Cantare il Mondo sull'idea di Conoscenza in Gregory Bateson

Sergio Manghi

Rivista di Psicoterapia Relazionale n.8 1998, pp.5-25

“Certe volte,” disse Arkady “mentre porto i ‘miei vecchi’ [aborigeni] in giro per il deserto, capita che si arrivi a una catena di dune e che d’improvviso tutti si mettano a cantare. ‘Che cosa state cantando?’, domando, e loro rispondono: ‘Un canto che fa venir fuori il paese, capo’. Lo fa venir fuori più in fretta’”.
Gli aborigeni non credevano all’esistenza del paese finché non lo vedevano e non lo cantavano: allo stesso modo, nel Tempo del Sogno, il paese non era esistito finché gli Antenati non lo avevano cantato.

Bruce Chatwin, Le vie dei canti

Introduzione

Epistemologia, morfogenesi, differenza, paradosso, inconsapevolezza, interazione: intrecciando fra loro queste sei parole vorrei proporre qui alcune idee intorno alla nozione di conoscenza che è venuta via via prendendo corpo nell’opera felicemente incompiuta di Gregory Bateson.
Nello svolgere queste riflessioni, mi è accaduto da un certo punto in poi di pensarle come una sorta di mappa: una mappa personale, che mi aiutasse, per così dire, a mettere un po’ d’ordine nei miei (appassionati) rapporti con l’ecologia della mente (cfr. Manghi, 1990, 1998a); ma anche una mappa pubblica, ovvero uno strumento per chi desiderasse accostarsi ai lavori di Bateson, ritenuti spesso ermetici, o per chi desiderasse, come me, continuare a frequentarli mosso da ulteriori suggestioni.
Non pretendo naturalmente di esporre quel che ha veramente detto Bateson, secondo lo stile oggettivistico che troppo ancora, credo, si continua a venerare acriticamente, a scuola e non solo. Come si potrebbe farlo, in particolare, proprio con i lavori di uno studioso che non si stanca di ammonire: la mappa non è il territorio (cfr. VEM, pp. 464 ss.)? Come si potrebbe, intendo, allestire una mappa del territorio-Bateson e pretendere che essa si limiti a indicare quel che in esso è veramente detto?
Qualcuno ci ha provato, per così dire, a tracciare la mappa e a nascondere la mano: un Fritjof Capra (1982), per esempio, mi pare muoversi in questo senso. Ma avverto un’analoga disinvoltura epistemologica (o ansia fondamentalista?) ogniqualvolta sento proporre il pensiero di Bateson, o qualche suo aspetto, come un corpus concettuale che consentirebbe di farsi un’idea finalmente ‘davvero corretta’ della Realtà — come dire: di divenire i giudici migliori della propria ‘correttezza’. Mi è accaduto persino di sentir affermare che ‘quello di Bateson è il pensiero oggi vincente’ — cosa ci fosse da vincere mi era oscuro allora e tale mi rimane oggi.
D’altra parte, non credo neppure che il confronto scientifico, e cioè pubblico, una volta lasciata la sponda oggettivista, possa prosperare nell’accomodante sponda relativista che oggi sembra accogliere schiere crescenti di profughi dello scientismo (o forse del lato ‘tragico’ della differenza e del conflitto?). Senza la regola ‘agisci come se la verità fosse una sola’, e cioè come se il territorio fosse interpretabile, il ‘gioco linguistico’ che noi moderni chiamiamo scienza semplicemente non si darebbe (cfr. Cassano, 1989). In altri termini, giocare a questo gioco implica assumere che il territorio, ancorché mai attingibile come tale, opponga però resistenze al lavoro di interpretazione (cfr. Eco, 1990).
Certo, giocare a questo gioco non è obbligatorio; inoltre, il rischio di scordare cammin facendo che è un gioco fra altri, e non il Gioco dei giochi, rimuovendo il come se, è un rischio inevitabile, oserei dire un rischio costitutivo — così come del resto, fra noi mammiferi umani, per qualsiasi ‘gioco’ (cfr. Bateson 1956). Ma questa, come si dice, è un’altra storia. Da parte sua, Bateson, pur praticando uno stile scientifico alquanto estraneo all’ortodossia oggettivista, uno stile ‘doppio’, insieme analitico e empatico (cfr. MEN, pp. 279-80; Fruggeri, 1998), non ha mai inteso sottrarre il proprio lavoro, da “manovale delle scienze occidentali” quale si riteneva (cfr. USU, p. 408), alla regola del ‘come se la verità fosse una sola’ — qualsiasi cosa si intenda qui per verità.
La mappa qui abbozzata del territorio Bateson è pertanto una mappa che non aspira a dileguarsi, come il dito del saggio nel noto proverbio cinese: ‘quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito’; ma che neppure rinuncia, al contempo, a voler indicare la luna.
Di questa mappa c’è una prima versione, assai più sintetica, presentata pochi mesi fa a un incontro di studio sul pensiero di Bateson (cfr. Manghi, 1998b). A quella versione mi rifarò in varie parti, ampliandola e rielaborandola. Ma il passo d’avvio rimane lo stesso. Ispirato al brano del narratore-viaggiatore Bruce Chatwin riportato in epigrafe, questo ‘passo’ si esprime nella seguente ipotesi, che chiamerò ‘ecologica’: da una certa angolazione, i nostri moderni modi di conoscere sono gli stessi di quelli aborigeni. Da una certa angolazione, sono: sia consentito insistere, prima di passare alle sei parole che articolano tale ipotesi, su questi due corsivi.
Anzitutto, sono. Il nostro senso comune, per lo più, suggerirebbe erano: i nostri modi di conoscere, pensiamo con illuministica baldanza, oppure con romantica nostalgia, erano gli stessi degli aborigeni, in un qualche passato ormai perduto. Secondo l’ipotesi ora avanzata, invece, sono gli stessi: anche nel nostro presente, e anche senza bisogno di abbracciare preliminarmente qualche dottrina esoterica più o meno New Age. Anche noi, insomma, facciamo venir fuori il paese cantandolo. Nel bene come nel male. E non solo il paese in senso letterale, naturalmente, ma ogni altro ‘territorio’ fatto oggetto dei nostri processi percettivi: dagli elettroni agli dèi, dai lombrichi alla storia patria, dai sogni alle interazioni familiari, dai numeri reali ai vicini di casa, dal male che sappiamo farci al bene che talvolta, per fortuna, riusciamo a volerci.
Il secondo corsivo recita: da una certa angolazione. A precisare che questa angolazione, che fa venir fuori le analogie tra noi e gli aborigeni, non ne esclude affatto altre, che facciano venir fuori delle differenze, anche profonde — come pure, più in generale, le differenze tra saperi scientifici, religiosi, totemici, sapienziali, artistici, di senso comune, psicotici e così via. Ma anche a sottolineare che, a prender sul serio le analogie, le differenze che ci troveremo fra le mani non saranno più le stesse. Esattamente come per le differenze tra gli uomini e l’erba che ci troveremo fra le mani dopo aver provato a pensare come lo schizofrenico che Bateson amava citare: “L’erba è mortale. Gli uomini sono mortali. Gli uomini sono erba” (USU, p. 370). Non, si badi (ma ci torneremo), gli uomini sono come erba, nel modo dell’asettica similitudine, ma sono erba: nel modo avvolgente della metafora, se non addirittura del sacramento (cfr. VEM, pp. 69-74). Ora, non c’è dubbio che, per la logica formale, i sillogismi ‘in erba’ siano sbagliati; ma d’altra parte:

