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La solitudine del cittadino globale
Zygmunt BaumanIn Search of Politics, Polity, Cambridge
pagine 240
22,00 euro
1999, ed. italiana 2000
Feltrinelli, Milano
Alle glorie della nuova era globale si contrappone la solitudine dell'uomo comune: la socialità è incerta, confusa, sfocata. Si scarica in esplosioni sporadiche e spettacolari per poi ripiegarsi esaurita su se stessa. Per porre un freno a questo processo occorre ritrovare lo spazio in cui pubblico e privato si connettono: l'antica agorà, in cui la libertà individuale può diventare impegno collettivo.
Le politiche neoliberiste degli ultimi vent'anni hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale, esaltando la libertà dell'individuo a scapito della dimensione collettiva. Ma un simile libertà, basata sull'assenza di limiti, sul disinteresse al bene comune e sul conformismo, è in realtà illusoria per la sua sudditanza ai modelli e ai consumi imposti dal mercato, e ha come conseguenza l'aumento dell'impotenza collettiva e la paralisi della politica, diventata sempre più locale e insignificante. Da qui, afferma Bauman, deriva la tormentosa sfiducia esistenziale che caratterizza l'uomo dell'Occidente, il suo senso di solitudine e di precarietà: come i passeggeri di un aereo che si accorgono che la cabina di pilotaggio vuota, e che la voce rassicurante del capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima. E non servono a molto i tentativi dei governi di concentrare questa inquietudine sul solo tema della sicurezza personale. Si fa sempre più urgente, invece, la necessità di ridare il giusto spazio alla collettività e ridefinire la libertà individuale partendo dall'impegno collettivo. La politica deve ritrovare il suo spazio. Bauman lo individua nell'antica agorà, luogo privato e pubblico al tempo stesso. Qui l'uomo occidentale potrà tornare a interrogarsi, e le sofferenze private potranno essere finalmente pensate e vissute come problemi condivisi, comuni e politici.
Recensioni
Bauman, contro la solitudine riscopriamo la politica
Il "cittadino globale"? E' sempre più disperato. Unico rimedio: uno spazio pubblico di confronto
Lo studioso polacco rilancia le tesi della Scuola di Francoforte. Per vincere i disagi individuali prodotti dagli eccessi liberisti
Sparita la critica sociale, cresce il brusio delle sofferenze solitarieSandro Modeo
Il Corriere della sera, 20 Maggio 2000
L'uomo della folla, di Edgar Allan Poe, si apre a Londra "sul finire di una sera autunnale". Attraverso la vetrata dei terrazzi del caffè in cui è seduto, il protagonista vede sfilare la grande massa - la "calca" - in decine di categorie sociali che anticipano quelle di questi anni: per esempio, i giovani "con gli abiti attillati, gli stivali lucidi, i capelli impomatati e le labbra sprezzanti" ricordano tanti giovani manager palestra-fuoristrada-gel-Rolex della neoborghesia cafona italiana. Poi, sempre in rigorosa soggettiva, viene attratto dal volto di un vecchio. Lo pedina: e l'inseguimento, in un succedersi di svolte ubriacante e onirico, che si fa a ogni passo più angoscioso, lo porterà per ventiquattr'ore ininterrotte nelle zone più nebbiose, depressive, alienate della città, le zone del proletariato, dove si respirano un "disagio", un'"irrequietezza", una "disperazione" che sono le stesse viste sul volto del vecchio. Al tramonto successivo, l'inseguitore cede, esasperato dal fatto che l'inseguito ("l'uomo della folla") non si fermi mai, che sia come costretto a macchiarsi del "crimine più abietto", cioè "rifugge la solitudine". Ma è davvero una fuga? Nell'inizio del racconto Poe descrive degli impiegati - dei dannati - che procedono "con fare inquieto, gesticolando e parlando tra sé, come se si sentissero soli proprio a causa della folla".
