|
||||||||||||||||||
Giovani senza tempo. Il mito della giovinezza nella società globale
Alessandro Dal Lago, Augusta Molinari (a cura di)
pagine 230
15,00 euro
2001
Ombre Corte, Verona
I saggi raccolti nel volume documentano il tentativo di riflettere da diversi punti di vista sulla condizione giovanile a partire dalla sua inafferrabilità. Se ancora vent’anni fa la categoria della giovinezza per quanto generica e sfuggente si presentava come una dimensione temporale dotata di senso, con l’affermarsi dei processi di globalizzazione essa diventa una condizione incerta e virtuale. La nuova cultura del lavoro abolisce la segmentazione dell’esistenza in fasce definite, il tempo biografico del lavoro impone una formazione continua e una precarietà occupazionale che rende tutti giovani per sempre o precocemente vecchi. I giovani diventano una presenza reale solo come figure pubbliche minacciose e inquietanti. Sono i "mostri", attraverso i quali la società racconta le proprie ossessioni, esibisce le proprie merci immateriali e soprattutto le proprie pulsioni.
Indice
Introduzione
I giovani: una costruzione sociale di successo
di Alessandro Dal lago e Augusta Molinari
L'inafferrabile giovinezza. A proposito di una categoria
di Marco d'Eramo
Nella crisi della cittadinanza
di Sandro Mezzadra
Quel che resta del tempo. La temporalità del lavoro femminile in epoca postfordista
di Iaia Vantaggiato
Culture aereosol. Storie di writer
di Antonella De Palma
Il panico è necessario. Appunti per una storia sociale e controculturale dell'innovazione informatica
di Raf "Valvola" Scelsi
I suoni del conflitto. Giovani e musiche ribelli nell'Italia del secondo dopo guerra
di Maria Teresa Torti
Liverpool-Genoa, marzo 1992
di Rocco De Biasi
Corpi al lavoro. Un'analisi etnografica delle palestre
di Emilio QuadrelliLa "questione giovanile" e il nuovo ordine sociale
di Salvatore Palidda
Recensioni
Le parole e le cose della soveanità
Sandro Chignola
il manifesto - 3-11-2005
Vi sono parole, del dibattito filosofico-politico, il cui successo e la cui diffusione veicolano il rischio di una progressiva indeterminazione. Biopolitica è uno di questi. Introdotto alla metà degli anni `70 da Michel Foucault in pagine decisive della Volontà di sapere e poi ripreso, come strumento per la perimetrazione ed il dissodamento del campo di ricerca di cui rendono conto i Corsi tenuti al College de France (Il faut défendre la société, 1975-76; Sécurité, territoire et population, 1977-78; Naissance de la biopolitique, 1978-79: tutti già tradotti o in corso di traduzione in italiano), il termine biopolitica viene a svolgere il ruolo di catalizzatore per molte delle più influenti prese di parola della filosofia contemporanea. La tesi di Foucault è nota: l'imporsi della centralità del mercato e dello scambio modula una differente arte del governo rispetto alle tradizionali prerogative della sovranità. Se il cuore nero della sovranità moderna, il lato oscuro del formalismo delle categorie del diritto borghese - come la grande tradizione reazionaria dei De Maistre e dei Donoso Cortès aveva da sempre ben compreso -, è la morte, la possibilità di decidere sulla vita - «metafora assoluta», quest'ultima, la pena di morte o il potere puramente discrezionale e sanzionatorio, per le funzioni essenzialmente sottrattive di una sovranità che si rapporta in termini di puro consumo e di stretta fiscalità rispetto alla ricchezza, alle energie e alle risorse dei suoi sudditi - il biopotere liberale viene esercitandosi, invece, come governo di rapporti e relazioni che si tratta di far crescere e di far proliferare. Come presa in carico, cioè, di un circuito che si costituisce come esteriorità inassimiliabile per il potere e rispetto al quale, il potere stesso può perciò riferirsi solo in termini dimidiati e indiretti. Attraverso tecnologie di governo, non atti sovrani.
Se per il Walter Benjamin del Dramma barocco tedesco il sovrano assoluto tiene in mano l'«accadere» come uno scettro, crea e respinge nel nulla valorizzando così le prerogative di un potere che secolarizza l'immagine teologico-politica della creatio ex nihilo divina, il potere liberale si esercita invece come «presa in cura» di un sistema di relazioni che lo precedono, lo eccedono, e la cui realtà deve essere assunta come un dato da produrre, accogliere , evidenziare e incentivare.