Forse la vita non sempre ricerca ciò che è corretto sotto il profilo logico. Sarei molto sorpreso se lo facesse. (USU, 370)

Epistemologia

Il mistero, l’ignoto da conoscere, nel nostro modo più comune di intendere la conoscenza, lo poniamo di fronte a noi, secondo le auliche regole rinascimentali della prospettiva (cfr. Iacono, 1998). Anche quando parliamo di territori che immaginiamo essere al nostro interno, come i misteri del cuore, i pensieri, i sogni, i complessi freudiani e tutto il resto, l’io che ne parla, se intende comprenderne qualcosa, si immagina di dover fare una giravolta per poterseli trovare di fronte.
Nell’ipotesi ecologica, c’è comunque un mistero più sfidante, più intrigante, anche nell’operazione di descrizione più rigorosamente (e magari doverosamente) frontale. E questo mistero non sta in un luogo confinabile in un di fronte, interno o esterno, ma in un rapporto. Sta in un rapporto tra ‘luoghi’, se vogliamo: tra quel che vedo di fronte a me e quel me che vede. Sta insomma in una frontiera animata, in uno scambio interattivo: in un dinamico tra — un tra non riducibile né alla mappa né al territorio.
È questo, o meglio anche questo, pare a me, quel che intende sottolineare Bateson quando insiste sull’aforisma di Korzybski, la mappa non è il territorio. Anche questo, e non soltanto, come per lo più ci si limita a sottolineare, che i nomi e le cose nominate sono tipi di ‘cose’ differenti, irriducibili le une alle altre (‘cose’, come diremo meglio oltre, poste a ‘livelli logici’ distinti: v. §. 4).
Certo, è importante anche tener ferma questa irriducibilità. Credere infatti che la nostra idea della duna provenga da informazioni contenute in una duna e da questa emesse tutt’intorno, come per lo più ci piace pensare (a noi non-aborigeni), è un errore epistemologico grave: “una forma di superstizione”, scrive testualmente Bateson (in DAE, p. 87). Del territorio, infatti, non possiamo rappresentare nulla, poiché

… il procedimento di rappresentazione lo eliminerà sempre, cosicché il mondo mentale è costituito solo da mappe di mappe, ad infinitum. (VEM, pp. 471-472)

Non basta tuttavia tener ferma questa irriducibilità.. Se bastasse, potremmo trarne, come in certo relativismo ‘postmoderno’, che si debba abbandonare la certezza del solido territorio di fronte a noi, fattosi inafferrabile, per limitarci a elaborare mappe consapevolmente ‘particolari’. Oppure che si debba concentrare l’attenzione esclusivamente sulle mappe, nostre e altrui, elette a sola realtà afferrabile — come in certi esiti della gnoseologia ‘costruttivistica’, che fissandosi sugli aspetti cognitivi e verbali della comunicazione, ne appiattiscono tra l’altro gli aspetti socio-affettivi (cfr. Manghi, 1998c, 1998d).
L’ipotesi ecologica comporta, piuttosto, che dal territorio (solido o inafferrabile, non è questo il problema), l’attenzione si sposti non solo alle mappe, ma anche alla misteriosa interazione mappa/territorio. A un tra, come si diceva:

Io credo, e lo dico sul serio, all’esistenza di un legame tra la mia ‘esperienza’ e ciò che accade ‘all’esterno’ e che influisce sui miei organi di senso, ma non tratto questo legame come se fosse ovvio, bensì come cosa misteriosa, che richiede molto studio. (DAE, p. 87; corsivi miei)