Dunque, una contraddizione, un'ambiguità: da una parte gli uomini moderni hanno bisogno della folla; dall'altra, quando vi si immergono, si sentono ancora più soli, più estranei a se stessi. E' questa contraddizione a riassumere la ricerca di tre dei massimi sociologi del secondo Novecento: Riesman, Goffman, Bauman. Con La folla solitaria (1948) David Riesman (americano, docente a Harvard) fissa nel titolo l'ambiguità del racconto di Poe. Ma la sua analisi della "società di massa" è lontana dai toni critici della Scuola di Francoforte: è equilibrata, non di denuncia, e il suo sguardo non allarmato, ma attento a chiaroscuri particolari come il dialogo impossibile tra generazioni o il nuovo rapporto tra lavoro e tempo libero.
Più vicino ai francofortesi - ma anche lui tendente allo sguardo oggettivo dell'etologo - è Erving Goffman, canadese attivo soprattutto a Berkeley. Per lui, la società capitalistica dei Paesi "sviluppati" è composta da scenari socialmente predefiniti. Non c'è nessuna sostanza etica nei rapporti: tutto è puramente convenzionale e cerimoniale. E non c'è, quindi, nessuno spazio privato per l'individuo, nessun "recesso intimo" in cui rifugiarsi. Come ricorda nella Vita quotidiana come rappresentazione (1959), l'io biologico (pulsionale) dell'individuo deve cedere il passo all'io sociale: con il risultato finale di una scissione tra personalità e comportamento, e con la conseguenza che chi non si adegua all'aspettativa del teatro sociale viene marchiato con lo "stigma" del deviante e del diverso. Zygmunt Bauman (polacco, già noto per Modernità e Olocausto) prosegue il discorso dei suoi predecessori nel nuovo libro appena tradotto da Feltrinelli (La solitudine del cittadino globale), portandolo nell'attuale contesto socioeconomico. La diagnosi è chiara: la forza di persuasione della sola ideologia rimasta, quella liberal-liberista, è tale da far credere che "non ci siano alternative". O, detto in altri termini, la capacità di creare consenso da parte di tale ideologia è così invasiva da far credere di essersi imposta "naturalmente", e da togliere così ogni capacità critica nei soggetti che la compongono.
Questo non vuol dire che l'individuo (il cittadino) non soffra più. Anzi: secondo Bauman, la sua sofferenza è il rovescio simmetrico di quella descritta da Goffman: consiste, cioè, nel non poter tradurre il disagio personale in questione sociale, il conflitto pulsionale privato nell'"agorà" del dibattito pubblico. I motivi per cui questo brusio di sofferenze solitarie rimane schiacciato e inesploso sono altrettanto chiari: da una parte ci sono l'"incertezza" e la "precarietà" delle nuove - e tanto decantate - economie puntiformi, basate sull'imprevedibilità dei mercati finanziari e sulla flessibilità del lavoro; dall'altra l' "insicurezza" provocata dalle dinamiche dei migranti e dal conseguente innalzarsi del grado di aggressività sociale.
Insomma, tutto dipende dalla crisi (non dalla fine) della politica, dato che appunto l'economia da un lato e la repressione poliziesca dall'altro ne hanno lentamente rosicchiato il terreno operativo. Chiara, infine, è anche la soluzione di Bauman: bisogna ricostituire proprio l'"agorà", lo spazio pubblico del confronto e del conflitto. Anziché lasciarli all'improvvisazione e al caso, come vorrebbero i neoconformisti, i problemi decisivi andrebbero portati alla luce: così, per esempio, il fatto che per la prima volta un passaggio tecnoeconomico (dalla società industriale a quella dei servizi) non riesca a compensare con i vantaggi i disagi che crea, a cominciare dalla disoccupazione. Certo, si tratta di una soluzione forse troppo illuministica, ancora venata di utopia. Ma almeno è una proposta.
L'alternativa è che l'individuo rimanga ibernato nel proprio gelo schizoide, simile al volto cubista - alienato e piangente - che sta sulla copertina del libro di Bauman, opera di Diana Ong. Che rimanga cioè spezzato tra il desiderio di uscire "là fuori", nella città e nel mondo, per trovare la solidarietà degli altri, e il desiderio di isolarsi per proteggersi, illusoriamente, dal loro giudizio e dalla loro ferocia. Lo scacco matto, va da sé, è che in quest'ottica ognuno è giudice e giudicato: il boia e la vittima di un meccanismo perverso che fa il gioco di pochi a spesa di molti, degli uomini della folla.
