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L’eroe come paradigma dell’azione umana. Le rappresentazioni narrative da Achille a Drogo come prototipi psicologici.
Cristina Zanette, Claudio Fasola
PARTE PRIMA
Le narrazioni letterarie come espressione di un sistema valoriale
Nella forma che il caso e il vento danno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…
Calvino, Le città invisibili“Il sapere trasmesso dalle narrazioni, ben lontano dal fissarsi nelle sole funzioni enunciative, determina ciò che bisogna dire per farsi capire, sia ciò che bisogna ascoltare per poter parlare, sia ciò che bisogna rappresentare (sulla scena della realtà diegetica) per poter divenire oggetto di una narrazione. […] Le narrazioni definiscono ciò che può essere detto e fatto nella cultura, e, dal momento che ne sono anche parte integrante, ne vengono per ciò stesso legittimate” (Lyotard, 1979, pp. 42-3).
Con il concetto di circolo ermeneutico [1], che sposta l’attenzione dall’oggetto libro, dall’oggetto quadro, dall’oggetto brano musicale, dall’oggetto conosciuto al soggetto conoscente, dalla cosa in sé ai filtri, siano essi letterari, linguistici, cognitivi o culturali attraverso cui essa viene percepita e compresa, si giunge a mettere in discussione ciò che era sempre apparsa come una ovvietà, che un libro viene scritto semplicemente per essere letto, un quadro dipinto semplicemente per essere visto, una musica composta semplicemente per essere ascoltata (Pisanty, Pellery, 2004, p. 56).
Ogni racconto, dai testi omerici a Il deserto dei Tartari, diviene espressione di una narrazione, di una modalità attraverso cui può essere interpretato il mondo.
“Le storie popolari raccontano esse stesse quelle che potremmo chiamare delle formazioni (Bildungen) positive o negative, vale a dire i successi o le sconfitte in cui si risolvono i tentativi degli eroi, e questi successi o queste sconfitte legittimano determinate istituzioni sociali (funzione dei miti), oppure rappresentano modelli positivi e negativi (eroi felici e infelici) di integrazione nelle istituzioni consolidate (leggende, favole). Da una parte questi racconti consentono dunque di definire i criteri di competenza propri della società in cui sono raccontati, dall’altra di utilizzare tali criteri per valutare le prestazioni che in essa si realizzano o possono realizzarsi” (Lyotard, 1979, p. 40). Già Aristotele, pur all’interno di una ben diversa cornice teorica, sosteneva che “compito del poeta è di dire non le cose accadute, ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità (Aristotele, 334 a.C., 1451 b). Così tra gli eroi omerici Achille rappresenta, secondo una classificazione proposta da Carlo Diano (1952), l’eroe della forma, l’eroe di quella che viene definita la civiltà della vergogna [2], l’eroe che vuole preservare la propria immagine, la forma, appunto, di eroe forte e valoroso, l’eroe che per orgoglio entra in guerra e per un’offesa è disposto ad abbandonare le fila dei Greci; ad esso si contrappone Ettore, eroe dell’evento, capace cioè di leggere e di adeguarsi alle diverse situazioni, eroe capace di essere guerriero impavido dall’elmo straordinario e spaventoso e padre tenero e amorevole che si toglie quello stesso elmo, simbolo e segno della propria forza, per non spaventare il suo piccolo bimbo Astianatte.
