigliarsi nella questione di fondo 'uomo e donna', negare,
a questo proposito, l'antagonismo abissale e la necessità di una
tensione eternamente ostile, sognare forse di eguali diritti, di
un'eguale educazione, di eguali esigenze e doveri: tutto ciò è un
"tipico" indice di una mente superficiale, e un pensatore, che si
sia mostrato superficiale su questo punto pericoloso -
superficiale nell'istinto! - può in generale cadere in sospetto o,
peggio ancora, viene a tradirsi, a scoprirsi: probabilmente per
tutte le questioni di fondo della vita, anche di quella avvenire,
sarà sempre troppo 'corto' e non potrà scendere in "nessuna"
profondità. Un uomo, invece, che ha abissi nel suo spirito come
nelle sue brame, e anche quella profondità della benevolenza che è
capace di severità e di durezza e viene facilmente scambiata con
esse, può pensare riguardo alla donna sempre soltanto alla maniera
"orientale" - deve concepire la donna come un possesso, come una
proprietà che si può chiudere a chiave, come un qualcosa che è
predestinato alla servitù e che si perfeziona in essa - egli deve,
a questo punto, fondarsi sull'immensa ragione asiatica,
sull'asiatica superiorità dell'istinto, come fecero una volta i
Greci, questi migliori eredi e discepoli dell'Asia, i quali, com'è
noto, da Omero sino all'età di Pericle, con il "crescere" della
loro cultura e la loro estensione di forza, divennero di pari
passo anche "più rigidi" verso la donna, insomma più orientali.
"Quanto" ciò fosse stato necessario, logico e anche umanamente
auspicabile, è cosa su cui mediterà ognuno per conto proprio.

239. In nessun'epoca il sesso debole è stato trattato con tali
riguardi da parte degli uomini come nella nostra - è questo un
aspetto della tendenza e del fondamentale gusto democratico, così
come lo è la mancanza di rispetto per la vecchiaia: - c'è da
stupirsi se di questi riguardi si è subito abusato? Si vuole di
più, si impara a pretendere, infine si trova quel tributo di stima
quasi offensivo, si preferirebbe una gara per quei diritti, anzi
n‚ più n‚ meno che la lotta: insomma, la donna sta perdendo il suo
pudore. Aggiungiamo subito che sta perdendo anche il buon gusto.
Non sa più "temere" l'uomo: ma la donna che 'disimpara a temere',
sacrifica i suoi istinti più femminili. Che la donna si arrischi a
mettersi in evidenza, quando non è più voluto e plasmato
nell'educazione quel che nell'uomo incute timore, o, per
esprimerci con maggiore esattezza, "l'uomo" nell'uomo, è un fatto
abbastanza naturale e anche sufficientemente comprensibile; quel
che invece è più difficile a intendersi è che appunto in tal modo
- la donna degenera. Questo accade oggigiorno: non ci facciamo
illusioni in proposito. Ovunque lo spirito dell'industria ha
debellato lo spirito militare e aristocratico, oggi la donna
aspira all'autonomia economica e giuridica di un commesso: 'la
donna come commessa', sta sulla porta della moderna società in
formazione. Mentre in tal modo si va impossessando di nuovi
diritti e tende a diventare 'padrona' e scrive sulle sue bandiere
e bandierine il 'progresso' della donna - si realizza invece, con
terribile precisione, l'opposto: "la retrocessione della donna".