Stefania Guzzo e Aurelio Garofalo
Facoltà di Economia Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica Ossidiana, 19 aprile 2001
In questo suo lavoro, che ci piace raffigurare come un testo di antropologia politica e sociale, Zygmunt Bauman parte da un apparente paradosso: mentre da una parte non si sente più il bisogno di rivendicare una libertà maggiore di quella che si ha, dall’altra si crede di non poter fare molto per cambiare il modo in cui vanno le cose del mondo. Se anche si riuscisse a produrre un cambiamento, sarebbe vano (o irragionevole) elaborare l’idea di un mondo diverso da quello esistente; e, qualora lo si considerasse migliore, impegnarsi a fondo nella sua costruzione.
L’esperienza comune ci suggerisce che questa è una apparente contraddizione, mentre in realtà la conoscenza individuale dei meccanismi sociali complessi soffre di una ambivalenza (o schizofrenia), che potrebbe essere definita – con Bourdieu – cinica o clinica, a seconda dei casi (cfr. pag. 10).
Cinica: poiché il mondo è quello che è, penserò ad una strategia che mi permetta di sfruttare le sue regole a mio vantaggio; che il mondo sia equo o iniquo, piacevole o no, è una questione irrilevante.
Clinica: se può aiutarmi a combattere efficacemente ciò che considero sbagliato, nocivo o lesivo del mio senso morale.
Da sola, la conoscenza non ci fa decidere per l’uno o l’altro dei casi; la decisione sarà legata alla scelta individuale. Ma senza la conoscenza non esiste quella possibilità di scegliere, con la quale uomini e donne hanno almeno una opportunità di esercitare la propria libertà.
E’ possibile dunque che l’aumento della libertà individuale coincida con l’aumento della impotenza collettiva in quanto i ponti tra la vita pubblica e quella privata sono stati abbattuti; oppure, in altri termini, non esiste un modo semplice di tradurre le preoccupazioni private in questioni pubbliche.
Senza questi ponti, troveranno sempre più espressione nella sfera pubblica le angosce e i tormenti privati, i quali non si trasformano in questioni pubbliche solo per il fatto di essere esibiti pubblicamente (spettacolarizzazione).
Attorno a noi si percepisce una socialità incerta, caotica, confusa, che viene convogliata in esplosioni sporadiche e spettacolari, che si consumano rapidamente: una volta tornati al nostro quotidiano, tutto riprende a funzionare come prima, come se nulla fosse successo: "La migliore amica del male, come sappiamo, è la banalità, e la banalità scambia la routine per il massimo della saggezza" (pag. 15).
L’opportunità di mutare questa condizione dipende dall’agorà, cioè da uno spazio che è insieme privato e pubblico, in cui i problemi si connettono in modo significativo al fine di cercare strumenti gestiti collettivamente ed efficaci da sollevare gli individui dalla miseria subita privatamente; uno spazio in cui possono nascere e formarsi idee quali bene pubblico, società giusta, valori condivisi. Ma il problema è che oggi è rimasto ben poco degli antichi spazi privati/pubblici, e non se ne intravvedono di nuovi idonei a rimpiazzarli.
Il termine Unsicherheit designa bene il complesso delle esperienze definite dalle parole uncertainty (incertezza), insecurity (insicurezza esistenziale) e unsafety (mancanza di protezione per la propria persona, precarietà). La spirale innescata da queste afflizioni costituisce significativamente un impedimento ai rimedi collettivi: le persone che si sentono insicure, che diffidano di ciò che il futuro potrebbe riservare loro e che temono per la propria sicurezza personale, sembrano paralizzate dalle singole incombenze al punto da non riuscire ad immaginare modi diversi di affrontare collettivamente i loro problemi.