Nella polis del V secolo, poi, quando i valori degli eroi mitici non rispondono più al sentire del popolo, nasce una nuova modalità di racconto, la tragedia, che si presenta come dramma sociale, non riducibile al travaglio dell’uomo di fronte a se stesso; la tragedia non rappresenta la realtà sociale, la mette in discussione; è istituzione sociale, non semplice forma d’arte. Il dramma porta sulla scena un’antica leggenda di eroi, il passato della città, un passato abbastanza lontano da rendere evidenti i contrasti con le nuove forme di pensiero giuridico e politico, ma abbastanza vicino perché i conflitti di valore siano ancora dolorosamente risentiti e il confronto non cessi di effettuarsi. Il mito viene guardato con l’occhio del cittadino, da qui nasce il dramma. I valori dei miti sono stati condannati e rigettati perché la polis potesse sorgere, ma sono anche ciò da cui la polis stessa è partita per costituirsi (Vernant, Vidal-Naquet, 1976). L’eroe tragico si presenta, allora, alla scena come eroe mitico e contemporaneamente come la non più plausibilità del repertorio comportamentale dell’eroe mitico, ma soprattutto della visione che esso dava del mondo. Si presenta con la maschera tesa a sottolineare la distanza tra il coro, personaggio collettivo e anonimo, ed il personaggio tragico, lontano dalla condizione ordinaria del cittadino, tra la comunità civica e l’eroe. Distanza evidenziata anche dalle scelte stilistico espressive, quasi, però, in forma paradossale: il linguaggio del coro è lirico, proprio della poesia che aveva celebrato le virtù esemplari dell’eroe dei tempi antichi; il linguaggio dell’eroe, il trimetro [3], è quello che più si avvicina alla conversazione (Aristotele, 334 a.C., 1449, 24-28). Da un lato attraverso il gioco scenico il personaggio tragico pare ingigantirsi ed assumere anche fisicamente le dimensioni dell’essere eccezionale, dall’altro attraverso la lingua si trova accostato all’uomo comune, rappresentandosi così compiutamente la tensione tra l’universo del mito e quello della città. Gi eroi sono fatti oggetto di dibattito, sono messi in causa, si sono trasformati da modello a problema (Vernant, Vidal-Naquet, 1976).
Tratto comune riscontrabile nei canti degli aedi [4], tradizione orale da cui nascono i poemi omerici, e la tragedia del V secolo è il loro essere atto pubblico, tratto che giustifica l’assunto secondo cui i racconti rappresentano il sistema valoriale della società. I poemi omerici sono stati messi per iscritto solo durante l’età di Pisistrato, intorno al VI secolo a.C. La trascrizione dei racconti tramandati dalla tradizione orale fu atto politico teso a formalizzare il patrimonio culturale della civiltà greca, un patrimonio che il pubblico, ascoltando i racconti di aedi e rapsodi, imparava a conoscere e a rispettare e perciò a mantenere. Il canto, e i poemi poi, è stato per la civiltà greca strumento sociale potente, perché, rappresentando il modello positivo di chi alle regole riusciva ad adeguarsi, gettava discredito, vergogna, su chi non riusciva. Vergogna personale, intima, ma anche pubblica, riprovazione sociale. Le storie degli aedi non erano del resto fissate, i rapsodi non erano depositari di racconti certi e fissi, ma, come è proprio di ogni tradizione orale, le loro storie si modificavano continuamente per l’apporto continuo e insopprimibile del pubblico, che con il proprio gradimento, con il proprio sentire segnava la via lungo la quale il narratore doveva narrare. Ugualmente gli agoni [5] drammatici dell’Atene del V secolo erano affare pubblico, tanto che si assegnava all’arconte [6] la designazione dei cittadini ateniesi più abbienti obbligati ad assumersi la coregia, l’allestimento cioè e l’organizzazione degli spettacoli, ed ancora l’onere dell’allestimento del coro e l'ammissione, a proprio arbitrio, dei concorrenti al concorso drammatico. La rappresentazione teatrale era percepita come occasione di formazione civica, esperienza collettiva in cui venivano trasmessi i valori della polis, l’ezoV (ezos), in cui la comunità si sentiva tale (Canfora, 2001). Atto pubblico, momento sociale tanto che ai poveri veniva concesso un obolo per potervi partecipare. Non si assisteva ad uno spettacolo, ma vi si partecipava, ci si metteva in discussione, come venivano messi in discussione, problematizzati gli antichi valori mitici. Nella fruizione dell’arte del resto, secondo Gadamer, si attua una esperienza che “modifica profondamente colui che la fa” (1960, p. 191): non evasione estatica, ludica od onirica, ma cambiamento del proprio stare del mondo, per cui l’esperienza estetica è “un modo dell’autocomprensione” (Gadamer, 1960, p. 217).
Il pubblico torna protagonista nel pensiero post modernista, teso a creare una cultura viva, in continua trasformazione proprio come i racconti degli aedi. E’ cambiato il contesto, le storie sono uscite dai libri, trasformate in fumetto, cortometraggio, pagina web, videogioco. Ciò che si propone la letteratura post moderna è creare nuovi mondi, come fece la cultura ellenica. La mitologia greca è così complessa anche perché al fascino delle storie principali si univa la frustrazione per dettagli non chiariti, personaggi secondari troppo sacrificati, diramazioni possibili, ma appena accennate. Un mondo nuovo imperfetto, incompiuto, perciò affascinante e che spinge a integrarlo (Wu Ming 1 e 2, 2007): di fronte ad esso non ascoltatori o spettatori passivi. Arte come evento, quindi, di cui artista e interprete-lettore sono partecipi. L’incontro con l’opera d’arte è affettività di un incontro con un altro che mi comprende più di quanto io non lo comprenda (Gadamer, 1960).