Ed è proprio a questo tipo di studio, allo studio del conoscere come cosa misteriosa emergente da un tra, che mira l’ecologia della mente. E non a caso, com’è noto, la parola ‘epistemologia’, studio del conoscere, è forse la più ricorrente negli scritti di Bateson.
Così come non è un caso, però, che la sua idea di epistemologia sia del tutto inusuale (come pare sfuggire al pur pregnante commento di Dell, 1985). Inusuale per almeno tre ragioni.
In primo luogo, essa non è volta normativamente a vagliare i vari processi empirici di conoscenza al fine di ‘bonificarli’, per dirla con Mauro Ceruti (1987), secondo un criterio omogeneizzante; ma è volta circolarmente a riflettere sui più svariati processi empirici di conoscenza che di fatto vengono realizzandosi, assumendo che essi siano retti a loro volta da precise, incoercibilmente eterogenee, premesse epistemologiche, includendo per di più anche se stessa tra quelli: “L’epistemologia è la scienza che ha per oggetto se stessa” (USU, p. 358; cfr. Fruggeri, 1998). 
In secondo luogo, essa non è riservata al solo conoscere umano (scientifico, totemico o altro), ma viene estesa al conoscere praticato da tutti i viventi, ovverossia praticato da tutti coloro che condividono il destino di morire: dall’erba, appunto, agli esseri umani, siano essi europei, africani o australiani, siano essi chiamati, da qualcuno o da molti, folli, normali o che ne so. È l’idea del conoscere espressa dallo schizofrenico sopra ricordato; idea condivisa, aggiungeva Bateson, da un’altra ‘categoria’ che in fatto di epistemologia ci ostiniamo a ritenere incompetente quanto i ‘folli’: i poeti. Bateson amava citare in proposito William Wordsworth, che diceva del ‘suo’ ragionevole Peter Bell: Una primula sulla sponda del fiume / Una gialla primula era per lui / E nulla più. Ma lungi dal trarne deduzioni ‘romanticamente’ irrazionalistiche, Bateson ne trae una razionalissima congettura epistemologica:

Per il poeta la primula può es­sere qualcosa di più. Avanzo l’ipotesi che questo di più sia in realtà un ricono­scimento au­toriflessi­vo. (USU, p. 397)

Congettura, questa, subito arricchita (e citando un secondo poeta, Wallace Stevens) da un’ulteriore messa a punto:

Ma questa, dopotutto, è la condi­zio­ne di ogni organismo. Fra noi e ‘le cose come sono’ c’è sempre un filtro creativo. (Ivi, p. 398; corsivo mio)

Dunque: ogni creatura vivente conosce per filtri creativi, ovvero attraverso mappe di mappe, ad infinitum. Per ogni creatura, le informazioni che le consentono, bene o male, di vivere, scaturiscono dall’interazione tra la ‘sua’ esperienza e quanto accade ‘all’esterno’. Scaturiscono da un tra. Un tra del quale le mappe non sono comunque che una delle componenti in gioco. Un gioco di continua trasformazione del quale le mappe stesse sono sia premessa sia frutto.
In terzo luogo, l’epistemologia ecologica include, accanto ai modi in cui ogni creatura si rapporta all’ambiente nell’arco di tempo che va dal proprio nascere al proprio morire, anche i modi in cui le forme viventi evolvono. Secondo Bateson, su tale questione, e cioè sul carattere mentale (e non meccanico) delle forme viventi e delle loro trans-formazioni, Jean Baptiste Lamarck, Conrad Waddington e William Bateson, l’insigne genetista che fu padre di Gregory, avevano detto assai più di Darwin (MEN, cap. 6°). E da tale questione evoluzionistica è inseparabile la costante attenzione di Bateson, fin dai primi studi antropologici (Naven, 1935), ai problemi di morfologia, dal piano anatomico (la simmetria bilaterale del granchio è un esempio che tornerà di continuo, insieme ad altri, nelle sue riflessioni epistemologiche) fino al piano sociologico (simmetria e complementarità nella forma delle relazioni comunicative, per non fare, anche qui, che un esempio). Senza tener conto di questa matrice evoluzionistica ‘formista’, si comprenderebbe poco la ‘strana’ idea di mente, non intra-individuale ma interattivo-relazionale, suggerita da Bateson (v. oltre, §.6). Si comprenderebbe poco anche la sua attenzione per la nozione di Gestalt. E non si comprenderebbe per nulla, tra l’altro, quello che è il suo brano più citato (e in esso, ancor più in particolare, il termine pattern, reso in italiano con ‘struttura’, che qui potremmo considerare senza forzature un equivalente di ‘forma’):

Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofre­nico dall’altra? (VEM, p. 21)

Morfogenesi

Detto questo, possiamo tornare, convergendo con il ricordato costruttivismo, sul ‘sottoproblema’ delle mappe come premessa generativa. Sull’ipotesi cioè che alla morfogenesi dell’interazione mappa/territorio le mappe prendano parte con una loro ostinata autonomia informazionale (o chiusura informativa: Maturana e Varela, 1980). Altro che cangiante inafferrabilità, come vorrebbe certo relativismo! Il processo del conoscere è infatti sempre anche, in ogni momento, un gioco di sopravvivanza: sopravvivenza di forme. Un gioco vitale la cui posta è, per gli esseri umani, insieme alla creazione di novità, e in un certo senso all’opposto, la stabilità delle loro cornici percettive, del loro senso comune, personale e sociale, buono o cattivo che sia, a fronte dei ‘capricci’ ambientali (il termine “capriccioso” è in USU, p. 176).
Per questo le nostre mappe sono costituite da “abitudini di pensiero”. Per questo tendono a disporci in rapporto al territorio secondo visuali refrattarie agli infiniti spaesamenti che l’interazione con esso momento per momento ci procura. E per questo, ancora, non ci riferiscono banalmente quel che incontrano sul loro cammino, ma lo filtrano, come dicevamo, creativamente: lo fanno venir fuori. Ci forniscono descrizioni per quanto possibile coerenti, guarda caso, con le nostre aspettative:
 
‘Noi’, come il comandante di un esercito moderno, leggiamo solo rapporti dei servizi segreti già manipolati da agenti che in parte sanno che cosa vogliamo leggere. (USU, 398)

Noi vedremo pertanto, guarda caso, una duna, laddove l’aborigeno vedrà, guarda caso, un Sogno, e chissà cosa ci vedranno, che so, un turista, un canguro, uno scorpione o un lettore di Chatwin. Ogni creatura tenderà, diciamo così, a far venir fuori il proprio paese.
Naturalmente, ciò avrà immediate implicazioni pratiche, etiche, sociali e politiche. Scrive Bateson che gli aborigeni, nel descrivere il loro sistema sociale, lo fantasticano ‘totemicamente’ in analogia con il più ampio sistema ecologico, e che queste fantasie favoriranno il formarsi di un sistema sociale, diciamo così, ecologico. Ciò in quanto:
 
La fantasia diventa […] morfogenetica; diventa cioè una causa determinante per la forma della società. (MEN, 189).

