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Il dominio maschile
Pierre BourdieuLa domination masculine, Édition du Seuil
pagine 151
8,00 euro
1998, ed. italiana 1999
Feltrinelli, Milano
L'ordine delle cose non è un ordine naturale contro il quale non si possa far nulla. È piuttosto una costruzione mentale, una visione del mondo con la quale l'uomo appaga la sua sete di dominio. Una visione talmente esclusiva che le stesse donne, che ne sono le vittime, l'hanno integrata nel proprio modo di pensare e nell'accettazione inconscia di inferiorità. Solo l'antropologo può restituire al principio che fonda la differenza tra maschile e femminile il suo carattere arbitrario, contingente, ma anche, contemporaneamente, la sua necessità sociologica. Bourdieu prende spunto dalle strutture androcentriche dei cabili in Algeria per dimostrare la continuità della visione fallocratica del mondo nell'inconscio di uomini e donne. Anche nelle donne che, secondo il sociologo francese, partecipano passivamente al dominio maschile. Ne risulta una denuncia, tanto più efficace politicamente in quanto scientificamente fondata, dei molti paradossi che il rapporto tra i generi finisce per alimentare, oltre a un invito a riconsiderare, accanto all'unità domestica, l'azione di quelle istanze superiori - la chiesa, la scuola, lo stato responsabili in ultima analisi del dominio maschile.Indice
1. Maschile e femminile
2. Genere
3. Incorporazione
4. Dominante/dominato
5. Violenza simbolica
6. Economia dei beni simbolici
7. Ordine simbolico
8. Destoricizzazione
9. Struttura sociale e struttura cognitiva
10.Riproduzione sociale
Questo lavoro di Bourdieu prende le mosse da un percorso iniziato con la sua ricerca tra i Cabili dell’Algeria. È durante l’osservazione delle dinamiche intercorrenti tra uomini e donne in questa comunità che ha cercato di “spezzare il nesso di familiarità ingannevole” che lo legava ad una pratica sociale “naturalizzata”, o, come direbbe lui, “incorporata” di differenziazione tra maschile e femminile. B. trova stupefacente che l’ordine del mondo venga quasi sempre rispettato, si riproduca e si perpetui tanto facilmente da far accettare agli individui, come naturale, un’esistenza nelle condizioni più intollerabili. L’esempio per eccellenza di questa sottomissione alle “cose del mondo” sembra ritrovarsi proprio nelle pratiche, implicite ed esplicite, del dominio maschile, effetto di quella che B. chiama “la violenza simbolica”: una sorta di imposizione coercitiva di norme e di habitus, e quindi di posizioni sociali, perpetuata attraverso le vie simboliche della comunicazione e della conoscenza, di cui le stesse vittime non percepiscono la presenza, se non in controluce. Per comprendere a pieno le dinamiche di azione del dominio maschile, B. cerca, innanzitutto, di rendere evidenti i processi che portano a trasformare la storia in natura, l’arbitrio culturale in norma innata, così da poter guardare il nostro stesso universo con gli occhi dell’antropologo e restituire al principio della differenza tra maschile e femminile il carattere di arbitrarietà che gli appartiene. Quella che ci pone di fronte B. è “un’immagine ingrandita” dell’oggetto dell’analisi che ci proponiamo di attuare: sia gli uomini che le donne prendono parte alla costruzione e alla perpetuazione del dominio maschile. Tutti gli attori sociali facenti parte di una società organizzata secondo il principio androcentrico hanno incorporato le strutture storiche dell’ordine maschile, sottoforma di schemi inconsci di percezione e valutazione del mondo che li circonda. Per questo il tranello nel quale B. invita il lettore ( e se stesso) a non cadere è proprio quello di utilizzare i modi di pensiero prodotti da tale dominio per analizzarlo. La strategia alla quale ricorre B. è, dunque, quella di analizzare una società storica particolare, i Berberi della Cabilia, per portare avanti una sorta di “esperimento di laboratorio”, nel quale osservare con uno sguardo esterno tutte le tappe di costruzione e socializzazione delle pratiche corporee e, parallelamente, i mezzi con cui si attua il dominio. Nella prima parte del testo B. si propone di scavare all’interno degli schemi cognitivi e sociali che pervadono la nostra società, evidenziando una cosmologia alla quale i corpi stessi tendono ad adattarsi. L’opposizione tra maschile e femminile diviene necessità oggettiva e soggettiva nel momento in cui si va ad inserire in un sistema di opposizioni omologhe (alto/basso, sopra/sotto ecc…), nelle quali si immergono i corpi. Questi schemi di pensiero registrano come differenze di natura scarti e tratti distintivi che essi stessi contribuiscono a far esistere, “naturalizzandoli” attraverso la loro inscrizione in un sistema di differenze che appaiono naturali. In questo senso, l’ordine sociale assume le sembianze di una macchina simbolica che serve a