Genealogia dell'attualità
In questione non è ovviamente per Foucault solo un passaggio storico. Si tratta, al contrario, di porre in essere un'altra genealogia dell'attualità. Di verificare un altro angolo di incidenza nella diagonale da tracciarsi tra presente e storia. Un presente per comprendere il - e per agire politicamente nel - quale è necessario liberarsi dall'ossessione della sovranità, «tagliare la testa al re» anche nello spazio apparentemente «vuoto» della teoria e nel quale tuttavia insiste l'ombra spettrale della sua maestà. Perché, appunto, la «decisione» sovrana non rappresenta più il nucleo irriducibile del Leviatano e l'ordine politico neoliberale che Foucault decifra, con straordinaria anticipazione, nelle teorie degli economisti austriaci e della scuola di Chicago non è tenuto in tensione dalle figure classiche della rappresentazione, della legge e dell'interdizione, ma da strategie di governo che si intrecciano positivamente, lubrificandone ed accelerandone i flussi, con il movimento della ricchezza e dello scambio. Ciò che a quest'altezza è in questione è per Foucault, letteralmente, una diversa economia del potere.
Di qui la presa in conto della vita. L'apparizione di territorio e popolazione come referenti necessari per un'azione di governo che si applica a fenomenologie della soggettività non riducibili alla pura astrattezza delle declaratorie costituzionali. Il popolo appare nella sua rude concretezza di «razza», con una definizione che da storica si fa strettamente biologica. Come «oggetto» di una cura pastorale, il cui codice si trasmette dall'ebraismo agli apparati di sicurezza dello Stato sociale. E in ogni caso come sistema di rapporti viventi: materia che impone lo slittamento dalla rappresentazione di un generale (l'universale astratto del diritto) alla disciplina del concreto che passa, simultaneamente, attraverso il singolo e la collettività.
Il punto di applicazione della regola (non della legge) è la società civile, l'inestricabile circuito di rapporti formato dall'indisponibile e sempre contingente rideterminarsi dell'interesse di tutti come effetto del calcolo di utilità individuale. Che da «vizio» si fa risorsa. Istanza da coltivare e da disciplinare. Da mettere a valore. Così come l'intero capitale umano. Sistema di affetti e di relazioni, di facoltà speciespecifiche e di linguaggio, di potenza di cooperazione e di capacità di interconnessione sociale, che vanno assunte come la «vita» che le nuove tecnologie di governo non possono integralmente includere, e tuttavia nemmeno ignorare.
Il sistema di governo liberale agisce perciò nella pausa, nella sospensione, che esiste tra una carenza ed un eccesso: agisce come una disciplina (perché il sistema di rapporti della società civile è permanentemente esposto alla spinta entropica degli egoismi individuali che lo mettono in moto e che lo tengono in tensione) e deve sapersi frenare (per non interrompere l'autopoiesi sociale e non soffocare ciò che esso deve invece continuare ad alimentare: il ciclo dello scambio e della messa a valore). L'apparente paradosso di un'azione astensiva, di una ritrazione produttiva che non può darsi nella forma di una secca scissione del politico dal vivente complesso dei rapporti sociali, è ciò che identifica lo Stato liberale.
Disseminazioni secolari
E' a partire da questa duplice problematizzazione foucaultiana (la discontinuità introdotta dalla politica della vita rispetto al paradigma della sovranità, dapprima, e quindi l'assunzione di una specifica «economia» del potere e del suo esercizio oltre le figure classiche della statualità), che il termine ha fatto irruzione nel dibattito contemporaneo. Una recente antologia (Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, a cura di Antonella Cutro, ombre corte, pp. 170, € 16,00) cerca di mettere ordine nella sua poliforme multiversità.
Va detto che il libro presenta dei limiti. Da un lato, la necessità di rendere conto di quella che la curatrice chiama la «disseminazione» del termine per l'intero Novecento (una disseminazione cui qualcuno, per una feroce ironia della storia, ha pensato di porre rimedio sottoponendo la stessa espressione bio-politics a copyright) sembra finire con l'inseguire più l'occorrenza della parola, di quanto non contribuisca alla costruzione del concetto. Da questo punto di vista, le pagine dedicate alla ricognizione del paradigma biopolitico nel dibattito evoluzionista o sociobiologico, nella teoria geopolitica della storia o dedicate, ancora, al recupero di una teoria «olistica» della politica, si dimostrano piuttosto diseconomiche rispetto alle stesse intenzioni del volume. Dall'altro, la pur necessaria brevità dei testi proposti nella sezione più propriamente filosofico-politica (tratti dai lavori di Agamben, Rancière, Latour, Haraway, Rabinow, Feher ed Heller, Hardt e Negri, Esposito) rischia di non rendere possibile al lettore farsi un'idea precisa di quanto è qui in questione.
E tuttavia la scelta di concentrare le pagine attorno al fulcro foucaultiano, permettendo così di constatare come tutti gli autori convocati sulla scena abbiano accolto, rettificato o eccepito la radicale innovazione di paradigma proposta da Foucault, si dimostra una scelta felice. Che rende possibile un effetto unitario, altrimenti difficile a prodursi.