D’altro canto, le istituzioni politiche esistenti sono di scarso aiuto, in quanto la loro attività è tutta concentrata sulla componente della sicurezza personale, e l’unico risultato che riescono ad ottenere è quello di seminare il sospetto, di allontanare le persone, fiutare nemici o cospiratori, finendo per isolare di più chi già vive isolato, instillando un vero e proprio clima di allarme sociale e lasciando intatte le vere fonti dell’ansia.
Tutta l’energia prodotta da quest’ansia viene consumata nella ricerca di rimedi privati, isolati, individuali, lasciando inevitabilmente ai margini una più proficua richiesta di spazi pubblici, avvertiti sempre più come inefficaci nel momento delle decisioni. Cosa che facilita chi persegue l’obiettivo di ridimensionarli o eliminarli gradualmente.
Forse, come sostiene Castoriadis (cfr. pag. 14), la nostra civiltà ha smesso di interrogarsi (o forse, si potrebbe aggiungere, ha paura che le risposte siano più laceranti di quanto possano essere le domande): in questo caso, non c’è speranza di trovare risposte ai problemi che l’assillano. "E’ qui che entra in scena la sociologia; essa deve svolgere un ruolo responsabile, e non avrebbe giustificazioni se rifiutasse tale responsabilità" (pag. 14).
"La cornice in cui si inscrivono i temi affrontati dal libro è l’idea che la libertà individuale possa essere solo il prodotto di un impegno collettivo (possa essere difesa e garantita solo collettivamente). Nondimeno, oggi tendiamo alla privatizzazione dei mezzi per assicurare, tutelare e garantire la libertà individuale, e se questa è una terapia per i mali del nostro tempo si tratta di una cura destinata a provocare malattie iatrogene del genere più subdolo e atroce (la povertà di massa, la disoccupazione e la morsa della paura sono le più temibili). La disperata situazione attuale e la prospettiva di porvi rimedio sono rese ancora più complesse dal fatto che viviamo in un periodo di privatizzazione dell’utopia e dei modelli di bene (tale per cui i modelli di "vita buona" tendono a prevalere sul modello di società buona, con il quale non si identificano più). L’arte di trasformare i problemi privati in questioni pubbliche corre il rischio di cadere in disuso e di essere dimenticata; il modo in cui si definiscono i problemi privati rende estremamente difficile la loro "agglomerazione", e quindi il loro cementarsi in una forza politica. Questo libro rappresenta uno sforzo (probabilmente vano, purtroppo) per rendere di nuovo possibile tale conversione" (pag. 15).
Freud, nel Disagio della civiltà, sostiene che la civiltà è uno scambio; essa reca in dono la sicurezza, in quanto libera dalla paura. In cambio pone delle restrizioni alla libertà individuale. Gli istinti sono tenuti a freno, o del tutto soppressi: una condizione infelice, governata dal disagio psichico, dalle nevrosi (principio di piacere vs. principio di realtà).
Oggi i problemi e i malesseri più comuni sono ugualmente il prodotto di uno scambio, ma questa volta è la sicurezza ad essere sacrificata quotidianamente sull’altare della libertà individuale.
Nel testo originale, Freud parla di Sicherheit, termine che riesce a sintetizzare efficacemente almeno tre concetti: security (sicurezza esistenziale), certainty (certezza) e safety (sicurezza personale). L’assenza o l’insufficienza di una delle tre produce pressoché lo stesso effetto: il dissolversi della sicurezza di sé, la perdita di fiducia nelle proprie capacità e nelle altrui intenzioni, alimentando ansia, circospezione, tendenza a trovare capri espiatori, all’aggressione. Tormentosa sfiducia esistenziale: persino la routine quotidiana (ormai spezzata e inaffidabile) è sottoposta ad un esame che genera ansia (il cinema ha spesso rappresentato con intensità questa condizione, pensiamo a film come Sex, Lies and Videotape di Steven Soderbergh, Usa 1989 e Safe di Todd Haynes, Usa 1995).