Espressione della cultura postmoderna è il tenente Drogo, protagonista de Il deserto dei Tartari di Buzzati. Tenente di prima nomina si ritrova alla fortezza Bastiani al limitare di un deserto già teatro di mitiche battaglie con mitici nemici tartari. Lì consuma la sua vita, dedito alla vita militare, scandita e regolata da norme cui non si può prescindere: “il formalismo militare, in quella fortezza, sembrava aver creato un insano capolavoro” (p. 54). Un regolamento che appare vuoto, inutile; inutile però solo agli occhi di chi non vive alla fortezza, essenziale invece per chi consuma ai limiti di quel deserto la vita. Solo nel conformarsi pienamente al regolamento, infatti, acquista senso la vita trascorsa nell’attesa di un avvenimento che avrebbe regalato valore eroico a ogni soldato, lo avrebbe consacrato per sempre alla gloria; solo nel rispetto del regolamento si trova il significato e la possibilità stessa dell’esperienza quotidiana e delle relazioni sociali: “il torpore delle abitudini, la vanità militare, l’amore domestico per le quotidiane mura” (p. 90) sono le routine in cui si incarna e si salvaguardia la realtà della vita di tutti i giorni che viene riaffermata dall’interazione dell’individuo con gli altri (Berger, Luckmann, 1966).Ermeneutica, semiotica e linguistica nella prospettiva postmoderna: testo e mondo
Il mondo non è qualcosa di distinto dalle visioni entro le quali si presenta
Gadamer, 1960L’ermeneutica è il riconoscimento della lingua come visione del mondo; nel linguaggio si rappresenta il fatto stesso che gli uomini abbiano un mondo, cioè che si rapportino al mondo. Così il linguaggio, in quanto appropriazione ed insieme interpretazione, viene ad essere l’autentico evento ermeneutico (Gadamer, 1960).
Il senso comune percepisce la realtà quotidiana attraverso interpretazioni pre e semi scientifiche accettate come ovvie, che danno alla realtà stessa ordine e significato; con il linguaggio la realtà viene costantemente oggettivizzata e riempita di oggetti significativi: nell’atto del parlare i significati da soggettivi diventano oggettivi, reali in quanto classificati secondo ordine generali di significato (Berger, Luckmann, 1966).
Lyotard (1979), partendo dal concetto di giochi linguistici di Wittgenstein (1967), osserva che “ogni enunciato deve essere considerato una mossa fatta nell’ambito di giochi [7]” (p. 23). Proseguendo su questa linea, il concetto di semiotica che si è andata a sviluppare a partire dalla metà del secolo scorso non distingue una interpretazione testuale da una interpretazione del mondo, ma considera il testo come modalità narrativa di un mondo e il mondo alla stregua di un racconto. Non c’è testo come non c’è mondo, ma c’è una narrazione che viene interpretata grazie ad attese e inferenze, che non può prescindere dal sistema valoriale e culturale di riferimento dell’interpretante, sia la narrazione scritta nera su bianco od orale, sia l’atto comunicativo consapevole e intenzionale o meno. Testo quindi diviene, secondo una definizione di Peirce (1931-58), ogni porzione del mondo sensibile sulla quale qualcuno decide di esercitare la propria attività interpretativa.
Si legge un testo e si guarda il mondo attraverso quelli che Goffman (1974) definisce frameworks, strutture primarie fondamentali per riconoscere le situazioni della vita quotidiana e per organizzare la propria esperienza, senza le quali ci si troverebbe come Nataŝa di Guerra e pace (Tolstoj, 1865-69) che a teatro invece del dramma vede assi di legno su cui cantano delle persone, senza potere così interpretare il significato di ciò che avviene sul palcoscenico. “Quando l’individuo della nostra società occidentale riconosce un particolare evento, tende […] a implicare in questa risposta una o più strutture o schemi d’interpretazione di un certo tipo che può essere definito primario”, primario in quanto non dipendente da o riferibile ad alcuna interpretazione precedente o originale, ma capace di tradurre ciò che altrimenti rappresenterebbe un aspetto senza significato della situazione in qualcosa di significativo (Goffman, 1974, p.. 65).