ratificare il dominio maschile sul quale si fonda. Infatti esso produce simboli che riproducono e confermano, con atti di legittimazione, il suo principio fondatore: il dominio maschile. B. parla di un “programma sociale di percezione incorporato” che si applica a tutto ciò che ci sta intorno e quindi anche al corpo biologico. Proprio tramite questa “strategia” (perpetuata e naturalizzata anch’essa) si può fare della differenza biologica e anatomica tra gli organi sessuali la giustificazione naturale di una differenza socialmente costruita tra i generi. Si nota in maniera inequivocabile che i dominati, in questo caso le donne, applicano a ciò che li domina schemi prodotti dal dominio, quindi questi atti di conoscenza sono in realtà atti di “riconoscenza“. Il dominio maschile viene incorporato sia dai dominanti (uomini) che dai dominati (donne), che lo reiterano con riti di istituzione e continui richiami silenziosi all’ordine, tanto da fargli trovare naturale e indispensabile “divenire ciò che sono”, confermando prima di tutto a sé stessi la propria “natura”. Questa adesione che viene accordata dal dominante al dominato si costruisce, o meglio si istituisce attraverso la “violenza simbolica”, che si esercita sui corpi in assenza di una costrizione fisica. Il dominato ha a disposizione soltanto gli strumenti di conoscenza che ha in comune con il dominante e con questi il rapporto di subordinazione tra i due si rappresenta come naturale. Si attivano una serie di disposizioni (habitus) che fanno già parte degli schemi cognitivi incorporati in coloro che ne sono gli oggetti. Secondo B. c’è stato nella nostra società un così lungo e reiterato lavoro di “socializzazione del biologico” e di “biologizzazione del sociale” da invertire il rapporto tra le cause e gli effetti, arrivando a far sembrare la costruzione naturalizzata del sociale (i generi) come la base in natura della divisione arbitraria che viene applicata alla realtà e alle sue rappresentazioni. L’uso che fa B. dell’etnografia in questo lavoro, come il mezzo per evidenziare la “naturalizzazione” della divisione tra i sessi, riassociandola alla storia, rischia di dare una rappresentazione di eternità al rapporto tra i sessi, quindi nella seconda parte del testo, egli si impegna a trattare, paradossalmente, le invarianti, le “costanti nascoste”, che si riscontrano nei rapporti di dominio tra i sessi, a prescindere da tutte le trasformazioni visibili che ha subito la condizione femminile nei secoli. L’esperienza del corpo per la donna è l’applicazione alla propria fisicità degli schemi fondamentali prodotti dall’incorporazione delle strutture sociali, continuamente rafforzate dalle reazioni che il proprio corpo suscita negli altri. L’essere femminile, l’esistere del corpo della donna, è sempre un essere-percepito (percipi), in quanto costruito dal dominio maschile come oggetto simbolico. Si esperisce così un corpo alienato che esiste solo in un rapporto di dipendenza (rapporto di eteronomia). Nonostante ciò, la struttura non lascia fuori dalle sue maglie nemmeno l’uomo, che non può non applicare a sé stesso, e quindi al suo corpo, gli stessi schemi dell’inconscio che definiscono l’ordine sociale. In questo modo si generano delle esigenze, che producono delle disposizioni che devono essere realizzate, per rientrare a pieno titolo nella categoria di cui egli fa parte. In linea con gli assunti fino a qui esplicitati, la terza parte pone al centro dell’indagine i meccanismi e le istituzioni storiche che hanno permesso il perpetuarsi di questo ordine sociale incorporato e reso quindi naturale, normale. B. rileva il contributo fondamentale avuto da tre istanze alla realizzazione delle strutture inconsce del dominio maschile: in primo luogo la famiglia, l’ “unità domestica”, e la chiesa, prese ad emblema e spesso sopravvalutate dal discorso femminista, ma, in particolare, la scuola e lo stato, che si impongono come luoghi di elaborazione dei “destini sociali” e quindi anche dell’immagine intima di sé. Nella conclusione B. si sbilancia nel cercare di proporre un modalità di azione che possa spezzare questa “causalità circolare” che pervade la struttura sociale nella sua totalità, affermando la portata infruttuosa degli appelli postmoderni al superamento dei dualismi. Dal momento che la costanza trans-storica del rapporto di dominio maschile non è l’effetto solamente di una nominazione verbale, e dunque non è abrogabile con un semplice atto di “magia performativa”, (un atto volontario di abdicazione), solo un’azione politica che prenda coscientemente in considerazione tutti gli effetti del dominio, che si perpetuano attraverso la complicità delle strutture incorporate con le strutture delle grandi istituzioni, le quali contribuiscono a riprodurre tutto l’ordine sociale, potrà contribuire a far decadere progressivamente questa forma di dominio.