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L'integrità dell'anima. Storie di donne vittime di violenza. Le nuove prassi di intervento
Silvia Lelli
5. “Frammenti di un discorso amoroso”
Nell’accingermi a raccontare alcune storie di donne, utili se non necessari punti di partenza per una descrizione più immediata (e forse più efficace) del lavoro che vado a presentare nella seconda parte, mi è parso interessante accennare brevemente al tema dell’ “amore” così come viene raccontato da alcuni studiosi ( e non) dell’argomento in quanto alla base delle relazioni tra le persone.
La relazione violenta è comunque una relazione.
Il punto di partenza è il modo di raccontarsi della donna all’interno di una particolare relazione, quella maltrattante.
Afferma Fromm (1956): “Ogni teoria d’amore dovrebbe incominciare con la teoria dell’esistenza umana”.
L’uomo è messo di fronte alla soluzione di un eterno problema, dice sempre Fromm, il problema di come superare la solitudine e raggiungere l’unione.
L’unione può essere raggiunta in vari modi tra i quali la ricerca di unione simbiotica che suddivide in una forma passiva (masochismo) ed una forma attiva (sadismo).
La forma passiva è rappresentata da tutte quelle situazioni nelle quali sussiste sottomissione.
Il “masochista” sfugge all’insopportabile senso di solitudine, divenendo parte di un’altra persona che lo domina, lo guida, lo protegge.
La forma attiva viene descritta come comprendente quelle situazioni dove vi è dominio.
Il “sadico” è colui (o colei) che vuole sfuggire al proprio senso di isolamento impossessandosi di un’altra persona. Il “sadico”è legato alla sua vittima così come quest’ultimo è subordinato al primo; non può vivere senza l’altro.
L’alternativa, in contrasto con l’unione simbiotica, è l’amore maturo, afferma ancora Fromm, che è unione a condizione di preservare la propria integrità.
Umberto Galimberti nel suo recente lavoro “Le cose dell’amore” (2004) nello specifico nel paragrafo dedicato all’ Amore e possesso parla di “l’affermazione di sé nell’annullamento dell’altro”. Sembra non esistere passione senza che questo sentimento sfoci nell’immedesimazione con l’altro, con conseguente perdita o smarrimento della propria identità, oppure nel possesso della persona amata, con la tendenza ad escluderla dal mondo […].
In particolare, per quanto riguarda il possesso quale modalità di manifestazione della passione e dell’amore, viene citato Malek Chebel che nel suo “Il libro delle seduzioni” (1996) dice: “ La possessività è il culmine di una pulsione onnipervasiva che distrugge qualsiasi cosa al suo passaggio. […] All’inizio assume l’aspetto di una sorta di manovra d’ accerchiamento di routine, quindi inoffensiva. Poi si trasforma in una specie di reticolato militare, per divenire infine una tecnica di perquisizione costante del territorio dell’altro […]”.
Interessante diviene la riflessione secondo la quale l’amante (il carnefice) è fragile perché non può che desiderare, mentre l’amato (la vittima), per imprigionato che sia dall’amore-possesso, può giocare con il desiderio dell’amante, provocandolo o annullandolo, esaltandolo o deludendolo, fino a farlo dimettere come soggetto del potere […] Si giunge quindi a quella situazione paradossale in cui la posizione dell’amante diventa insostenibile e il gioco passa nelle mani dell’amato […]
Roland Barthes nel suo libro “Frammenti di un discorso amoroso” (1979) traccia in maniera ancor più chiara la sofferenza conseguente ad una relazione vissuta come insostenibile. La coscienza di un accumulo delle sofferenze amorose trova sfogo con questa frase: “Così non può continuare”.“Eppure , la cosa va avanti, se non per sempre, almeno per molto tempo. La pazienza amorosa prende dunque le mosse dal proprio disconoscimento: […] essa è un’infelicità che, in proporzione alla sua intensità, non si consuma; un susseguirsi di scatti, la ripetizione (comica?) del gesto mediante il quale faccio presente a me stesso che ho deciso, coraggiosamente, di porre fine alla ripetizione; la pazienza d’un’impazienza”.