Così quando ci si attinge alla lettura di una narrazione, testuale o no, si parte da un sistema di attese che concorre a formulare una vaga pre comprensione del significato generale da attribuire al testo, che verrà poi messa alla prova dall’evidenza testuale che potrà confermarla e quindi rafforzarla o dimostrarla inadeguata, spingendo ad una ulteriore penetrazione della narrazione (Pisanty, Pellery, 2004).
La stessa linguistica, allontanandosi dalla concezione strutturalista di De Saussure (1916) , fa propri i principi dell’etnografia e studia il linguaggio non come un sistema di codici prefissato e inalterabile, ma nel suo muoversi all’interno di sistemi di significato (Hymes, 1974; Geertz, 1995; Austin 1962; Searle 1969).
E’ la prospettiva della etnometodologia di Garfinkel (1967) secondo la quale gli uomini organizzano la propria vita quotidiana secondo i principi utilizzati per rendere spiegabile la quotidianità stessa. Insistendo quindi sugli aspetti interpretativi e negoziali della vita sociale, diviene necessario indagare i metodi con cui si dà senso alla propria esistenza attraverso i resoconti delle proprie azioni.
Sono le descrizioni dense di Geertz, secondo il quale “fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di ‘costruire una lettura di’) un manoscritto straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato” (1973, p.17).
E’ la prospettiva all’interno della quale si può inserire anche la metafora drammaturgica di Goffman (1959, 1961), che vede ogni atto quotidiano e l’intera vita sociale come riconducibile ad una rappresentazione teatrale in cui gli attori, gli individui cioè che assumono e interpretano dei ruoli, recitano su diversi palcoscenici, agendo alternativamente sulla ribalta o nel retroscena, dando una loro versione di personaggi formalizzati e codificati.Le realtà multiple e il linguaggio
E’ l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrud la sua forma
Calvino, Le città invisibili“William James invece di chiedere che cos’è la realtà, diede una piega fenomenologica sovversiva alla questione, mettendo in corsivo la seguente domanda: sotto quali circostanze pensiamo che le cose siano reali?” Goffman (1959).
Goffman, partendo dal principio delle realtà multiple o sub-universi del reale sviluppato da James (1890) e ripreso da Schutz (1945) con le ‘province finite di senso’, sostiene nel suo Frame Analysis (1974) che non si deve cercare un significato ultimo e univoco al di sotto dell’epifenomeno, ma che, attraverso la disamina delle diverse modalità con cui l’esperienza ci appare, si possa isolare un numero finito e ricorrente di frames, di contesti di comprensione che ci permettono di esperire il mondo e di dare un senso alle varie situazioni sociali. E’ come se si incorniciasse un pezzo di realtà e lo si ancorasse a ciò che è accaduto prima, a ciò che accade intorno a noi e a ciò che si pensa possa accadere; è una manipolazione in qualche modo delle diverse sfere di realtà nelle quali ci troviamo che dimostra che il mondo considerato come reale non è più reale di uno qualsiasi dei mondi irreali che noi stessi costruiamo a partire dai suoi elementi (Cerulo, 2006). La realtà è sempre incorniciata dalla nostra attenzione: “non sono gli stati interni dell’individuo che determinano il senso della sua azione, ma sono piuttosto i frames che circondano le attività che permettono di inferire un senso alla soggettività degli individui che vi sono coinvolti” (Giglioli, 2007, p. XVII).
“Guai a credere che a un nome corrisponda l’Essere nella sua identità al noein (noein) al pensiero, e guai a credere che veramente sia l’apparire kata doxan (catà doxan), secondo l'opinione.. […] Il mondo dell’apparire è spiegabile e apprendibile solo secondo la sua oscillante, sempre inquieta misura. Il vero non è altro che il fatto” (Cacciari, 2007, p. 19), l’evenit hic et nunc cuique, ciò che accade qui, ora e a qualcuno. Non si tratta di pluralismo ontologico, ma di spostamenti possibili dell’accento sulla realtà: “la coscienza è sempre più interessata ad una parte del proprio oggetto che all’altra, ed accoglie e scarta, ovvero sceglie, per tutto il tempo in cui pensa” (James, 1892, p. 115).
La realtà non si rispecchia nella mente dello scienziato (Rorty, 1979) né nella scienza; le onnicomprensive interpretazioni della realtà ontologicamente monolitica non hanno più forza conoscitiva né descrittiva. La cultura e la scienza divengono narrazioni. Secondo la prospettiva postmodernista non si deve cercare una spiegazione univoca e assoluta della realtà, un modello universale, ma guardare il mondo come è nella sua dimensione spazio-temporale, guardare il particolare dove prima si cercava l´universale.