E per quali ragioni, allora, questa regola morfogenetica non dovrebbe valere per noi, quando descriviamo il nostro sistema sociale ‘così com’è’? Per esempio, quando lo descriviamo come ‘ben altro’ rispetto a quello degli aborigeni? Oppure come un insieme di poteri centralizzati che, poverini noi, ci opprimono? O ancora, quando lo fantastichiamo come analogo a una immensa rete informatica sempre più veloce e globale che, secondo i gusti, ci offre possibilità illimitate o ci costringe a correre affannosamente per restare fermi?
E quando c’indigniamo per queste oppressioni e questi affanni, come se ci colpissero dal di fuori, dure realtà ‘territoriali’, che cosa ottiene il nostro indignarci? Quante volte, chiediamoci, o meglio in quali forme, il nostro indignarci concorre a conservare quel sistema proprio ‘così com’è’, cioè proprio come non ci piace? Riservandoci il ruolo passivo, e dunque in fondo irresponsabile, della ‘povera vittima’? Sottraendoci, cioè, alle nostre responsabilità percettive (cfr. Manghi, 1997)? E cioè alla responsabilità per i mondi, piccoli e grandi, belli e brutti, che le nostre mappe, non meno morfogenetiche di quelle aborigene, fanno venir fuori?

Differenza

Un’idea, diceva una vecchia canzone di Giorgio Gaber, “finché resta un’idea è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea — proseguiva — avrei fatto la mia rivoluzione”. E una rivoluzione del genere, a qualcuno, parrebbe in effetti riuscire: è lo schizofrenico che in pizzeria, invece di elucubrare intorno al menù o di mangiare la pizza, mangia il menù — senza ridere, naturalmente, poiché se ridesse parleremmo di esperienza umoristica, e non psicotica (il che evidenzia tra l’altro, si noterà, la profonda analogia formale tra i due tipi di esperienza, sulla quale Bateson amava ritornare; sull’umorismo, cfr. Bateson, 1953).
Ora, è chiaro che quei versi, nel contesto degli anni Settanta, se la prendevano (in chiave appunto umoristica) con l’innamoramento eccessivo di quel tempo per certe astrazioni. Ma è anche indubbio, d’altra parte, che l’astrarre — e non la folgorazione per certe astrazioni — sia considerato da un vasto senso comune, e cioè da un’influente filosofia implicita come un male in sé, o al più come un’operazione ‘grigia’: magari necessaria, ma da subordinare comunque al ‘verde’ della vita (primato romantico del concreto, del corporeo, financo della voce del sangue e del suolo); oppure da redimere attraverso concrete ‘applicazioni’ (l’utilitaristica domanda ‘a cosa serve?’ è ritenuta dirimente, ahimé, anche da numerosi benintenzionati anti-utilitaristi).
In chiave ecologica, la contrapposizione astratto-concreto semplicemente non è rilevante. Poiché la ‘verde vita’, senza astrazioni, e cioè senza ‘mappe di mappe, ad infinitum’, semplicemente non si darebbe. Non si dànno astrazioni, infatti, nel mondo fisico-chimico. La cosiddetta ‘legge di gravità’ è una nostra astrazione (invenzione: MEN, p. 76), non è certo frutto dei ‘gravi’; mentre la mappa che orienta uno scorpione in rapporto a una duna è opera sua (sebbene mai solo sua: v. §. 1 e §. 6): è sempre con tale mappa che se la vedrà nel suo quotidiano interagire, non certo con la ‘duna in sé’. E così per l’aborigeno, per il turista, per l’epistemologo e per ogni altra creatura vivente.
Anche un’operazione percettiva in apparenza elementare come di­stinguere una duna è un astrarre — etimologicamente: un attivo trarre-da, un far venir fuori, insomma. Un’informazione elementare non è costituita, infatti, da un input, cioè da una micromappa fedele di una quantità mi­nima di una ‘sostanza esterna’. Questa è l’ipotesi più diffusa nel senso comune, potentemente confermata dal fatto che (a) il linguaggio verbale usa ‘nomi’, che (b) questi nomi presumono ‘cose’, e insieme, dalla curiosa (superstiziosa) inversione causale per cui, pensiamo, (c) ‘se ci sono i nomi, ci saranno pure le cose che indicano…’. Siamo talmente cosa-di­pendenti che proiettiamo persino al di là della nostra specie tale condizione di dipendenza: autorizzati da molta etologia, finiamo per cre­dere che anche per le creature prive di linguaggio verbale, e dunque di sostantivi, ci siano ‘cose ben precise’: dune, alberi, bacche, prede, predatori…
Questa nostra dipendenza dall’idea sostanzialista di informazione viene inoltre consolidata da una delle più influenti metafore del nostro presente: quella computazionale — non ci dicono ad ogni istante i suoi cultori che il conoscere è una sequenza ‘input-elaborazione-output’?
Nell’ipotesi ecologica, l’informazione-duna, rispetto alla cosa-duna, è comunque un altro tipo di cosa. Questo altro tipo di cosa non è fatto di so­stanze ma di differenze, attivamente tracciate da una crea­tura (in relazione con altre: v. §. 6). E la differenza è una cosa astratta, che “non è situata nel tempo o nello spazio” (MEN, p. 134). È inafferrabile:

La differenza tra questo e quello non sta, naturalmente, in questo, non sta in quello, non sta nello spazio che li separa. Non riesco ad afferrarla. (USU, 429)