Oggi le tre componenti della Sicherheit sono oggetto di continui e gravi attacchi, e comportano (ma allo stesso tempo ne sono determinate) l’inafferrabilità dei segnali lungo il proprio percorso esistenziale e la vaghezza dei punti di riferimento. Diviene sempre più evidente che le incertezze del nostro tempo sono "costruite su misura" (A. Giddens), per cui vivere nell’incertezza appare una way of life, o forse il solo modo (rimandiamo alla lettura dell’intervista di Rahola, in cui si parla esplicitamente di long life anxiety).
Numerosi possono essere gli esempi di conflitto tra insicurezza e libertà individuale, a partire dall’aspetto economico. I processi di ristrutturazione tendono a rendere esuberante (nel senso di economicamente insostenibile) gran parte del volume di lavoro svolto dagli individui nel processo produttivo, configurandosi come tendenza strutturale.
La composizione stessa del processo lavorativo è in continuo mutamento, e l’individuo subisce la sfida di una sempre più accentuata flessibilità comportamentale. Emerge un profilo soggettivo singolare, di un camaleonte sociale, il quale prende in prestito frammenti di identità da qualsiasi fonte disponibile, utilizzabili in una sorta di ars combinatoria in chiave assolutamente strumentale. L’identità diventa una personalità temporanea, e la vita stessa un cimitero di identità dismesse o inutilizzabili (cfr. pag. 29). Si innesca una ‘caccia all’identità’ che, lungi dall’ottenere risultati duraturi, ci trasmette l’immagine di uomini e donne alla ricerca perenne di qualcosa che non troveranno mai.
In questo scenario è facile alimentare l’insicurezza. "Al cuore della politica di vita troviamo un desiderio forte e inestinguibile di sicurezza, ma agire in base a quel desiderio rende maggiormente, e sempre più profondamente, insicuri. (…) Indifferenza e irritazione sono tendenzialmente caratteristiche comuni, ma condividere l’irritazione non trasforma le singole vittime in una comunità" (pag. 31)
Allargando lo sguardo, constatiamo che le politiche di aggiustamento strutturale e le direttive standard di Banca Mondiale e FMI, spingono in direzione di un cambiamento sostanziale che prevede un drastico dimagrimento del welfare e una politica di deregulation per quanto riguarda assunzioni e licenziamenti, pena la chiusura dei rubinetti degli aiuti finanziari internazionali.
Flessibilità e deregulation determinano una forte polarizzazione tra e dentro le società, ma che ai due poli vede due distinti gradi di incertezza, anche se il controllo delle situazioni appartiene a coloro la cui libertà di manovra produce maggiore incertezza per gli altri più che per essi stessi. La tendenza attuale è abbattere qualsiasi difesa destinata a limitare il grado di incertezza, mentre le istituzioni politiche si accodano al coro che intona l’elogio delle libere forze di mercato, cause prime dell’incertezza esistenziale.
Bourdieu ha recentemente definito l’essenza delle teorie e delle pratiche neoliberiste come un programma di distruzione delle strutture sociali collettive. Un esempio (anche italiano) è l’attacco sferrato nei confronti delle politiche di contrattazione collettiva, con la conseguente adozione di assunzioni a termine o collaborazioni temporanee che permettono il licenziamento immediato.
Tecniche di assoggettamento che producono stati di incertezza endemica e permanente, il cui unico verbo è fissato dalle imprese e al quale sono chiamati a rispondere tutti coloro che vi dipendono, sempre più in uno stato di paura, di stress, di ansia generati dall’incertezza.
In questo contesto la solidarietà sociale (necessaria a garantire margini di protezione, di fiducia, se non di libertà) viene meno. E’ nota l’affermazione di Margaret Thatcher che recita: "Non esiste una cosa come la società. Esistono singoli uomini e singole donne". Di conseguenza, è frequente constatare sentimenti di rassegnazione generalizzata, riassumibili nell’affermazione "Non c’è niente che io possa fare".
Di fronte alle oscure ‘forze del mercato’, alle oscillazioni apparentemente immotivate delle borse valori, o alle imperscrutabili ‘leggi della competizione’, qualsiasi opzione di resistenza sembra addirittura stravagante a chi ne subisce le conseguenze.
