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L'integrità dell'anima. Storie di donne vittime di violenza. Le nuove prassi di intervento
Silvia Lelli
9. “L’integrità dell’anima”: riflessioni conclusive
Meritano un breve accenno, prima di concludere, i resoconti delle donne circa le loro esperienze e come queste si inseriscano all’interno di un percorso e si vadano ad intrecciare, in una sorta di dialogo, con le storie del terapeuta. Storie che comprendono immagini, sequenze ma come già detto più volte, anche immagini metaforiche che riassumono ciò che hanno vissuto o vivono. Immagini traducibili in sentimenti, emozioni, paure, angosce. Immagini portate dalle donne, come cornici della loro esistenza in quel momento specifico, chiare e pungenti.
Bruner (1992), descrivendo la narrazione quale strumento di gestione dei conflitti, afferma che “I racconti trasformano la “realtà” in una realtà attenuata”.
L’esperienza dà vita ai racconti. La narrazione riduce la differenza tra l’ordinario, il canonico e lo straordinario, gestisce il conflitto; l’esperienza si attenua anche e soprattutto nei racconti di donne vittime di violenza.
Mi piace pensare che la terapia possa colorare di tinte nuove e forti i resoconti delle donne.
Che la “realtà” non sia più tenue ma fortemente colorata. Restano “senza risposta” molte domande che continuo a pormi circa il mio intervento, rispetto a quello che avrei potuto fare di diverso, a volte ho difficoltà a fermarmi, a prendere il mio di TEMPO, per non accelerare il mio lavoro, per non affrettare la donna e le sue decisioni. Che non sono le mie.
Il presente lavoro ha cercato di sottolineare come, partendo da un’immagine di normalità (vedi il tema dell’amore e la metafora dell’integrità di un’anima scossa, ferita) si possa, nelle situazioni di violenza più o meno conclamata, lavorare per costruire nuovi significati, nuove possibilità.
Del resto, mi piace pensare alla psicoterapia, nello specifico alla psicoterapia appartenenti alla tradizione postmoderna della psicologia come a psicoterapie della speranza.
Mi piace pensare al lavoro con le donne vittime di maltrattamenti come ad uno spazio di incontro (tra me e loro) delimitato da una macro cornice, una grande immagine di metafora, quello di un’integrità dell’“anima” sottoposta a continue scosse ma sempre e comunque intatta.
Integrità come nucleo che le fa ancora stare in piedi, che ha permesso loro di fare ancora, di decidere ancora, di giungere fino a me e chiedere aiuto.
Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario. Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi. Durante la marcia si fermò a un tempio scintoista e disse ai suoi uomini: “Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo. Siamo nelle mani del destino.
Nobunaga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò la moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà.
“Nessuno può cambiare il destino” disse a Nobunaga il suo aiutante dopo la battaglia.
“No davvero” disse Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutte e due le facce.( “Nelle mani del destino”, da 101 Storie Zen a cura di N. Senzaki e P. Reps)