Se vediamo ‘sabbia’ e non, per esempio, ‘sogno’ (o altro ancora), è perché nelle nostre mappe (diversamente che in quelle aborigene) è attiva e pregnante la differenza tra l’idea ‘sabbia’ e l’idea ‘sogno’; e ciascuna di queste due idee, a propria volta, si fa pregnante in virtù di ulteriori differenze tra altre idee, per esempio ‘realtà-illusione’…; o meglio ancora, si fa pregnante in virtù di intricati grappoli di differenze, e queste differenze sono tra loro connesse e combinate variamente attraverso altre differenze — differenze di differenze, ad infinitum. Un’idea, e cioè un’informazione, recita l’elegante definizione di Bateson, è “una differenza che produce una differenza” (VEM, p. 470, MEN 130 ss.; cfr. anche De Michelis, 1990, Qvortrup, 1993).
La metafora del grappolo è certamente rozza (in particolare evoca un ordine statico), ma ha il vantaggio di segnalare come la differenza non sia una distinzione dualistica, che postula la reciproca indipendenza tra le due ‘parti’ ogni volta distinte, ma una distinzione connettiva, che postula una ‘parentela’ tra le parti distinte: la differenza, scrive testualmente Bateson, ha “la natura della relazione” (cfr. MEN, p. 134).
Se percepiamo ‘noi’ differente da ‘aborigeni’, non è di ‘noi’ che si tratta, né di ‘aborigeni’, ma della differenza ‘noi-aborigeni’, la quale suppone la relazione ‘noi-aborigeni’. Una rel-azione, e cioè un’azione di confronto: senza il confronto con ‘aborigeni’, quel ‘noi’ non si darebbe, o meglio ancora sarebbe un altro ‘noi’, emergente dal confronto con altri ‘loro’. Ogni ‘noi’ prende forma attraverso uno o più ‘loro’: ovvero, più in generale, ‘noi’ non rimanda mai a una sostanza (la nostra cosiddetta ‘identità culturale’, per esempio), ma a una differenza, e insieme a una relazione, una relazione per ‘noi’ costitutiva, vitale. La rappresentazione di ‘loro’ è pertanto sempre costitutiva della rappresentazione di ‘noi’ — e viceversa. In questo senso noi siamo aborigeni. Insieme non essendolo, beninteso: poiché le differenze sono pur sempre differenze, con un margine di inconciliabilità irriducibile, non di rado assai doloroso. Come ha suggerito René Girard 1978), acuto interprete delle relazioni umane (peraltro non scevro da influenze batesoniane), essere è sempre essere-attraverso-l’altro, un altro che non è mai solo uguale a noi né mai solo differente, ma sempre, ahinoi, e insieme per nostra fortuna, entrambe le cose (cfr. Tomelleri, 1996).
Quanto a Gaber, credo che avesse ben intuito che l’innamoramento per certe astrazioni, come potere, rivoluzione o comunismo, quel che si è chiamato ideologismo, avrebbe condotto a qualche disastro. Ma non incontrerebbe sorte migliore chi, prendendo alla lettera la metafora umoristica di Gaber, invece di ridere cercasse seriosamente di sbarazzarsi delle astrazioni (il cosiddetto ‘velo’ dell’ideologia) immaginando di trovarsi di fronte ‘finalmente’ le cose come sono, e nulla più. Costui cercherebbe in sostanza di ‘mangiare un’idea’, non diversamente da chi nel contesto ‘anni Settanta’ aspirava a ‘prendere il potere’, e cioè a impadronirsi di un sostantivo. Errore epistemologico alquanto diffuso, alimentato dall’idea che le idee siano o possano diventare insensibili ai contesti in cui emergono (per la parola contesto, che avendo più spazio meriterebbe un paragrafo a sé, cfr. VEM, parte III); che le idee possano cioè essere o diventare dipendenti da qualche sostanza-territorio, invece che dai nostri modi di interagire, di convivere, di coesistere. Basta aprire una pagina di giornale a caso, per incontrare disinvolte affermazioni sostanza-dipendenti (un esempio-perla: il richiamo al “primato dei fatti sulla sociologia del ‘contesto’ ” di L. Caracciolo, La Repubblica,15.8.1998).
  Meglio ammettere, credo, che ricette salvifiche, anti-disastro, non ne conosce nessuno. Invece di combattere l’astrazione, o di competere per l’astrazione più fedele ai mitici ‘fatti concreti’, non converrà cercare di assumerci le nostre responsabilità per le astrazioni attraverso le quali ci rapportiamo concretamente agli altri? Vicini o lontani, amici o nemici che siano? Agli altri che, da una certa angolazione, siamo noi?

Paradosso

Rinunciando alla dipendenza dal territorio, ci troviamo fra le mani l’avventura di dover mettere un po’ d’ordine, per così dire senza rete, nel guazzabuglio ‘astratto’ delle nostre idee. Il che può esser fatto, paradossalmente, solo attraverso altre idee.
Ora, tra le idee su cui maggiormente insiste Bateson, almeno a partire dagli anni Cinquanta, per fare un po’ di chiarezza nel modo in cui le idee si aggregano tra di loro, c’è sicuramente quella che l’aggregarsi delle idee, dal batterio all’homo sapiens, segua un criterio gerarchico, da livelli più astratti a meno astratti — criterio senza il quale anche l’espressione “mappe di mappe” rimarrebbe confusa.
La questione, naturalmente, non concerne solo gli esseri umani. Il gatto G, per esempio, nel cacciare il topo T, ‘sa’ che G e T sono elementi singoli di classi astratte (gatti, topi), le quali si sono evolute definendosi l’una attraverso l’altra, e appartengono inoltre a una classe più generale (mammiferi), la quale a propria volta appartiene a classsi più generali, fino alla classe più astratta dei viventi — e cioè di quei sistemi che condividono il predicato morire. Fra l’altro, G ‘sa’ bene che mangiando Y non mangerà la classe dei topi (sa che non si può mangiare un’astrazione). Neppure sarebbe tollerabile che la classe ‘logicamente superiore’ (più astratta) dei mammiferi fosse contenuta in quella ‘logicamente inferiore’ dei topi o dei gatti: il contesto ‘caccia al topo’ subirebbe, insieme a molti altri, uno sconvolgmento catastrofico…
Dunque, se tali catastrofi non avvengono, è chiaro che quell’ordine gerarchico viene rispettato. Così come voleva del resto la teoria dei Tipi logici di Russell e Whitehead, richiamata spesso appunto da Bateson per mettere un po’ d’ordine nell’intricato mondo delle idee, per la quale una classe non può essere elemento di se stessa (cfr. VEM, pp. 216 ss., MEN, pp. 155 ss.): se lo fosse, sarebbe ‘paradossale’, e il paradosso è il caos nell’aggregazione delle idee — il non-senso, la non-vita.
Questo, però, è solo un lato della questione: quello, più esattamente, che aiuta a capire la stabilità nella aggregazione delle idee — il mantenersi delle forme viventi a fronte dei capricci ambientali. E l’altro lato, in un certo senso opposto, e cioè quello che aiuta a capire il cambiamento? La questione è cruciale, poiché, per Bateson, nella vita non si dà staticità: noi