I sistemi umani diventano sistemi linguistici, generatori di linguaggio e di significato: un sistema socio-culturale è il prodotto della comunicazione sociale. Il significato è socialmente costruito: non vi è comprensione senza azione comunicativa, senza un dialogo generatore di significato all´interno del sistema per il quale tale comunicazione ha rilevanza (Anderson, Goolishian, 1992). “Il linguaggio che una persona utilizza è molto personale, contiene metafore [8] accuratamente selezionate. Quando le parole vengono espresse, le parole stesse e tutte le emozioni che vi sono racchiuse vengono trasmesse agli altri attraverso l´atto fisiologico del respirare. Questo atto, che fa parte dell´atto di creare significato, è davvero molto personale. Mette in movimento l’aria, crea un vento che tocca gli altri con le sue parole e le sue emozioni. Chi ascolta non è solo colui che riceve una storia, ma anche colui che, in quanto presente, viene incoraggiato a produrre una storia. E questo produrre è l’atto della costituzione del proprio sé” (Andersen, 1992, p. 87).
“Nulla è reale, se non vi è accordo sociale sul fatto che lo sia” (Gergen, Gergen, 2005, p. 8): è la narrazione che determina la conoscenza, interpretazione della realtà.. Ognuno appartiene ad una tradizione che rappresenta le relazioni di senso attraverso cui ogni cosa viene definita; i paradigmi assunti come validi da una comunità sono i motori della costruzione di senso della realtà, che non è cosa data, ontologicamente predefinita, cui la scienza possa giungere attraverso progressive approssimazioni, ma è un significato condiviso: i concetti della scienza sono prodotti storici, ogni narrazione è co-costruzione sociale di significati con effetti pratici nella vita quotidiana (es. sedia /oggetto antico, cfr. giochi linguistici di Wittgenstein, 1953): le parole non traggono il loro significato dalla loro capacità di descrivere oggettivamente la realtà, ma dall´uso nell´interscambio sociale, nei giochi di vita. Le storie sono i prodotti delle relazioni umane e da esse e all`interno di esse acquistano senso. “Non esiste una incontrovertibile verità sociale, solo storie sul mondo che raccontiamo a noi stessi e agli altri” (Hoffman, 1818, p. 33).
Così gli ufficiali della Fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari “in esilio” (p. 195) si inventano una storia, si mettono a parlare dei Tartari: “pareva evidente che le speranze di un tempo, le illusioni guerriere, l’aspettazione del nemico del nord, non fossero stati che un pretesto per dare senso alla vita” (p. 191).
La nostra stessa possibilità di descrizione è limitata dal sistema linguistico cui apparteniamo, è il prodotto di convenzioni verbali condivise (Marzari, 1992, p. 17). “I teorici della costruzione sociale postulano che le idee, i concetti e i ricordi abbiano origine nell´interscambio sociale e vengano mediati attraverso il linguaggio” (Hoffman, 1818, p. 21) e quindi non possano essere conosciuti con certezza oggettiva. Il senso di sé o narrazione non è un elemento della narrazione da interpretare, è il nostro parlare con gli altri. “Noi riveliamo noi stessi in ogni momento attraverso la narrativa che costruiamo con gli altri” (Lax, 1992, pp. 92-93). “La nostra capacità di creare insieme significati, oggi, dipende da una storia” Gergen, 2005, p. 30). Sono le tradizioni che si condividono con gli altri che rendono possibile innamorarsi, gioire o arrabbiarsi per un gesto o una parola, pur non essendo noi determinati dalla episteme, dal sistema implicito di norme che definisce lo spazio di possibilità all’interno del quale si sviluppa il sapere di ogni società (Foucault, 1966).
Non è casuale, così, che anche la letteratura per esprimere la solitudine parli dell’impossibilità della comunicazione: “che triste sbaglio, pensò Drogo, forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c’è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l’amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne perché ci accorgiamo di essere completamente soli” (Buzzati, 1945, p. 96).