Sternberg e altri offrono nel loro lavoro “La psicologia dell’amore” (1988) alcune tassonomie ed alcuni modelli esplicativi dell’ “amore”.
Sternberg (1988) propone la teoria della triangolazione dell’amore all’interno del quale vengono individuati tre componenti distinte: decisione-impegno, intimità e passione.
Questi stessi elementi danno luogo, nel loro intrecciarsi, a differenti forme d’amore.
Tale teoria permette una rappresentazione grafica del triangolo dell’amore rappresentato, per l’appunto, da un triangolo isoscele ai cui vertici spiccano le tre dimensioni individuate da Sternberg: intimità, passione e decisione-impegno.
Ogni combinazione tra le tre componenti dà luogo ad un specifico tipo di amore (ed ad una specifica rappresentazione grafica).
Così, sempre secondo tale teoria, la presenza della sola componente intimità dà luogo a semplice simpatia, la sola componente passione dà origine all’ amore-infatuazione ed infine la sola presenza della componente impegno va a costituire l’amore vuoto.
Successivamente l’intrecciarsi di due componenti, per esempio intimità e passione può dare origine all’amore romantico.
Il combinarsi di tutte e tre gli elementi dà luogo all’amore vissuto.
Lo stesso autore avverte come la rappresentazione grafica ovvero il triangolo dell’amore vada inteso quale metafora volta a visualizzare i reciproci collegamenti fra le componenti e a comprendere come esse si possano manifestare nei diversi tipi di rapporto amoroso.
La teoria di Sternberg mi è apparsa interessante per la sua semplicità ed immediatezza; semplicità che la rende fruibile all’interno di un intervento dove possa divenire necessario offrire una chiave di lettura dei rapporti affettivi (come quello con le donne vittime di violenza).
Ovviamente ciò non significa abbracciare la teoria della triangolazione dell’amore bensì utilizzare la stessa quale opportunità di lettura e strumento (perché no?), ad esempio, per una ristrutturazione cognitiva; “ristrutturare cognitivamente” significa dare una nuova struttura alla visione del mondo concettuale e/o emozionale del soggetto e porlo in condizione di considerare i “fatti” che esperisce da un punto di vista tale da permettergli di affrontare al meglio la situazione anziché eluderla, in quanto il nuovo modo di guardare la realtà ne ha mutato completamente il senso (Watzlawick, Weakland, Fish, 1974).
Le citazioni ( e le teorie) di cui sopra offrono, quindi, l’opportunità di una lettura del legame amoroso quale legame colorato da ambiguità e contraddizioni; ambiguità e contraddizioni che si riscontrano spesso nelle modalità di raccontarsi delle donne vittime di violenza.
Tali riflessioni possono essere utilizzate in maniera duplice; possono essere lette quali interessanti argomentazioni sul tema dell’amore oppure, cosa che cercherò di fare con il presente lavoro, le stesse riflessioni, lungi dall’essere esplicative o descrittive circa il tema dell’amore o circa la psicologia dell’amore (se ne esiste una!), possono essere utilizzate quali aneddoti e storie, se non figure metaforiche, utili all’interno di un percorso terapeutico con la donna.
Quindi tutto il materiale che raccolgo e che condivido con il mio interlocutore (in questo caso la donna vittima di violenza) diviene rilevante al fine del raggiungimento dell’obiettivo che insieme ci si è prefissati (o ci si prefigge di volta in volta).
In conclusione, tutto ciò che può rappresentare uno spunto di riflessione, tutto ciò che può colorare in modo nuovo l’incontro può essere utilizzato quale materiale terapeutico; il modo di operare all’interno dell’intervento terapeutico diviene una modalità particolare di usare e proporre una metafora, trasformando aneddoti, storielle, poesie, aforismi in preziosi “strumenti” di lavoro.