galleggiamo [.…] in un mondo che non consiste se non nel cambiamento, anche se parliamo come se nel mondo ci fosse un elemento statico. (USU, 428)

E pertanto: come si spiega l’originarsi dell’homo sapiens dai batteri primordiali, passando per innumerevoli forme intermedie? E come comprendere il trasformarsi delle nostre stesse mappe? E in particolare di quei contrassegni sulle mappe che indicano i contesti, e cioè le cornici comunicative entro cui le singole idee-messaggio prendono senso? Come si spiega, per esempio, che due creature passino dal mordersi per gioco o per amore al mordersi per minaccia o per farsi violenza? Laddove il ‘morso’ è la stessa idea-messaggio elementare, attraverso la quale si definisce però, a un livello logico superiore, e cioè attraverso meta-messaggi ‘più astratti’, un contesto affatto diverso? Un contesto, per esempio, di gioco, d’amore, di minaccia o di violenza? Di più: come si spiega che un certo contesto, poniamo ‘gioco’, ma potrebbe essere anche ‘terapia’ o ‘guerra’ o altro, si mantenga per un certo tempo entro i confini che esso pone? Poiché, non solo il cambiamento, ma anche la stabilità dei contesti è frutto di azioni-messaggio nel tempo: azioni-messaggio che confrontano il contesto in atto con gli altri contesti possibili in ogni momento e promuovono la stabilità invece che il cambiamento.
Tanto il cambiamento come la stabilità si comprendono dunque soltanto se si ammette che nell’interazione comunicativa anche il meta-messaggio (livello logico superiore) deve essere contenuto nel messaggio (livello logico inferiore), e non solo viceversa. E senza, va da sé, che ne derivi una catastrofe. Decisamente, l’ipotesi che la vita ricerchi anzitutto ciò che è corretto sotto il profilo logico, adeguandosi letteralmente alle gerarchie lineari e atemporali dei Tipi logici, è un’ipotesi elusiva e semplificante. A quell’ipotesi sfuggono, tra altre cose, le profonde analogie formali tra la schizofrenia, l’umorismo, la poesia e altre “stramberie umane, fatte di miseria e di grandezza” (USU, p. 244), come il sogno, la religione e il gioco — tutte impensabili senza la logica/illogica del paradosso.
E infatti Bateson, evocando la teoria dei Tipi, ne mantenne sempre e soltanto l’idea di gerarchia dei livelli, includendola al contempo entro una più ampia cornice di idee volta a interrogarsi sia sul trasformarsi, nel tempo, delle forme viventi e dei contesti, sia sulle relazioni circolari — e cioè paradossali — tra i livelli gerarchicamente ordinati. Tale cornice è evidente nella sua formulazione più consapevole, che troviamo in Mente e natura (1979), dove si parla di “catene di determinazioni circolari o più complesse” (MEN, p. 140) e di “gerarchia di ordini di ricorsività” (p. 266). Ma era già presente nella formulazione più elementare, e cioè nel primo noto saggio sulla schizofrenia (1956) così come in quello, precedente, sul gioco e sulla fantasia (1954), nei quali si postulavano, schematicamente, soltanto due livelli comunicativi: il contenuto del messaggio (il morso) e la forma della relazione interattiva che lo contiene e che fa da contesto per comprenderlo (‘questo è un gioco’).
Da questa prima formulazione, val la pena ricordare, nacque la Scuola di Palo Alto, che tuttavia ne sposò, diversamente da Bateson, l’ortodossia logicista: carattere atemporale delle interazioni, unidirezionalità delle gerarchie (dall’alto al basso) e natura unicamente patologica dei paradossi (ricondotti a ‘confusione’ tra livelli logici della comunicazione: (sul punto cfr. Cronen et al., 1982).
Per mettere un po’ d’ordine in quell’aggregarsi paradossale delle idee che chiamiamo vita, mente, comunicazione, apprendimento, evoluzione e così via, più che la logica formale occorre una logica delle forme e delle trans-formazioni: una morfo-logica. La quale, tuttavia, nel rinunciare al primato della logica formale, come abbiamo detto, non la ripudia: non rinuncia, cioè, alla chiarezza delle distinzioni, per cui noi, naturalmente, non siamo aborigeni. Piuttosto, ne sancisce la parzialità e la unilateralità, a ricordarci che, mentre a un certo livello non siamo aborigeni, a un altro, riflessivamente connesso col primo, lo siamo, eccome.