Agamben contesta a Foucault la discontinuità determinata dall'emersione del paradigma del governo. Biopolitica è la relazione politica originaria in cui la «nuda vita» viene prodotta come soglia di articolazione tra natura e cultura, zoé e bíos. Il ragionamento di Foucault viene eccepito nella misura in cui ne viene contestato il dualismo di fondo, quello che gli permette di immaginare una diversa «economia dei corpi e dei piaceri» che sfugga alle tecnologie disciplinari del governo liberale. Il corpo stesso è, per Agamben, già da sempre preso in un dispositivo biopolitico che lo inscrive in un ordine di rapporti di inclusione ed esclusione che rende a sua volta impossibile l'ancoraggio ad esso di una qualsiasi pratica di resistenza.
Tra politica e polizia
Un'analoga preoccupazione teorico-politica guida la presa di posizione di Rancière: interessato com'è alla teoria del potere, Foucault perderebbe di vista il problema della soggettivazione polemica e divisiva che caratterizza la politica in quanto pratica immanente di riconfigurazione conflittuale della topologia delle classi. L'insistenza foucaultiana sul tema del biopotere e la stessa interscambiabilità dei termini biopotere e biopolitica nell'apparato di riflessione di Foucault avrebbero come esito proprio quello di trattenere come decisivo il punto di vista che trascrive il politico a partire dalla prospettiva del potere. Per Ranciére, di contro, il sociale non può essere sostanzializzato come oggetto di cura biopolitica. Il sociale è un dispositivo di soggettivazione. La posta in gioco della partizione tra politica e police.
Latour e Haraway, per parte loro, contestano rispettivamente a Foucault, il primo l'assunzione della discontinuità storica, la seconda, il dato della naturalità corporea. Per Latour, i termini biopotere e biopolitica avrebbero un effetto paralizzante, ipnotico, rispetto alla teoria. Tale effetto, sarebbe determinato dalla semplificazione che la filosofia politica si è autoassegnata pensando il soggetto come disincarnato. Da sempre invece, non come vorrebbe invece Foucault solo a partire dall'imporsi delle tecnologie liberali di governo, il vivente sarebbe incorporato al discorso politico. Haraway, per parte sua, assume il dato di come organismi non si nasca. L'organismo è un costrutto; un qualcosa che si fa. E ogni oggetto - anche la persona - deve essere pensato in termini di smontaggio e di riassemblaggio, radicalizzando l'intuizione foucaultiana sul gioco di saperi/poteri implicati nella definizione dell'identità. Una posizione non dissimile - quanto meno in relazione alla denuncia di una possibile rinaturalizzazione delle identità che faccia leva sulla politicizzazione del corpo, come rischia di accadere in molta della «biopolitica contemporanea» - viene argomentata da Ferenc Feher ed Agnes Heller.
Rabinow assume da Foucault l'idea di una produzione discorsiva dell'umano. La celebre immagine di una prossima scomparsa dell'uomo di Le parole e le cose è la cifra della posizione che assume quest'ultimo come puro effetto dei linguaggi che lo hanno prodotto. L'umano diventa per Rabinow esattamente quanto la tecnologia si impegna a ricostituire. La vita, la posta in gioco di un'antropologia da ripensarsi all'incrocio tra genetica e tecnologia. Il biopotere non il sistema di governo che insegue, per disciplinarla, la vita, ma lo spazio di esercizio di una microtecnica (non di una microfisica, quindi) in grado di ri-creare l'umano.
Oltre l'accademia
L'argomentazione di Esposito critica in Foucault la divaricazione che articola il rapporto tra potere e vita. Politica sulla vita o politica della vita. Problematizzandola, Esposito legge invece il rapporto tra politica e vita inscrivendolo nel dispositivo biopolitico dell'immunità: protezione negativa della vita. Rispetto alla quale la vita afferma la sua integrale esposizione. La fragilità di una nuda vita riferita all'altro che può darsi come dono - il munus di una com-munitas a venire (come in Jean-Luc Nancy) - oppure rovesciarsi nella catastrofe di un'assoluta prevaricazione. La tanatopolitica nazista come compimento perverso della biopolitica moderna. E come rischio permanente di quest'ultima.
C'è anche la possibilità di una biopolitica positiva, affermativa, quindi. Politica della vita. Non la sola, dura, sussunzione della vita al potere. Hardt e Negri hanno articolato questo tema in pagine molto note di Impero. Biopolitica coincide qui - sulla scia dei Grundrisse marxiani - con un'ontologia della vita, con la potenza di autoaffermazione e di autovalorizzazione del lavoro vivo nel regime postfordista di accumulazione. Con la debordante potenza di una produzione sociale che eccede le - e resiste alle - forme istituzionali e giuridiche del suo imbrigliamento. Biopolitica è la produzione del mondo e della storia. Biopolitico, il terreno del conflitto.
Ed è su questa «apertura», oltre Foucault ed oltre i recinti protetti della discussione accademica, che sarà opportuno tornare a ragionare. Anche per immaginare nuove pratiche di movimento .