Dalla rivoluzione francese in poi l'influenza della donna in
Europa è "diminuita" nella misura in cui si sono accresciuti i
suoi diritti e le sue pretese; e l''emancipazione della donna', in
quanto è auspicata e promossa dalla stessa donna (e non solo da
alcuni uomini dalla testa vuota), risulta di conseguenza un
sintomo rilevante del crescente infiacchimento e ottundimento
degli istinti più femminili. C'è della "stupidità" in questo
movimento, una stupidità quasi mascolina, di cui una donna ben
riuscita - che è sempre una donna accorta - dovrebbe vergognarsi
da capo a piedi. Perdere il fiuto del terreno sul quale si può
giungere più sicuramente alla vittoria; trascurare di esercitarsi
in quell'arte delle armi che è sua peculiare; mettersi a precedere
l'uomo arrivando, forse, persino al 'libro', mentre prima ci si
atteneva alla disciplina educativa e si conservava una scaltra,
raffinata umiltà; adoperarsi per demolire la fede dell'uomo in un
ideale radicalmente diverso "celato" nella donna, in un qualunque
eterno e necessario femminino; dissuadere l'uomo, con veemenza e
dovizia d'accenti, dalla necessità di mantenere, curare,
proteggere, trattare con ogni riguardo la donna, al pari di un
animale domestico molto delicato, singolarmente selvatico e spesso
amabile; andare ovunque alla ricerca, con malagrazia e dispetto,
di tutte quelle forme di schiavitù e di servaggio che la posizione
della donna nell'ordinamento sociale durato fino a oggi ha avuto e
ancora ha in s‚ (come se la schiavitù fosse un argomento in
contrario e non piuttosto una condizione di ogni civiltà
superiore, di ogni elevazione della civiltà) - che cosa significa
tutto ciò se non uno sbriciolamento degli istinti femminili, una
sfemminizzazione? Indubbiamente, tra i dotti asini di sesso
maschile esiste un certo numero di rimbecilliti amici delle donne,
che consigliano alla donna di sfemminizzarsi in questo modo e di
imitare tutte le sciocchezze di cui in Europa è malato l'uomo, la
'mascolinità' europea - e costoro vorrebbero degradare la donna
fino alla 'cultura generale', o addirittura fino a leggere
giornali e occuparsi di politica. Qua e là si vuol persino
trasformare le donne in liberi pensatori e letterati: come se una
donna irreligiosa non fosse per un uomo profondo e ateo qualcosa
di assolutamente ripugnante o ridicolo -; quasi ovunque si corrode
i loro nervi con i generi più morbosi e più pericolosi di musica
(la nostra modernissima musica tedesca), ed esse vengono rese ogni
giorno più isteriche e più inette al loro primo e ultimo compito,
quello di dare alla luce figli vigorosi. Si vuole soprattutto
ancor più 'indottrinarle' e, come si suol dire, fortificare, con
la cultura, il 'sesso debole', come se la storia non ci
insegnasse, nel modo più incisivo possibile, che 'indottrinamento'
dell'uomo e infiacchimento - cioè infiacchimento, disgregazione,
infermità della "forza volitiva", sono sempre andati di pari
passo, e che le donne più potenti e più ricche d'influenza (non
ultima anche la madre di Napoleone) dovevano proprio alla loro
forza di volontà - e non ai precettori! - il loro potere e il loro
sopravvento sugli uomini. Quel che nella donna ispira rispetto e
abbastanza spesso timore, è la sua natura, che è 'più naturale' di
quella virile, la sua intatta e scaltra elasticità ferina, le sue
unghie di tigre sotto il guanto, la sua ingenuità nell'egoismo, la
sua incapacità di ricevere un'educazione e la sua intima
selvatichezza, quel tanto d'inafferrabile, di sterminato e
d'errabondo che è nelle sue brame e nelle sue virtù... Quel che ad
onta di ogni timore suscita pietà per questa gatta pericolosa e
bella - la 'donna' - sta nel fatto che essa sembra più sofferente,
più vulnerabile, più bisognosa d'amore e più condannata alla
disillusione di qualsiasi altro animale. Timore e pietà: fino a
oggi l'uomo si è posto dinanzi alla donna con questi sentimenti,
sempre con un piede nella tragedia che, mentre ammalia, lacera. -
Che cosa? E tutto questo sarebbe oggi finito? Sarebbe forse in
atto il "disincantamento" della donna? Starebbe lentamente
crescendo la sua trasformazione in creatura noiosa? Oh Europa! Oh
Europa! Conosciamo l'animale cornuto che ha esercitato su di te
un'attrazione sempre più grande e il cui pericolo torna sempre di
nuovo a minacciarti! La tua antica favola potrebbe una qualche
volta divenire 'storia' - ancora una volta una mostruosa stupidità
potrebbe ridurti in sua signoria e trascinarti lontano! E nessun
dio si nasconderebbe sotto di essa, no! ma soltanto un''idea',
un''idea moderna'!...