Inconsapevolezza

Prender coscienza ci rende più liberi? Il fatto è che troppo spesso diciamo libertà e intendiamo potere. Potere di cambiare il territorio secondo il nostro volere: e il territorio può essere un ecosistema malato, una psiche perversa, un assetto politico ingiusto, una distribuzione iniqua del reddito, un’irritante abitudine del coniuge, la svogliatezza di uno studente e così via. Può anche essere un tratto interiore, del proprio carattere o del proprio pensiero, che si vuol perfezionare. Ci piace pensare che conoscere renda possibile toglier di mezzo ostacoli e per questo esser più liberi:

La libertà la si immagina sempre dietro l’angolo, o subito al di là della prossima cresta del paesaggio mentale. Continuiamo a far ricerca e a riflettere su problemi d’ogni sorta come se un giorno potessimo attingere il pensiero che ci rende liberi. (DAE, 252)

Ora, condizione necessaria perché libertà significhi potere è il culto totemico della cosiddetta presa di coscienza. È vero che ormai da tempo abbiamo concesso cittadinanza anche all’idea di inconsapevolezza. La parola inconscio è ormai di casa. Ma, come ogni oggetto troppo di casa, pare addomesticata: separato dalla coscienza e relegato in uno spazio delimitato (l’‘interno’), affidati i suoi ‘meccanismi’ a uno psichismo senza storia, secondo l’ideale assai diffuso di una psicologia perennis, pensiamo di poterlo decifrare, l’Inconscio, attraverso la coscienza. E così il mito della presa di coscienza persiste: anche quando, proprio in nome dei diritti dell’inconscio (e del corpo, e delle emozoni) diciamo che di questi diritti dovremmo preliminarmente, appunto, prendere coscienza. E siccome a questa utopica ‘presa’ le nostre mani non arrivano mai del tutto, siamo in perenne crisi di astinenza, ciclicamente in caccia di qualche altra ‘dose’, appunto, di coscienza.
Accade così che sappiamo sempre più teorizzare sui diritti dell’inconscio, e sempre meno praticare i suoi linguaggi inconsapevoli. Ovvero: separiamo sempre più attentamente l’abilità di decifrare analiticamente il ‘paese’ da quella di cantarlo. Deleghiamo questa abilità ‘ineffabile’ a categorie specializzate, come artisti, sognatori, folli, carismatici, aborigeni, ignorando quanto questi ‘specialisti’ ci mostrino come funziona di fatto, in generale, ogni processo conoscitivo.
È qui (ancorché non solo qui) che si distingue la nozione batesoniana di inconscio da quella più in uso. Una distinzione marcata anche dalla netta preferenza lessicale di Bateson per il termine inconsapevolezza. L’invito di Bateson non è a prender coscienza dei messaggi emessi sans le savoir. E tantomeno a lasciarci semplicemente (o ‘finalmente’) trasportare là dove quei messaggi ci portano — la comunicazione ridotta a “puri segni di umore” (VEM, p. 223). L’invito è a comprendere come, nel bene e nel male, l’intero arco delle nostre pratiche sociali prenda e riprenda forma attraverso sottili regole conoscitive e comunicative inconsapevoli. Incluse naturalmente le pratiche scientifiche più accorte:

Non c’è dubbio che livelli più profondi della mente guidino lo scienziato o l’artista verso esperienze e pensieri attinenti ai problemi che in qualche modo sono suoi, e sembra che quest’azione di guida si esplichi assai prima che lo scienziato acquisti una qualunque nozione conscia dei suoi fini. (VEM, 20)

L’invito, potremmo dire, è a prender coscienza che non possiamo subordinare l’inconsapevolezza alla presa di coscienza. Un bel paradosso. Un paradosso inabitabile per il mito della presa di coscienza. Ma abitabile per un’idea di coscienza che si sappia a un tempo irrinunciabile e parziale. Soprattutto, che si sappia comunque abitata e animata dagli insormontabili saperi dell’inconsapevolezza, dalle pascaliane ragioni del cuore che la ragione non conosce, ripetutamente evocate da Bateson (cfr. VEM, pp. 172-73): sensibilità estetiche alla bellezza/bruttezza (cfr. USU, cap. 23°; Ingrosso, 1998, Manghi, 1995a, 1996); sensibilità religiose al sacro/profano (cfr. DAE e USU, cap. 31; Manghi, 1990, cap. 5°; De Biasi, 1996).
Le ragioni del cuore, per Bateson, si reggono sulla grammatica paradossale della comunicazione analogica, metaforica (cfr. Tamburini, 1996). Come, appunto, nei sollogismi ‘in erba’. La metafora, così intesa, non è solo una figura retorica fra altre, buona a comprendere un aspetto del linguaggio verbale. È forma mentis. È una regola organizzativa, comunicativa e trasformativa propria dell’intero mondo creaturale:

… la metafora non è solo una belluria poetica, non è logica buona o logica cattiva, ma è di fatto la colla su cui è stato costruito il mondo biologico, è la principale caratteristica e la colla organizzativa di questo mondo del processo mentale. (DAE, 53)

Dai primi unicellulari agli uomini, passando per l’erba, la storia dei viventi — ma anche la cronaca dei contesti sociali umani — può esser raccontata come un processo generativo di forme e metafore (meta-forme) circolarmente connesse. Un processo che non vede mai in gioco anzitutto la sopravvivenza di ciò che è utile all’individuo (survival of the fittest); ma anzitutto la sopravvivenza di ciò che è bello, e cioè capace di porsi in risonanza con i complessi pattern interattivi che connettono le creature viventi. Un processo di creazione continua di nuove forme da altre forme collaudate, dove il vecchio e il nuovo sono a un tempo analoghi e differenti. Gli uomini sono e non sono erba.
E allora, tornando alla questione iniziale: che cos’è la libertà di cambiare i mondi in cui viviamo? La domanda è tutt’altro che illegittima. Ma se desideriamo liberarla dall’attrazione fatale per l’idea di potere, dovremo apprendere a farcene, insieme, un’altra: che cos’è la bellezza di cantare insieme agli altri i mondi di cui siamo parte?

Interazione

Che cos’è un uomo, che può conoscere i sistemi viventi e agire su di essi, e che cosa sono questi sistemi, che possono essere conosciuti? Le risposte a questo duplice enigma devono essere costruite intrecciando insieme la matematica, la storia naturale, l’estetica e anche la gioia di vivere e di amare.