Bachtin (1968) nella sua analisi delle opere di Dostoevskij insiste sull´impossibilità della parola di essere esternamente oggettiva, una parola giudizio, una parola sull´oggetto, in quanto la parala è allocutoria, "parlare significa rivolgersi a qualcuno; parlare di sé significa rivolgersi con la propria parola a se stesso, parlare di un altro significa rivolgersi a un altro, parlare del mondo rivolgersi al mondo. (…) La parola non conosce l´oggetto al di fuori del rivolgersi all´oggetto" (pp. 311-312). L´uomo stesso non può essere fatto oggetto di una analisi oggettiva; scoprire l´uomo significa raffigurare il rapporto comunicativo di lui con l´altro, la relazione comunicativa e l´interazione reciproca: “non è possibile impadronirsi dell’uomo interiore, osservarlo e comprenderlo, se se ne fa oggetto di analisi indifferente e neutrale; non si può impadronirsene nemmeno se ci si fonde con lui, se si penetra in lui col sentimento. No, a lui ci si può accostare e lo si può scoprire – o meglio, indurlo a rivelarsi – solo comunicando con lui, dia logicamente” (p. 331). Il dialogo è azione; attraverso il dialogo “l´uomo non si manifesta all´esterno, ma diviene per la prima volta ciò che è” per gli altri e per sé. “Essere significa dialogare reciprocamente” (p. 331). “Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell´essere” (p. 332). Il linguaggio è dialogo, “ha il suo vero essere nel dialogo, cioè nell’esercizio dell’intendersi” (Gadamer, 1960, p. 907).
Nessuna verità locale è dunque Verità Universale; non esistono strutture universali, ma una pluralità di idee sul mondo (Maturana, Varela, 1987); “la realtà esiste in quanto pensata, costruita da individui e gruppi sociali nel proprio contesto storicamente e socialmente determinato” (Mecacci, 1999, p. 77).Note
[2] La civiltà greca viene così definita in antropologia per sottolineare l’importanza che in essa aveva la fama, per ottenere la quale l’uomo accettava di adeguarsi al sistema di valori positivi proposti dai modelli eroici e quindi alle regole di convivenza civile. La gloria (kleoV cleos) diveniva metro per qualsiasi scelta, anche di fronte alla morte, forse soprattutto dinnanzi ad essa in quanto era la relazione con la morte il tratto distintivo dell’eroe. Così Ettore: “rovinato adesso il mio popolo per la mia sventatezza, / mi vergogno di fronte ai Troiani, alle troiane dai pepli fluenti, / che non dica qualcuno, benché peggiore di me: / ‘Ettore, presumendo della sua forza, ha distrutto l’esercito’./ Diranno proprio così: sarebbe allora per me assai meglio, / battendomi faccia a faccia, o uccidere Achille e tornare, / o essere ucciso da lui gloriosamente sotto le mura” Il XXII , 104-110.
[3] Il trimetro giambico è un verso formato da tre metri, unità di misura del verso, ciascuno formato a suo volta da due piedi, unità ritmiche, giambici (È ¾). Viene utilizzato nelle parti dialogate della tragedia per la sua estrema versatilità.
[4] L’aedo e il rapsodo, dal greco ᾄδειν, adein, cantare, è il cantore girovago, spesso rappresentato come cieco come i profeti, che compone e recita brani poetici, per lo più tratti da racconti tradizionali e da lui elaborati nel contatto diretto con il pubblico.
[5] Cfr nota 9
[6] L’arcontato è una alta magistratura collegiale ed annuale dell’antica Grecia. In Atene dapprima gli arconti erano tre, il basileus o arconte re, che presiedeva agli atti di culto e le feste Lenee, l’arconte eponimo, che dava il proprio nome all'anno nelle cronologie e che presiedeva le grandi Dionisiee, l’arconte polemarco, preposto all'esercito.. Il numero degli arconti fu poi portato a dieci con la riforma di Clistene del 508 a.C., che prevedeva la divisione dello stato in dieci tribù territoriali; dal 487 a.C. gli arconti non furono più eletti, ma sorteggiati.
[7] Si tratta dell’ultima di tre osservazioni che Lyotard compie sui giochi linguistici. La prima è che le regole dei giochi non hanno legittimazione in sé, ma sono frutto di un contratto tra i giocatori; la seconda è che non esiste un gioco senza regole e che una mossa che non rispetti le regole stabilite per quel gioco non vi appartiene.
[8] Sull’utilizzo delle metafore nella costruzione dei discorsi si veda Leary, 1984, Heiddeger, 1959, Gadamer, 1960; Lax, 1992).
Parte seconda: l’eroe nella letteratura
Premessa: gli eroi omerici
Achille, eroe della società della vergogna
Odisseo, eroe del ritorno
L’eroe tragico
Il tenente Drogo, eroe della complessità