Trasferire l’ansia dal campo dell’insicurezza generale a quello dell’insicurezza personale diventa un riflesso condizionato, con un ‘vantaggio’, che è quello di materializzare paure visibili, tangibili, e dunque in qualche modo combattibili. Come dire: persa la battaglia per una società più giusta e solidale, cerchiamo almeno di rendere accettabile il nostro microcosmo, il nostro cortile di casa.
Il risultato complessivo è stato vividamente descritto da Ronald Hitzler: "Isolarsi, chiudersi dentro, nascondersi: oggi sono questi i modi comuni di reagire alla paura delle cose che accadono "là fuori", che sembrano celare ogni tipo di minaccia. Serrature di sicurezza alla porta, portoni e cancelli sprangati, sistemi di sicurezza multipli, allarmi e videocamere si sono diffusi dalle ville dell’alta borghesia alle zone medio-borghesi. Vivere dietro un muro di serrature meccaniche e sbarramenti elettronici, allarmi sonori, spray irritanti e lacrimogeni fa parte della strategia di sopravvivenza urbana dell’individuo" (pag. 57).
Aggiunge Bauman: "Le sofferenze che ci tormentano quasi in continuazione non si sommano e perciò non uniscono le loro vittime. Le nostre sofferenze dividono e isolano: i nostri tormenti ci separano, lacerando il tessuto delicato delle solidarietà umane. (…) Il mondo contemporaneo è un contenitore colmo fino all’orlo di una paura e di una frustrazione diffuse, alla ricerca di uno sfogo che chiunque soffra possa ragionevolmente sperare di avere in comune con altri" (pag. 61).
"Essere un individuo non significa necessariamente essere libero. La forma di individualità proposta nella società tardomoderna o postmoderna, e in verità la forma più comune in questo genere di società, l’individualità privatizzata, denota essenzialmente la condivisione di non-libertà" (pag. 69).
Oggi è stata capovolta, ad esempio, la definizione di pubblico, diventato uno spazio in cui esibire faccende private. Lo tengono assieme le disperate (o rabbiose) richieste di aiuto degli individui, incapaci di dare un senso alle emozioni e agli stati d’animo privati, rimasti fin qui inespressi. L’elenco delle questioni pubbliche non è diverso da quello delle faccende private, e non è niente di più della somma delle sue voci.
Questa nuova definizione di pubblico assomiglia sempre più al pubblico dei talk show televisivi. Esso può applaudire o fischiare, approvare o condannare, ammirare o deridere, incoraggiare o scoraggiare, elogiare o rimproverare; può fare solo questo, in un quadro che assomiglia alla parodia (o al simulacro) della partecipazione democratica. Ma non può farsi carico del problema al posto dell’individuo, assumerne le responsabilità.
Gli individui partecipano o assistono ai talk show soli, con i loro problemi messi in mostra, e – passato il canonico quarto d’ora di notorietà – quando lo spettacolo finisce sono immersi ancora di più nella loro solitudine (esemplare, a questo riguardo, ne é la glaciale raffigurazione in un romanzo di Luca Doninelli dal titolo Talk show, Garzanti 1996).
E’ la stessa libertà a cambiare volto, nel senso che la libertà del genere umano è stata tradotta in libertà di ciascuno dei suoi membri, una libertà che – senza spazi di socialità condivisa – scivola gradualmente nell’isolamento, nella solitudine.
Secondo Thomas Mathiesen, al modello del Panopticon, strumento efficace di controllo sociale, si è sostituito il modello del Synopticon: oggi non sono più i pochi a guardare i molti, bensì i molti a guardare i pochi (cfr. pag. 76). Del resto ai molti non resta altro che guardare: poiché non sono dediti a coltivare virtù pubbliche, cercano senso e ricompense emozionali solo in modelli esemplarmente messi sotto i riflettori. Guardano volentieri, e con piacere; anzi, chiedono insistentemente e chiaramente di poter guardare solo quello (cfr. Ignacio Ramonet e Marc Augé, in Le monde diplomatique/il manifesto, giugno 2001). Sottrarre la vita privata allo sguardo pubblico non è più un tema all’ordine del giorno, se non per la sua forma legittima di tutela che passa sotto il nome di privacy.