Gregory Bateson (in DAE, pp. 272-3)

Tra le nostre superstizioni più radicate, c’è l’idea che la mente sia un territorio per noi ancora misterioso, ma in sé definito. Siamo piuttosto sicuri, in particolare, che si trovi ‘dentro’ un soggetto individuale. Questo soggetto può esser visto, poi, come intellettuale e universale (penso dunque sono), oppure come sognatore e singolare (sento dunque sono). In entrambi i casi tendiamo tuttavia a pensare che la mente sia ‘dentro’ di lui. La fitta trama di relazioni interattive di cui ciascun Ego è parte, e che immaginiamo brulicare ‘fuori’ da esso, ha carattere sociale o al più ecologico, pensiamo, non certo mentale.
Certo, pensiamo, qualche condizione sociale ‘a monte’ può ingombrarci l’occhio, con una pagliuzza o con una trave, o magari può anche renderlo più acuto. Ma la ‘sostanza’ del mentale rimane per noi intrinsecamente a-sociale. E a-sociale rimane, per conseguenza, la ‘sostanza’ del conoscere, come ci dicono molte delle parole cui ricorriamo per parlarne: osservazione, ipotesi, verifica, misurazione, induzione, deduzione e così via — le parole che ci fanno vedere una duna laddove altri vedono, per esempio, un Sogno degli Antenati.
L’ipotesi ecologica richiede una diversa disciplina. Dove anzitutto il mentale e il sociale non sono sostanze date e distinte ma idee, generate dalle nostre mappe, attraverso le quali facciamo venir fuori, guarda caso, il mondo. E dove, inoltre, opera una diversa idea della mente, in cui ‘sociale’ e ‘mentale’ non sono idee separate, ma strettamente connesse, per cui ci accadrà, guarda caso, di non separare affatto, nelle nostre descrizioni, l’interno dall’esterno:

Quello che voglio dire, molto semplicemente, è che ciò che accade all’interno è più o meno identico a ciò che accade all’esterno. (USU, p. 408) 

Si tratta, in altri termini, di delocalizzare la mente, o se vogliamo, di localizzarla, invece che negli individui, in quei ‘non-luoghi’ che sono le più vaste reti interattive di cui gli individui sono parte. Scrive infatti Bateson:

La psicologia freudiana ha dilatato il concetto di mente verso l’interno […]. Ciò che sto dicendo dilata la mente verso l’esterno. (MEN, 480)

Ovvero, come suggerisce Heinz von Foerster (1981): penso dunque siamo. Il mio pensare è parte di più ampi sistemi pensanti. Sistemi interattivi che funzionano, appunto, per interazione di idee — ulteriore espansione del tra di cui già s’è detto (v. sopra, §. 1). Sistemi nei quali non solo agire è sempre interagire, ma pensare è sempre interpensare (cfr. Manghi, 1995b).
La definizione più sintetica che dell’idea di mente fornisce Bateson è la metafora della “danza di parti interagenti” (MEN, p. 27). Una danza che, come nel cantare degli aborigeni, include tra gli ‘altri’ attraverso i quali essere, molte più creature dei soli altri umani co-presenti. Include, fra gli altri, gli antenati, come sanno gli aborigeni; e come sapeva Pascal, secondo Martin Heidegger, che nel commento quasi-batesoniano al celebre passo sulle raisons du coeur, scrive:

Nell’invisibile ultrainteriorità del cuore, l’uomo è prima di tutto so­spinto verso ciò che dev’essere amato: gli avi, i morti, l’infanzia, i nascituri. (1950, trad. it. p. 282)

Per Bateson, è verso l’insieme delle creature che in quell’‘invisibile ultrainteriorità’ siamo ‘sospinti’. Certo, le creature umane non sono come tutte le altre: hanno, tra altre differenze, la parola. Ma non sono mai solo differenti, com’è evidente nella pratica — e nella metafora — del cantare. Il cantare degli uomini, ‘strambo’ intreccio di parola e di voce, di sostantivi e di suoni, di coscienza e di corporeità, di peculiarmente umano e di più ampio creaturale, è comunque parte del ‘più ampio creaturale’ (ancora una questione di tipi logici aggrovigliati…). E per questo, cantare è sempre cantare insieme — con, contro, attraverso altri e altro. Suppone l’esser-parte-di: “la relazione viene per prima, precede” (MEN, p. 179).
La marca batesoniana per eccellenza, e cioè l’espressione ecologia della mente, non designa un programma di disinquinamento delle nostre menti, finalizzato magari a cogliere l’Essenza della Vita nascosta in noi da un qualche benigno Creatore esterno alle creature. Niente a che vedere, per intenderci, con certe molli fantasticherie New Age.
Quella espressione designa l’idea, tutt’altro che molle, di fare con l’idea di mente qualcosa di analogo a quel che fanno da decenni, appunto, gli ecologi-scienziati con l’idea di ecosistema: descriverla, la mente, in termini di relazioni interattive comunque più ampie degli individui che pure quelle relazioni, circolarmente, concorrono a generare — per il bene e per il male, inestricabilmente.
Molti ecologi, è vero, non si spingono a descrivere il loro stesso conoscere in analogia con gli ecosistemi che descrivono. Preferiscono credere, come d’altra parte molti altri praticanti delle scienze naturali e sociali, che le loro mappe riflettano più o meno fedelmente dei territori posti di fronte a loro. Ma questa è un’altra storia: o se vogliamo, un’altra ecologia. In questa superstizione non siamo tenuti a seguirli. Per quali ragioni dovremmo? Per quali ragioni ecologiche?
Per quali ragioni ecologiche dovremmo astenerci dal descrivere il nostro pensare come un cantare che fa venir fuori il mondo? Ovvero, dal prenderci cura delle nostre idee “intrecciando insieme la matematica, la storia naturale, l’estetica e anche la gioia di vivere e di amare”?

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NOTA successiva:   Il volume di S. Manghi, Il gatto con le ali, è stato ri-edito nel 2000, in versione più ridotta e ampiamente riveduta, presso l'editore Asterios, Trieste


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