Se il Panopticon rappresentava la guerra di logoramento contro il privato, il Synopticon riflette la scomparsa del pubblico, l’invasione della sfera pubblica da parte di quella privata, la sua lenta ma inesorabile conquista.
Ma è questo il genere di libertà promesso dai pionieri della società moderna?
Anche il ruolo della politica si struttura, di conseguenza, in maniera radicalmente diversa. Per tutta la fase classica della modernità lo strumento principale per definire l’agenda delle opzioni politiche è stata la legislazione. Oggi questa funzione viene progressivamente ceduta a forze diverse dalle istituzioni politiche.
L’effetto più importante del ridimensionamento dello stato è una maggiore esposizione (di governanti e cittadini) all’impatto di forze non politiche, in primo luogo quelle associate ai mercati finanziari e commerciali. La legislazione tradizionale, insomma, viene soppiantata dalle pressioni del potere economico (su tutti, come esempio valga la netta posizione di George W. Bush in merito alla ratifica del protocollo di Kyoto, in cui si rivendica con forza il primato dell’economia a scapito delle emergenze ambientali planetarie).
In questo contesto, sottolinea Bourdieu, la pubblicità può efficacemente prendere il posto un tempo occupato dal controllo di polizia (cfr. pag. 81).
L’impressione che si ricava è che il passaggio alla condizione tardomoderna non ha portato una maggiore libertà individuale, nel senso di una maggiore voce in capitolo o una maggiore capacità di negoziare i codici di scelta. Dice Bauman: "Ha solo trasformato l’individuo da cittadino politico in consumatore" (pag. 83).
Dunque, se l’indebolimento delle tre componenti della Sicherheit è certamente reale, il rafforzamento della libertà che si dichiara di aver ottenuto in cambio è in larga misura una illusione: "L’obbedienza al codice è mascherata da una condotta spontanea; il veleno dell’oppressione è stato estratto dal pungiglione della non-libertà" (pagg. 83-84).
In conclusione, possiamo affermare che risulta estremamente difficile rintracciare in questo lavoro di Bauman (ma più complessivamente in tutta la sua produzione più recente, includendovi La società dell’incertezza, Il Mulino 1999 e Dentro la globalizzazione, Laterza 1999) degli indicatori positivi. La sua visione critica non risparmia neanche il modello comunitario, o multicomunitario, legato ai valori dell’identità e delle differenze: "Il "multicomunitarismo", in altre parole, cancella a priori la possibilità di una comunicazione e di uno scambio significativi e reciprocamente vantaggiosi tra culture. Eleva la "purezza culturale" del gruppo al rango di valore supremo e considera una contaminazione ogni manifestazione della capacità di assimilare propria di ogni cultura. Vuole che le culture si rinchiudano da sé nelle loro rispettive fortezze comunitarie (concretamente rappresentate dal ghetto)" (pag. 199).
Resta, però, il suo richiamo alla necessità di un nuovo universalismo, improntato ad uno spirito di solidarietà internazionale ma anche all’esigenza di definire una agenda politica ed istituzionale in grado di affrontare globalmente quelle insicurezze che sono diventate già globali: "La politica deve mettersi alla pari con il potere che ha conquistato la libertà di percorrere lo spazio politicamente incontrollato, e a questo fine deve creare gli strumenti che le permettano di raggiungere gli spazi nei quali tali poteri "fluiscono". Quello che serve è un’istituzione repubblicana internazionale che operi allo stesso livello dei poteri transnazionali" (pag. 192).
Un universalismo che non sia nemico delle differenze e che non esiga "omogeneità" culturali o, addirittura, "purezza" culturale. "L’universalità, in quanto supera i confini delle comunità sovrane o apparentemente sovrane, è la conditio sine qua non di una repubblica che supera i confini degli stati sovrani o apparentemente sovrani; e la repubblica che fa questo è l’unica alternativa alle forze cieche, primitive, erratiche, incontrollate, divisive e polarizzanti della globalizzazione" (pag. 203).